Bambara – Stray

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

“Stray” è un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo.

Al post-punk mancava un sottogenere noir-pulp. Capiamoci: il filone gotico è stato ampiamente sviscerato nei minimi dettagli dai gruppi dark figli dei Banshees e dei Bauhaus. In questo millennio, però, nessun esponente della categoria ancora aveva provato a mettere da parte il distorsore per collegare la chitarra a un effetto pulito come lo spring, quel riverbero antico come gli amplificatori su cui è stato installato e che ha fatto la fortuna in musica del surf e, sul versante cinematografico, dei film di Tarantino. Un suono inconfondibile e allarmante, una pennata capace di lasciarci solcare le onde del Pacifico come di farci vivere un duello nel far west e, ora, di indurci a pogare come forsennati sotto il palco virtuale e fisico (sempre che si facciano vedere da queste parti) dei Bambara, la prima band ascrivibile a questa categoria e pronta a stravolgere le regole di un mercato dominato dal buonismo facile e accogliente dei suoni fuzz filtrati dall’overdrive.

I Bambara sono due gemelli e un bassista di Athens, Georgia, cresciuti artisticamente a Brooklyn. Annoverano una voce da Nick Cave o, per chi è pratico di queste lande impervie, una versione intonata, tentacolare e suadente di Joe Casey, una chitarra tutt’altro che brit e poco comune per il filone di appartenenza, una scrittura da Leonard Cohen, una sezione ritmica brutale rodata sui più comuni standard del post-punk, pronta a cavalcare sui tamburi e a impennarsi quando c’è da partire al galoppo nei momenti più tirati. Facce poco raccomandabili, approccio da brutti e cattivi, uno sporco terzetto fin troppo trasandato per l’accuratezza con cui suonano la loro visione delle cose.

La capacità dei Bambara di proporre suoni così apparentemente eterogenei come se fosse la cosa più naturale del mondo, usati come sottofondo per una narrazione baritonale, a tratti declamata ma sempre ruvida e diretta, non può che prendere alle viscere e lasciare il segno. Il loro distinto uso della narrativa macabra con il valore aggiunto della surrealtà dà luogo a suggestive incursioni nei bassifondi dell’indie. Partiti nel 2013 con un disco noise – Dreamviolence – che a dargli dell’inascoltabile è fargli un complimento, si inizia a ragionare con il secondo lavoro, “Swarm”, uscito nel 2016. Giunti al quarto album, e sull’onda dello straordinario “Shadow Of Everything” pubblicato un paio di anni fa, la band rilascia un disco come “Stray” e per me il 2020 musicale potrebbe chiudersi qui. I Bambara hanno già vinto tutto. Non chiedo altro.

“Stray” è infatti un pugno nello stomaco, una congiura emotiva efficace per i discepoli del masochismo sonoro, quel popolo che ascolta musica impegnativa con l’obiettivo di stare male perché, davvero, farci piacere un disco non deprimente è una cosa che non ha proprio senso. Quindi perché non calcare sul registro della sofferenza? Perché non usare lo spleen come backdoor per prendere il controllo dell’ansia della gente e dominare il mondo?

E potete sezionare “Stray” sino agli atomi e a tutte le particelle che vi girano intorno senza trovare una vibrazione che infierisca con cattiveria gratuita laddove è già la vita in sé a essere spietata. Un disco in cui non c’è speranza, ha già detto tutto e non ammette contraddittori per mediare una redenzione. Anche perché è la morte a essere protagonista. L’unico ente in grado di dire punto e basta: possiamo andare avanti a parlarne e a scriverne per anni, secoli e millenni ma non c’è un dato di fatto più realisticamente dominante e crudele.

Il paesaggio sonoro dei Bambara è crepuscolare, polveroso, dark-western, smisuratamente violento negli spazi incommensurabili del mistero, una prateria sconfinata e buia dove al posto del coyote regna l’ossessivo lamento della chitarra vibrante. Gli stessi tappeti di tastiere di cui le dieci tracce sono ricche risultano la cosa più lontana dall’elettronica possibile. Un fattore imprescindibile nella fotografia di un album altamente cinematografico, la costante coloritura virante verso le tonalità notturne e volta a ristabilire i parametri della fragilità delle cose umane, la parola miseria tatuata sul retro del labbro – sono parole dei Bambara – che ci ricorda il nostro destino ogni volta che sorridiamo allo specchio.

“Stray” è di sicuro un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo. La parola fine su tutto con il paradosso stesso dei Bambara, al momento una delle band più vitali al mondo con il chiodo fisso dell’andarsene da qui.

quando alla radio mettono una canzone che conosco

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C’è una bella differenza tra mettere un disco o un pezzo su Spotify e sentire la stessa canzone alla radio. La musica suona diversamente quando la programma uno sconosciuto perché subentra il fattore sorpresa, l’effetto che fanno le affinità elettive di qualcuno negli studi di un’emittente che ha i tuoi stessi gusti e le conseguenti farfalle nella pancia che ti si liberano quando ti destreggi nel traffico o quelle rare volte in cui sei a casa e hai la radio accesa. Parte il pezzo e la prima cosa che pensi è oddio, ma è proprio quel pezzo che conosco solo io? Poi ti sinceri che nell’autoradio non ci sia un CD o che qualcuno non ti abbia hackerato il telefono per collegarlo all’hi-fi della macchina e abbia lanciato uno tra i milioni di mp3 contenuti nei centoventotto giga di memoria su cui ci sta praticamente tutto il sapere musicale umano degno dei tuoi gusti. Quindi ti convinci che è tutto vero: da qualche parte lassù nell’etere c’è un dj o un algoritmo che ha scoperto, come te, quella band e quell’album che credevi di essere l’unico sulla terra. E se è così c’è speranza per il genere umano e il mondo che abbiamo preso in prestito. Non tutto volge verso le brutture indotte dalla musica di merda, non fa tutto schifo, non è tutto reggaeton, la vita è bella. Cantiamo insieme alla radio le parole di questa canzone che conosciamo solo io e chi l’ha trasmessa prima che finisca e prepariamoci a scoprirne tante altre, prima di tutti gli altri.

Bartees Strange – Live Forever

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“Who gave them fuckin’ niggas those rock guitars?”, cantavano i Body Count. Bartees Strange è il nuovo miracolo americano, un artista in grado di amalgamare con disinvoltura indie-rock e melodie black con incursioni nell’elettronica e nel songwriting, in un esordio destinato a lasciare il segno.

Nulla dev’essere per forza bianco o nero, tantomeno la musica. In tempi di continua polarizzazione, gli artisti che mescolano le carte in tavola risaltano per originalità e disorientano l’ascoltatore in cerca di sicurezze. Ma mentre è più comune un bianco che si cimenta con il soul – forse perché noi siamo più rodati nel colonialismo culturale – un’anima black che decide di dedicarsi all’indie-rock e al post-punk fa notizia come il cane che morde l’uomo. I precedenti, d’altronde, si contano sulle dita di una mano: Kele Okereke dei Bloc Party, Tunde Adepimbe dei TV On The Radio, le Big Joanie e Franklin James Fisher degli Algiers. Come loro, l’esperienza di Bartees Strange, al secolo Bartees Cox Jr., si distingue come qualcosa di completamente diverso e fuori dagli schemi. 

Il fatto è che non tutti hanno le opportunità e, di conseguenza, gli strumenti per spingersi oltre i muri sociali e culturali in cui si nasce, si cresce e, qualche volta, si muore. Bartees Strange è figlio di una cantante lirica e di un ufficiale dell’esercito. Nasce a Ipswich, in Inghilterra, cresce in Oklahoma e sfoga la sua vena artistica tra Washington e Brooklyn. Ci immaginiamo che ci sia questa vocazione alla multi-cittadinanza alla base della sua ispirazione. Dopo qualche esperienza come membro di band, che con il senno di poi si capisce perché gli andavano strette come un paio di scarpe di qualche numero più piccole, scopre una florida e raffinata vena cantautorale e decide di non darsi delle regole. Resta colpito proprio dai TV on The Radio e dal loro approccio a maglie larghe alle categorie e ai generi, un’attitudine che solo pochi posti al mondo come Brooklyn riescono a trasmetterti. A marzo di quest’anno, in piena clausura da pandemia, dà alle stampe un EP comprensivo di una serie di cover di brani dei The National. E pochi mesi dopo, a rendere meno horribilis questo duemila e venti, pubblica “Live Forever”, un disco di esordio che, credetemi, è una delle novità più sorprendenti uscite ultimamente.

In un’intervista a NPR, Bartees Strange sostiene di sentirsi equidistante da rapper e cantanti, consapevole del fatto che il rock, in tutte le sue derivazioni, abbia perso un’enorme opportunità di crescita e di evoluzione limitando il coinvolgimento della componente afro-americana. Dall’altra parte, l’hip-hop in questo momento in America ha una enorme influenza sul resto della cultura e l’indie-rock, almeno nei testi, sembra cantare sempre la stessa canzone e risulta stagnante. Ma Washington ha il microclima più adatto a favorire gli innesti tra due mondi spesso antitetici, una città dalla forte tradizione black ma anche punk e hardcore. “Live Forever” è la sintesi di tutto questo.

L’esordio di Bartees Strange è composto da undici tracce e altrettante anime, ma con un’unica identità riconoscibilissima di fondo. Si può scegliere da quale brano partire, come nelle storie interattive che prevedono percorsi differenti, e lasciarsi guidare in modi diversi. “Jealousy”, il primo brano, è una vera e propria sessione di riscaldamento. Solo voce e tappeti di sottofondo, una breve cerimonia di iniziazione per addentrarsi nel disco con l’equipaggiamento più adatto. Si spengono le luci e inizia lo spettacolo. “Mustang” è una bomba di synth su chitarre elettriche, e c’è poco da aggiungere. Sulla stessa scia è “Boomer”, scelto come singolo, un brano che forse costituisce l’episodio meno personale dell’album, con qualche ingenuità di arrangiamento e di soluzioni armoniche. 

Ma, subito dopo, si comincia a fare sul serio: dalle atmosfere trap di “Kelly Rowland” ai ricami di fiati jazz su batteria breakbeat di “In a Cab”, preludio al perfetto di mix di cantato soul su base post-punk di “Stone Meadows”, la vera punta di diamante di “Live Forever”. Ha dell’incredibile anche il capovolgimento electro successivo, “Flagey God” e il profondissimo trip-hop di “Mossblerd”, in quota Tricky. Fino a quando, a sbiancare il tutto, ecco la chitarra acustica americanissima e il songwriting di “Far”, una traccia dai due volti, pronta a prendere il volo con l’accelerazione e la voce distorta della coda. “Fallen for You” è la seconda parentesi unplugged del disco, una struggente ballad che spazia nel country e che prepara il campo all’elettronica di “Ghost”, l’ultima canzone, tanto eterea all’inizio quanto quadrata e regolare da metà in poi, un compendio di tutto quello che Bartees Strange sa fare bene. 

Non c’è un momento in cui, osservando il progetto “Life Forever”, si percepisca un’impressione di confusione. È la straordinaria vocalità black a fare da collante a un mondo variopinto in cui, orfani di una personalità così decisiva, faremmo a gara a separare i colori. Nulla dev’essere per forza bianco o nero, sostiene Bartees Strange. C’è un po’ di tutto in tutto, e la sua musica ne è la prova.

Plastic Bertrand – Ça Plane Pour Moi

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Cosa ci fanno Plastic Bertrand, gli autori di “Disco Samba”, Mike Bongiorno e Gianni Boncompagni nella stessa storia? Clicca qui per scoprire chi è il vero “re del divano”, il protagonista di “Ça plane pour moi”.

Ci sono due momenti emblematici che trasmettono perfettamente l’idea del pressapochismo con cui la tv generalista italiana e i suoi attempati conduttori – altrettanto generalisti – trattano i fenomeni musicali più iconoclasti della musica pop (ma in generale tutta la musica): Mike Bongiorno che chiede a Martin Gore se è un maschio o una femmina – ancora oggi Youtube gronda di vergogna – e Gianni Boncompagni che, introducendo l’esibizione in playback di Plastic Bertrand a Discoring, traduce “Ça plane pour moi” con un imbarazzante “Questo aeroplano è per me”.

Altro che lost in translation. Non è una questione di conoscere o no la lingua francese, piuttosto una legge naturale che, a scuola, si insegna sin dalla prima versione in classe di qualunque lingua si approcci, non importa se viva o morta: se in italiano non ha un senso compiuto, probabilmente alla base c’è un problema. Possibile che Gianni Boncompagni, leggendo i dialoghi che la produzione gli avrà fornito prima di andare in onda, non si sia accorto che  “Questo aeroplano è per me” non significa un cazzo?

“Ça plane pour moi” invece è un modo francese per dire che “va tutto alla grande” e traduce, nel titolo di uno dei brani più famosi della storia del genere musicale più pazzo del mondo, uno stato d’animo nichilista ed epicureo post-scopata, in un contesto decisamente punk.

E qui perdonatemi, perché è il momento di fare dei distinguo. Se tutti vogliono insegnarci che cos’era il punk, anche io voglio dire la mia a proposito. C’è chi il punk lo preferisce duro e puro a combattere la legge (anche se, a parte l’accezione di Jello Biafra, è sempre la legge a vincere). C’è chi il punk lo vuole anarchico, tossico e stravaccato sui marciapiedi con dei cani randagi appresso. Chi pensa che siano punk i Green Day e gli Offspring e tutta quella roba alla Blink 182 che passavano su MTV. C’è poi la fazione della grande truffa del punk, quella delle svastiche sulla maglietta per far parlare di sé, di Malcolm Mclaren e Vivienne Westwood e il resto del circo che, comunque, incarna la vera essenza del punk, quella di fottersene di tutto e tutti, rubare ai ricchi ascoltatori per dare a se stessi. No future e, nell’attesa, troviamo tutti i modi per fare dei soldi.

D’altronde, privo del rigore, dell’autorevolezza e persino della storiografia che oggi l’Internet conferisce a qualunque sciocchezza frutto del genere umano, il punk raccontato dai canali media italiani mainstream all’ascoltatore italiano mediamente mainstream, alla sua uscita somigliava più a un fenomeno da baraccone che a un movimento di ribellione. Di tutto il sistema emergevano sicuramente la musica ma, soprattutto, l’estetica, la moda e le spille da balia a perforare le guance. Pensate solo ad Anna Oxa a Sanremo nel ‘78: a quell’epoca ci si vestiva da punk a carnevale trascendendo il senso di fenomeno di costume. E sotto questo punto di vista, il progetto “Ça plane pour moi” ha centrato perfettamente l’obiettivo. Persino uno come Joe Strummer ne ha parlato bene. Un pezzo dannatamente buono in grado di far muovere i piedi anche ai morti, dirà della hit portata al successo da Plastic Bertrand. Aggiungendo che, ai tempi dei Clash, tra i puristi non si poteva nemmeno menzionare ma, probabilmente, era molto meglio di molti altri dischi considerati ortodossi.

Il fatto è che nel 1977 circolano due canzoni con la stessa base musicale registrata da tre sessionman – dotati di una certa dimestichezza nella tecnica del glam-punk dell’epoca – in uno studio di Bruxelles. La prima è “Jet Boy, Jet Girl”, brano interpretato dal cantante degli Elton Motello, band inglese di passaggio in Belgio per un tour. La seconda è “Ça plane pour moi”, cantata dall’autore stesso della musica del brano (il compositore e produttore belga Lou Deprijck, un volpone oggi noto anche per essere stato il leader dei Two Man Sound, quelli di “Disco Samba” o, meglio, la vera sigla dei trenini che non portano a nulla ma, nel mentre, ti consentono di festeggiare il nuovo anno o una sconfitta elettorale di un partito di destra) e unita a un compendio di cliché del punk londinese, ridotto a testo scritto da Yvan Lacomblez.

La canzone probabilmente non supera i confini del Benelux sino a quando Deprijck scopre Plastic Bertrand e punta tutto – compresa la sua hit – su una produzione in perfetta linea con i tempi e con quel punk da “tutto quanto fa spettacolo”. Non si sa bene come sia andata la cosa, ma il singolo esce con la voce di Deprijck e la faccia di Plastic, sicuramente più convincente da un punto di vista commerciale e con una coreografia per le esibizioni decisamente più appropriata.

Un buon affare, con il senno di poi, se consideriamo le 900mila copie vendute in tutto il mondo e le diverse scalate ai piani alti delle chart internazionali. Negli USA “Ça plane pour moi” supera “Je t’aime… moi non plus” tra le melodie in lingua francese più conosciute. In Italia diventa una canzone per tutti, dai più grandi ai più piccini: piace molto quel cantante strambo che saltella nei più popolari programmi TV con il suo scioglilingua da baguette. E meno male che, oltre a Boncompagni, dalle nostre parti in pochi masticano bene lo slang francese, perché nel testo si parla di sesso sullo zerbino, misteriosi flash a quattro colori, ragazze discinte e consenzienti e postumi da bisboccia. Considerati i tempi, ci sarebbero stati tutti gli estremi per l’ostracismo, nell’austera tv di matrice democristiana.

Scambiata per un orecchiabile vaniloquio onomatopeico, la hit di Plastic Bertrand sfonda una backdoor e, come succede nei virus informatici, prepara l’infiltrazione di molto altro punk, sia sul versante pop che su quello culturale, ben più rischioso per le convenzioni sociali. Del resto la canzone contiene diversi fattori che trasmettono sicurezza anche al pubblico più borghese: tutto sommato è suonata bene e in modo preciso (si capisce, insomma, che dietro a chitarra e batteria non ci sono musicisti realmente punk) e poi c’è quel sax un po’ rock’n’roll vecchio stile che doppia la tonica degli accordi, un escamotage che aggiunge tiro al brano – come se ne avesse bisogno – e che ricorda certe atmosfere glam dei Roxy Music.

Perfetta per il pogo, “Ça plane pour moi” ha avuto diverse re-interpretazioni nel tempo, a partire da quella di Deprijck stesso nel 2006, un remake originale più che una cover e tale da suscitare una querelle legale tra il produttore e Plastic Bertrand stesso su chi avesse davvero prestato la voce al successo del 77. Oltre a quelle celebri dei Telex – quasi contemporanea – e dei The Presidents of the United States of America, la versione più originale risulta però quella techno-punk di Leila K, anni luce da quelle lagne dei Nouvelle Vague che l’hanno inclusa nel loro terzo capitolo di una formula diventata pallosa già nel primo. Grazie al suo brano d’esordio, Plastic Bertrand è diventato poi il personaggio che conosciamo, a metà tra macchietta da Eurovision Song Contest e canzonette da juke-box. Di punk in lui è rimasta solo l’indole, la capacità di adattarsi a dove tira il vento del mercato. Che poi, del punk, è la morte sua.

post tutto

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Se questo è molto peggio di un annus horribilis, non ricordo un florilegio di novità artistiche sul fronte post-punk condensate in così pochi mesi. Ma più che post-punk, siamo in piena post-apocalisse. Anzi, post-tutto. Peccato che ai nostri ragazzi del rock non gliene possa fregare di meno, perché ci sarebbe da distruggere intere città con la smania di pogo che emana da dischi come quello dei Protomartyr, quello dei Bambara, il nuovo dei Fontaines DC, l’esordio dei The Wants, i Team Picture, tutta roba che trovate nella mia playlist qui a fianco. Come se non bastasse, è appena uscito “Ultra Mono” degli Idles, e io me lo sono preso dritto in faccia.

54-46, il codice del paradiso

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Ieri ci ha lasciato Toots Hibbert, leader dei Toots & the Maytals. Tra i settanta e gli ottanta, comunque molto prima dei Duran Duran, il reggae era molto di moda e trasversale. Lo ascoltavano i punk, per il gemellaggio tra giamaicani e inglesi nei sobborghi di Londra. Lo ascoltavano i fighetti fan dei Police, facile intuire il perché. Lo ascoltavano i tossici per via delle canne e l’equidistanza tra le Marlboro e l’eroina. Lo ascoltavano gli ascoltatori di musica generalista per via di Bob Marley. Lo ascoltavano i new wavers grazie alla 2-Tone, l’etichetta degli ibridi tra post-punk e ska. Lo ascoltavano i ragazzini perché costituiva un’emancipazione dalla musica dei fratelli maggiori, ancora fermi ai cantautori. Almeno, io ero un ragazzino delle medie e non ascoltavo altro. Tra i miei eroi, accanto a Linton Kwesi Johnson, Burning Spear, Doctor Alimantado e gli UB40 di Signing Off, c’erano proprio Toots & the Maytals col loro reggae delle radici. Uno dei suoi pezzi più conosciuti è proprio “54-46 that’s my number”, se vi interessa qui trovate qualche info in più su quella che è una delle 100 mie canzoni preferite. Il mio rammarico è di non averlo mai visto dal vivo. C’era un festival di periferia, più di dieci anni fa da queste parti. Ogni edizione prevedeva una serata dedicata al reggae e io speravo che gli organizzatori lo ingaggiassero prima o poi ma niente, non è mai stato invitato. Peccato. Non ho avuto mai il piacere di contribuire al suo celebre botta e risposta con la folla prevista dalla sua hit, quando dice 
you give it to me one time
e tutti BOM
you give it to me two times
e tutti BOM BOM
you give it to me three times
e tutti BOM BOM BOM
you give it to me four times
e tutti BOM BOM BOM BOM
e il pezzo riprende, con il suo ipnotico levare. Addio Toots Hibbert, che Jah ti sia riconoscente per la bella musica che ci hai donato.

De La Soul – Say No Go

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Prima di trasformarsi in una delle più ricche potenze multinazionali sulla faccia della terra, l’hip hop è stato per anni un laboratorio artigianale in cui minuziosamente si saldavano insieme rimasugli di poco conto e scarti di altre canzoni per creare le basi sulle quali poi darci dentro con le rime.

A cavallo tra le due ragioni sociali, mentre l’old school si trasformava in qualcosa di nuovo e assai più remunerativo, i De La Soul pubblicavano uno degli album più influenti in quota rap di fine anni ottanta che è stato “3 Feet High and Rising”. Un disco su cui, se lo conoscete, c’è ben poco da aggiungere: la sua portata innovativa e dirompente è stata già ampiamente riconosciuta dalla storia della musica intera e, ad oggi, il suo valore resta indubbiamente ineguagliato.

Lo stile dei De La Soul costituisce una pietra miliare nel rap perché dimostra che un altro hip hop è possibile: ritmiche più rilassate, atmosfere hippie e psichedeliche e, soprattutto, campionamenti come se piovesse.

Probabilmente il pezzo che trasmette meglio tutto questo è “Say no go”, pubblicato come singolo nel 1989, apparentemente una hit danzereccia ma con testo tutt’altro che spensierato: si parla di crack e dell’epidemia che dilaga nelle città statunitensi (come la celebre “New Jack City” di Ice T). Qui in Italia, al netto della comprensione delle parti cantate, “Say no go” contribuisce principalmente a far conoscere il terzetto di fricchettoni afroamericani di Long Island e ad accompagnare i ragazzini in estasi sul dancefloor. Del resto la struttura si presta perfettamente a fare uscire di testa l’ascoltatore: il brano è una stratificazione di loop ritmici e armonici che conferiscono un carattere ipnotico senza precedenti. Sai quando inizia e, se ti prende bene, potrebbe anche non finire più.

Se volete divertirvi a identificare i sample di cui il successo dei De La Soul è composto ecco qualche dritta. “Crossword Puzzle” di Sly Stone è il brano che dà l’ossatura a “Say no go” e la sua andatura funky, compresi gli stacchi di fiati, la chitarra wah-wah e persino le rispostine di Hammond vengono da lì. Il loop di batteria che pompa il ritmo è campionato di sana pianta dalle prime battute di “I’m Chief Kamanawanalea” dei Turtles. Il giro di basso è di “I Can’t Go For That (No Can Do)” di Hall & Oates, abbassato di una quarta o giù di lì. L’inconfondibile fraseggio ricorsivo di chitarra – il vero tormentone psichedelico del pezzo – è preso da “Baby let me take you” dei Detroit Emeralds. Il tutto mescolato, riassemblato e accelerato di qualche bpm per renderlo mixabile al meglio con la house più conosciuta dei tempi.

Forse ingiustamente penalizzati dalla loro originalità, in un momento in cui l’hip hop imponeva appartenenza, parametri, canoni ed estetica ben definita, i De La Soul dopo il grande successo di “3 Feet High and Rising” non hanno avuto il giusto riconoscimento che meritavano. Vincitori, anni dopo, di un Grammy Awards per la co-partecipazione a fianco dei Gorillaz, li ricordiamo con affetto per il loro look che informale è dir poco (troppo scazzati per essere un gruppo rap) e il loro atteggiamento hip hop un po’ buontempone e disimpegnato, caratteristiche ostentate proprio nel video di questa canzone sulla quale stare fermi resta difficile ancora oggi, a trent’anni di distanza.

The Psychedelic Furs – Made of Rain

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

«Dove ho già sentito questo cantante?» è la domanda che, immaginiamo, si sia posto il popolo millennial dell’indie/post-punk all’uscita di “Don’t Believe”, primo singolo tratto da “Made Of Rain” e pubblicato dai The Psychedelic Furs alle soglie del lockdown.

Ce li figuriamo, questi giovani con la t-shirt di “Unknown Pleasures”, darsi una manata sulla fronte – proprio come quando troviamo la soluzione al tarlo che ci arrovella e non dà tregua – ed esclamare una qualsiasi formula di eureka per aver finalmente scoperto l’archetipo che più di una delle band sulla cresta dell’hype dei nostri giorni ha adottato come marchio di fabbrica, un’alternativa meno vincolante e scontata al timbro di Ian Curtis. Richard Butler è proprio quella voce lì, così iconica per gli anni ottanta come per il duemila e rotti, perfetta tanto per “Pretty in Pink” quanto per “Stranger Things”.

E chissà se è tutta questa attenzione per gli anni ottanta ad aver spinto i The Psychedelic Furs a rimettersi in gioco, se alla base ci sia un desiderio di riscatto per ricordare al mondo che la splendida musica che c’è adesso deriva da un nucleo di padri fondatori che vede proprio loro occupare i primi anelli di una ancestrale catena sonora.

Ma anche se fosse tutto premeditato – un calcolo interessato per sincerarsi che il mondo ha ancora voglia di spendere soldi in dischi, riproduzioni di singoli sulle piattaforme di juke-box virtuali, partecipazioni con mascherina ai concerti live perché, tutto sommato, qualche soldo ai ragazzi del nuovo millennio e ai cinquantenni che arrivano da quello precedente lo si può ancora scucire – chi se ne importa.

Dei The Psychedelic Furs non si avevano novità dall’uscita di “World Outside” nel 91 e dall’impiego della cover di “How soon is now?” dei The Smiths ad opera dei Love Spit Love – band guidata da Richard Butler con il chitarrista Richard Fortus, confermato in “Made Of Rain” in veste di produttore – come sigla della serie tv “Streghe”, a cavallo tra i due secoli.

Facile quindi immaginare il mix di entusiasmo e perplessità alla vigilia dell’uscita di “Made Of Rain”. I sessantenni fanno rock per i sessantenni perché le nuove generazioni sono – giustamente – interessate ad altro e a volte non darsi pace perché – ancora giustamente – sei attaccato alla vita e non vuoi toglierti di mezzo può risultare, come minimo, patetico.

Non è certo il caso dei The Psychedelic Furs. Delle tre vie – 1. tornare a ruggire con lo stesso vigore dei vent’anni con il rischio di dover abbassare di almeno due toni tutte le canzoni e di alzare almeno di due misure la taglia dei pantaloni in pelle; 2. presentarsi in versione acustica come vecchi nostalgici con la sbronza triste che il pubblico si ferma ad ascoltare per pietà come si fa con il nonno che racconta per la trecentesima volta lo stesso aneddoto – hanno scelto la più saggia: i suoni sono gli stessi di sempre, il genere si sente che è suonato da persone non più giovanissime, la forza emotiva è il risultato di chi vuole aumentare la propria arte con il valore aggiunto della maturità, consapevole che essere anziani e rockettari (nel caso dei nostri, post-punkettoni) può risultare, tutto sommato, una condizione dignitosissima.

Un’esperienza vissuta in prima persona, descritta in “I Am The Boy That Invented Rock ‘n’ Roll”, la traccia che introduce “Made Of Rain”, raccontata in versi come “The breathless air the frozen tide / The greenless spring the timeless night / The suicidal drunken dance / The sense that things will fall apart”.

E chissà che la pioggia, elemento di cui è composto questo nuovo lavoro, non sia proprio la stessa che scendeva copiosa nel video di “Heaven”, un evergreen da chissà quante centinaia di migliaia di copie vendute, uno dei brani più rappresentativi degli anni ottanta che ha contribuito alla fama mondiale della band inglese. Di sicuro, seppur privo di un singolo da hit parade di altrettanta portata, “Made of Rain” è ricco di canzoni di indubbia qualità a partire dai singoli che hanno anticipato l’uscita dell’album: “Don’t Believe”, con il suo manto psichedelico, la romantica “You’ll Be Mine”, “Come All Ye Faithful” costruita tutta su un solo accordo e soprattutto “No One” e la sua atmosfera dark-wave. A completare la varietà degli ascolti contribuiscono canzoni come “Ash Wednesday”, un sofisticato lento piuttosto anomalo per la band di Butler e certe reminiscenze eigthies come “Wrong Way” o “Turn Your Back On Me”.

Meno graffiante dei tempi d’oro ma molto più autentico di analoghe iniziative di altri artisti ultra-sessantenni, “Made of Rain” si candida a costituire l’album del ritorno in grande stile per una delle band che ha influenzato di più i gruppi dell’attuale rinascimento post-punk, gli stessi nei quali abbiamo riposto tutte le speranze affinché al rock sia conferito il lustro che merita. I The Psychedelic Furs, anziché tentare una sconveniente operazione nostalgia della band che ci faceva ballare ai tempi di “Talk Talk Talk”, dimostrano di saper guardare avanti senza rinnegare le radici, reinterpretando da grandi, anzi, da anziani il genere che li ha resi unici, consapevoli di aver già detto tutto sul loro personalissimo ed eclettico post-punk allora.

le canzoni dell’estate

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Nel 1984 Luca Carboni mi dava la stessa sensazione della sabbia nei calzini quando ritorno dalla spiaggia libera e non c’è nemmeno un rubinetto per sciacquarsi i piedi prima di rimettersi le scarpe e sì, vado al mare con le scarpe e i calzini perché le infradito mi danno la stessa sensazione che mi dava Luca Carboni nel 1984 e poi, se si tratta di guidare, non ci sono molte alternative. Invece adesso, guarda un po’, lo ascolto volentieri anche se è da due o tre singoli che pubblica lo stesso pezzo.

Ascoltate prima qui


poi qui

e infine qui

ma che ne importa, mi direte, intanto è dal 1984 che Luca Carboni non sbaglia un discolo.

mentre si danza

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Le cose che mi fanno più paura dell’Internet sono questa

questa

ma soprattutto questa.