le canzoni di Natale

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Le festività natalizie sono quel periodo dell’anno in cui, Whamageddon a parte, sale la voglia più che mai di ascoltare della musica a tema. Il fatto è che le canzoni sul 25 dicembre non sono infinite. Anzi, la storia ci insegna che sono sempre le stesse (let it snow, let it snow, let it snow). C’è qualche artista che si lancia a comporre nuova musica ad hoc ma è tutto da vedere se, da quel momento in poi, avrà dignità di far parte della tradizione. Ci sono riusciti gli Wham, appunto, e pochi altri, ma per motivi che hanno ben poco da spartire con la religione cattolica. Quest’anno si è scomodato Robbie Williams, per dire, ma solo i posteri potranno testimoniare se l’ex Take That ha colto nel segno. La varietà delle playlist presenti in giro non riserva nessuna sorpresa. Se ne deduce che il Natale impone il rispetto di dogmi difficili da smantellare anche in ambito musicale, a meno che non si scelga volutamente di comportarsi da bastian contrari come quel mio amico che festeggia provocatoriamente con menu anti-clericali ed etnici in una sorta di dispetto al sentimento e al gusto della massa. Anch’io, nel corso della cena della vigilia, dopo qualche brindisi di troppo ho messo i Bauhaus, ma – come avrete inteso – non è questo il punto. Un approccio serio alla soluzione del problema mette in stretta correlazione consuetudini come candele accese, lucine intermittenti e tovaglioli con le renne con la musica classica. Risulta fondamentale, però, conoscere i grandi compositori del passato, e se pensate che questo articolo ora prosegua con una guida alle migliori cantate o messe per organo e corali vi consiglio di sintonizzarvi su una radio più competente o, comunque, cercare un blogger specializzato. Per una efficace colonna sonora di musica classica natalizia occorre infatti conoscere che cosa proporre ai propri commensali: il rischio che qualcosa vada storto non è così remoto. La selezione dev’essere nelle corde di chi l’ascolta. Anni di canzonette, purtroppo, hanno reso ancor più faticosa la musica cosiddetta colta e l’impegno richiesto – anche nel caso costituisca un mero background alla conversazione – può guastare l’atmosfera.

Il 2020 è stato però il 250esimo anniversario della nascita del più importante di tutti, Ludwig van Beethoven. Un evento passato in sordina (non è una battuta) (nemmeno questa) per l’emergenza sanitaria che ha piallato qualsiasi guizzo di vitalità dell’anno più nefasto dalla seconda guerra mondiale. Qualche giorno fa Rai5 ha trasmesso una maratona-Beethoven per un binge-listening delle nove sinfonie dirette da Claudio Abbado, una estenuante programmazione che mi ha reso felice. Ogni mattina di Natale ho infatti l’abitudine di aprire il cofanetto con la collezione in vinile delle sinfonie dirette da Von Karajan – era di mio papà – e riempire l’atmosfera di casa con quell’esplosivo concentrato di genio musicale. Non so se Beethoven sia natalizio, probabilmente no. Ascoltandolo, però, ho la sensazione di assistere al passaggio di un piccolo pezzo di storia proprio qui, attraverso questi luoghi domestici in cui si svolge una vita ordinaria con un tornado che spazza via la quotidianità grazie alla potenza di un impeto immortale. Forse alle canzoni di Natale si chiede altro. Si chiede di celebrare lo spirito. Con Beethoven è tutto il contrario, ma a me va bene così.

spotify

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Che non si possa più regalare dischi per Natale è un vero peccato. Far trovare un 33 giri sotto l’albero, un pacco dal volume e dalle dimensioni così facilmente prevedibili, resta il modo più personalizzato – eguagliato solo da un libro – di dire qualcosa proponendo al destinatario una parte di sé. Da quando la musica è interamente gratuita e disponibile in tempo reale ci affligge la percezione che sia stata depauperata della sua essenza artistica nonché depotenziata del piacere della sua scoperta. Per questo, scegliere un CD o un disco significa regalare solo un supporto o un involucro o, peggio, il materiale con cui è costruito, in poche parole una metonimia. Tanto vale adattarsi al mercato e dare in dono smartphone o altri elettrodomestici. Contenitori virtuali.

Così quest’anno, per Natale, mi sono regalato Spotify Premium. Lo aveva già in dotazione mia figlia dalla scorsa primavera e mi è bastato aggiungere qualche euro al mese per avere un account in più. Dopo la sbornia del peer to peer e dell’mp3, da quando ha ripreso ad essere prodotto sono tornato ad approvvigionarmi di musica prevalentemente comprando vinile quando disponibile a un prezzo accettabile. In realtà rientro nella categoria dei collezionisti e acquirenti ossessivo-compulsivi, profilo che spero di mantenere malgrado il passaggio alla piattaforma digitale. Utilizzavo già ampiamente Spotify ma nella versione gratuita, tollerando senza particolari fastidi le dovute interruzioni pubblicitarie ogni tot brani. Ho collegato un vecchio tablet all’impianto stereo e usavo la piattaforma di streaming nei casi in cui prevedevo di non aver voglia di correre a girare il disco sul lato B dopo pochi brani, che poi è la scocciatura su cui la civiltà musicale più pigra della storia risulta più intransigente. Poi è successo che anche su tablet, come già accadeva su smartphone, la versione free ha ridotto pesantemente le funzionalità. L’altra situazione tipo in cui ascolto musica in formato playlist è quando vado a correre. Ho una libreria da 64 gb di mp3 copiati su una schedina di memoria, un’enormità di canzoni per la gente normale ma che a me stava sempre più stretta.

Il passaggio a Spotify sta cambiando le mie abitudini? Avevo giurato che non avrei mai permesso ad un algoritmo di impormi una scaletta. Invece trovo in parte utili i consigli di ascolto correlati ai dischi e artisti che mi piacciono. Quando corro, malgrado il consumo dei dati (si lo so che potrei scaricare le canzoni direttamente da Spotify ma allora saremmo da capo), è impagabile il fatto di aggiungere in coda tutta la musica che mi viene in mente, per non parlare di interi album o compilation tematiche altrui, tenendo conto che posso skippare tutto quello che non ho voglia di sentire al momento. In casa, giradischi a parte, ho la musica diffusa in continuazione e con i dispositivi connessi al wifi domestico con lo stesso account posso scegliere gli ascolti dallo smartphone a distanza, mentre il tablet è amplificato dall’impianto. Inoltre mi risulta più facile reperire i dischi da recensire su Loudd, senza doverli scaricare con Soulseek o tramite i siti di file sharing. Mi sento anche più onesto, a dirla tutta, sperando che gli artisti e i compositori traggano profitto dalle mie scelte. Spero, comunque, di continuare ad acquistare dischi in vinile. Sarebbe un peccato perdere questa meravigliosa abitudine.

la musica nell’anno di mani pulite (e igienizzate)

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Allora com’è andato questo 2020, chiedono gli alieni che sbarcano sulla terra per le loro ricerche di mercato. Di merda, risponde all’unisono il genere umano ormai rassegnato, sempre che a parlare con la mascherina davanti alla bocca si comprenda qualcosa. La retorica ci ricorda che è dai momenti di tensione che nascono le opere d’arte più durature, anche se avremmo preferito un po’ meno ispirazione in cambio di contesti più banali come l’anno scorso, quello prima o tutto il resto che si è avvicendato ma rigorosamente non antecedente al 1946. Ci saremmo accontentati di uscire, andare al cinema, darci i baci sulle guance quando ci si incontra, abbracciare i nostri genitori anziani senza paura di dar loro il virus di grazia e, comunque, di prodotti culturali atrettanto eccezionali. Invece ci siamo trovati dieci mesi su dodici sul cosiddetto filo del rasoio. In ambasce per una pandemia bella e impossibile dal sapor estremo-orientale, poi barricati in casa a guardare il mondo da un oblò annoiandoci un po’ mentre la natura si riappropriava dei suoi spazi mandando in avanscoperta scoiattoli e cinghiali, quindi eroi tutti giovani e belli decisi a rinascere nell’estate per mandare poi tutto in vacca nell’autunno successivo fino agli ultimi scampoli dell’anno, quando ancora non sappiamo che minchia succederà e cosa potremo o non potremo fare da dopodomani.

Consoliamoci allora, per quanto possibile, con i dischi usciti quest’anno. Ho scelto un po’ di album che è difficile posizionare in una classifica. Sarebbero tutti numero uno, al vertice di qualcosa che non saprei definire, ciascuno con i suoi punti di forza e con le sue debolezze.

C’è stato tutto un fiorire e rifiorire di post-punk e suoi derivati.
Su tutti “Stray” dei Bambara

“Container” dei The Wants

“A Hero’s Death” dei Fontaines DC

“There Is No Year” degli Algiers

“Ultimate Success Today” dei Protomartyr,

“Just Look At That Sky” dei Ganser

“The Menace Of Mechanical Music” dei Team Picture

“Fantasize Your Ghost” delle Ohmme

“Auto-Pain” dei Deeper

“Void Moments” dei FACS

“Unmask Whoever” degli Activity

“Every Bad” dei Porridge Radio

e anche “Kompromat” degli “I Like Trains”.

Mi sono anche piaciuti molto “Kitchen Sink” di Nadine Shah

“100% Yes” dei Melt Yourself Down

“Shabrang” di Sevdaliza

i dischi omonimi dei Muzz di Paul Banks

e dei Keleketla! (ovvero i Cold Cut in salsa afrobeat)

“Live Forever” del sorprendente Bartees Strange

l’elegante “Off Off On” di This is the Kit

l’esotico “Zan” di Liraz

il cerebrale “Automatic” dei Mildilife

e “Konke” dei sudafricani Seba Kaapstad.

Di italiani nemmeno uno? Due, in verità. “L’ultimo a morire” di Speranza

e “Canale paesaggi” dei Post Nebbia.

Ci vediamo nel 2021. Almeno, questo è il buon proposito.

eroi

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Una delle mie massime perversioni è quella di rintracciare i membri della band con cui suonavo nei primi anni ottanta e di conquistare i live di X Factor riproponendo gli inediti del repertorio di allora con la strumentazione originale, per dimostrare al mondo l’attualità di new wave e post-punk e che molto del sound che oggi va per la maggiore è lo stesso di quando ci nutrivamo delle nostre ambizioni rock. Il problema, come è facile immaginare, è che tutti e sei abbiamo abbondantemente superato i cinquanta – il cantante ne ha sessantadue, per dire, anche se li porta egregiamente – e finiremmo per interpretare il ruolo dei fenomeni da baraccone, quelli che vengono selezionati dai curatori del programma nella categoria – trasversale alle altre – dei casi umani. Anziani che non si vogliono arrendere e che sarebbe meglio giocassero alle bocce al circolo. Da qualche settimana, però, i sempreverdi hanno un’opportunità in più. Ha preso il via “The voice of Italy senior”, un programma il cui core lo si evince sin dal titolo, che è patetico a partire dai giudici, passando per la presentatrice, per arrivare sino ai partecipanti e al loro seguito che, come in tutti i talent musicali, segue l’esibizione del nonno dietro le quinte. Anche se il rock non se lo fila più nessuno ed è l’equivalente del liscio che andava per la maggiore tra la terza età quando facevamo le elementari noi, chi è invecchiato lasciando essiccare il proprio sogno nel cassetto oggi ha innumerevoli modi per riprendere le fila delle proprie velleità. La spettacolarizzazione dei cosiddetti anni d’oro e il fatto che il fattore comune del genere umano sia la dilatazione della giovinezza sino alla RSA impone palinsesti dedicati in cui gli unici spettatori della tv generalista possano sentirsi rappresentati secondo i modelli più adeguati al mercato. D’altronde, la colonizzazione di certi social ad opera dei matusa ci sottopone quotidianamente vecchie glorie che si espongono nelle loro attitudini preferite: opinionisti, scrittori (io faccio parte di questi), sportivi e cantanti. Molti degli amici con cui condividevo il palco a vent’anni tempestano tutt’ora il web con le loro composizioni, anche in versione video. Un tempo le loro esibizioni dal vivo a sessant’anni con la Gibson in mano sarebbero state impensabili. Oggi nessuno ci fa più caso. O, meglio, quasi nessuno. Io consiglio sempre ai miei coetanei di farla finita con la musica, a meno che non si tratti di professionisti per i quali lo strumento che suonano è il loro lavoro. Nel nuovo talent da casa di riposo ho visto qualche arzillo settantenne che mi ha ispirato tenerezza ma molta carne da Maria De Filippi, irriducibili supergiovani che davvero, per fortuna non sono diventato così. La sola nota positiva del programma è la band che accompagna i cantanti, di qualità eccelsa. Ascoltate questa esecuzione di “Heroes”, fedelissima alla versione dell’album, fredda e sobria proprio come l’avevano pensata Brian Eno e Robert Fripp.

Matt Berninger – Serpentine Prison

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Matt Berninger è la voce dei The National, e i The National sono il corpo di Matt Berninger. Ecco perché “Serpentine Prison” è un disco a metà. Un album che, nella versione completa, sarebbe stato un nuovo bel disco di una band compatta che auspichiamo non si disgreghi mai.

Dovremmo boicottare i cantanti dei nostri gruppi preferiti che fanno i dischi da soli. O, meglio, se fanno dischi da solisti che avrebbero potuto fare, senza difficoltà, insieme al nostro gruppo preferito.

E dei cantanti dei nostri gruppi preferiti non dovremmo comprare i dischi da solisti perché contribuiremmo ad alimentare i loro sogni secessionisti, la visione egoriferita della one-man band e la consapevolezza del fatto che i cantanti dei nostri gruppi preferiti hanno avuto l’opportunità di fare un disco da solista solo grazie al nostro gruppo preferito che li ha condotti lì dove sono. A pubblicare un disco solista che, di riffa o di raffa, potrebbe costituire il primo di una nuova carriera senza il resto della band.

Una legge naturale che giustifica il motivo per cui ho procrastinato fino al tempo limite la recensione di “Serpentine Prison” di Matt Berninger, primo album solista dell’inconfondibile voce dei The National nonché cantante di uno dei miei gruppi preferiti.

Ho tirato alle lunghe per non ammettere che è un disco che ho prenotato su Amazon diversi mesi prima dell’uscita. Che ho anelato evitando gli spoiler dei singoli usciti nell’attesa, per godermelo nel suo insieme. Che ho decantato con parenti, amici e conoscenti e, sui social, persino con gente mai vista, senza averne ascoltato una sola nota. “A ottobre esce il disco solista di Matt Berninger”, scrivevo e dicevo a tutti cercando di dissimulare il fatto di non aver ancora capito se la cosa mi facesse sentire felice oppure no.

Poi il disco mi è stato recapitato da un corriere con la mascherina, come tutti i corrieri di questi tempi. Ho gettato il cartone dell’imballo e ho lavato accuratamente le mani prima di mettere il lato A sul piatto del giradischi. Ho lasciato che la puntina atterrasse sul vinile immacolato, ho contato fino a tre e poi la musica è iniziata e c’eravamo solo io e Matt Berninger. Matt Berninger e me. E nient’altro.

“My Eyes Are T-Shirt” passa in fretta, è uno di quei brani-ponte un po’ acustici che nei dischi dei The National portano da una canzone perfetta a quella dopo, altrettanto eccellente. Probabilmente “Serpentine Prison” – penso io – è stato previsto con un’introduzione di riscaldamento, una formula di warm-up per entrare nel vivo del disco.

Che strano, però. Anche “Distant Axis” è un po’ così. Una canzone dei The National un po’ più The National di quella di prima, di quelle in cui, dal vivo, i gemelli Dessner suonano con la chitarra in aria. Ma anche “One More Second” è una ballad dei The National in versione unplugged, come quelle che chiudono i live come “Vanderlyle Crybaby Geeks”, da suonare a tu per tu con il pubblico e a microfoni spenti. E comunque la cosa si ripete persino con “Loved So Little” e “Silver Springs”. A questo punto capisco tutto e mi precipito a trovare anche l’archetipo di quello che seguirà. “Oh Dearie”, “Take Me Out of Town” – che ha persino una di quelle sezioni fiati dei The National che mi piacciono tanto -, la suadente “Collar Of Your Shirt” e la più nationalista di questo disco, “All For Nothing”, fino all’ultima traccia, quella che dà addirittura il titolo al concept. A quel punto il disco finisce e mi trovo a trarre delle conclusioni.

Così mi faccio coraggio. Dove sono tutte le idee innovative che hanno spinto Matt Berninger ad avviare un progetto autonomo? Qual è il punto di non ritorno, quello che induce chi in musica vuole mettersi in proprio a fare cose per sfogare la componente artistica precedentemente repressa dal resto della band? Qual è la narrazione, quali sono i suoni e le atmosfere libere che gli altri dei The National avrebbero ridotto a una visione da branco, durante quel rito in cui, spinti da fame compositiva condivisa, i membri di un complesso stanano la preda creativa per sbranare l’ispirazione individuale?

Non ci sono scuse. “Serpentine Prison” è il nuovo disco dei The National, solo che senza i The National suona un po’ sottotono e ripetitivo. Una specie di demo composta da Matt Berninger nella sua cameretta, una versione provvisoria da portare al resto della band per dare la forma che i pezzi dei The National meritano grazie all’estro dei gemelli Dessner e a una sezione ritmica unica, nell’universo dell’indie rock. Un disco la cui copertina è molto più bella di quello che contiene, con i mocassini senza calzini che si intonano alla giacca e la posa mentre Matt si gratta l’orecchio, un cliché dell’indie rock. E lo so. Parlo come un uomo tradito, un amante deluso, un innamorato geloso. Ed è per questo che dovremmo boicottare “Serpentine Prison” di Matt Berninger.

Dovremmo boicottarlo, ma sarebbe una stupidaggine. Vai, Matt, anche questa volta il tuo timbro baritonale, il tuo approccio al songwriting, il tuo stile indie-snob hanno colto nel segno. Il disco l’ho comprato e l’avrei comprato anche se avessi ascoltato i singoli usciti prima, come comprerò qualunque cosa deciderai di registrare con chiunque. D’ora in poi, e per sempre.

non restare chiuso qui

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Qualche giorno fa ci ha lasciati Stefano D’Orazio, batterista dei Pooh. Che cosa c’entrano i Pooh con il rock o, addirittura, con il post-punk, chiederete voi. C’è anche la possibilità che la cosa non interessi affatto a nessuno ma ve lo dico lo stesso. La risposta è: non c’entrano nulla. Anzi. I Pooh sono agli antipodi del rock e, rispetto al post-punk, su un pianeta di un sistema solare che ha elementi base per la vita di natura opposta. Non fidatevi quindi di chi cerca di piazzare qualche successo delle loro origini in qualche compilation progressive e, nel caso, denunciate ogni provocatore alle autorità competenti. E a chi vi linka “Risveglio” su Youtube per dimostrare che potrebbe essere una delle innumerevoli parti strumentali di “Shine on you Crazy Diamonds” contenute nella facciata B di “Wish you were here” rispondetegli che, negli anni 70, cani e porci facevano lenti strumentali. E allora il Guardiano del Faro? E allora il PD? Con questo non voglio sminuire la portata di un lutto, ci mancherebbe, per giunta per colpa di questa maledetta peste che ci sta consumando vivi, e nutro il massimo rispetto per tutto l’entourage della band italiana che ha venduto più dischi di tutti i tempi, un record che risulta ancora insuperato. La storia dei Pooh potrebbe essere quella degli U2, e cioè quattro ragazzi e dignitosissimi musicisti pop che hanno deciso di stare per sempre insieme senza mollarsi mai più. Pochi però ricordano che Stefano D’Orazio, nel 2009, aveva abbandonato la formazione consolidata, per poi farvi ritorno nel 2015 in una storica iniziativa di reunion che ha coinvolto addirittura l’ex per eccellenza, Riccardo Fogli. Dei Pooh ho persino una copia in vinile di “Opera prima”, un disco che su Wikipedia rientra addirittura nella categorizzazione “rock sinfonico” ma penso sia dovuto solo alla presenza di parti orchestrate. E dei Pooh ho anche una bellissima maglietta sbagliata, che indosso soprattutto quando vado a far la spesa in estate perché ho notato che non passa inosservata all’utenza dei supermarket e alle addette alla cassa. I Pooh come gli Smiths? Chissà.

X Factor Mixtape 2020

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Anche se sembra che alla fine ci abbiano presi per sfinimento, in realtà potremmo far finta che si tratti dell’esatto contrario. Alla milionesima edizione di X Factor, intanto, noi che ascoltiamo solo musica di un certo livello abbiamo imparato a scriverne correttamente il nome senza trattino. Quindi, dopo centinaia di strade alternative prese per evitare di trovarci a tu per tu con i partecipanti e doverne in qualche modo parlare, con la nuova edizione non ci sono più scusanti. La popolare trasmissione è scesa a compromessi alzando e raffinando la qualità della proposta, ma è anche vero che con il passare del tempo – e con l’età – anche i più intransigenti detrattori si sono rincoglioniti, il che spiega il passaggio alla terza persona plurale. Di fronte a un gesto di riconciliazione così eclatante da raffreddare gli animi di entrambe le fazioni non si può non far finta di nulla.

E così eccoci qui: è uscito un vero e proprio mixtape con le 12 tracce presentate dai partecipanti alla prima puntata. Oggi i mixtape sono così di moda, che poi non sono altro che compilation come quelle del Festivalbar. Il fatto è che la canzonissima del duemila, questa volta, è partita con una batteria di inediti di tutti gli artisti, spostando così il focus della proposta musicale del programma da quello di uno spettacolo sulla musica e sulle dinamiche tra i giudici, in cui l’interpretazione delle cover era al centro e l’interprete un di cui, a quello di una manifestazione canora, nella quale il giudizio – almeno il primo – lo si deve esprimere sulla qualità dei pezzi originali presentati e non sul progetto in sé costituito dal (e costruito sul) personaggio che canta. In “X Factor Mixtape 2020”, pubblicato in formato streaming su Spotify, ci sono solo le canzoni dei 12 partecipanti nude e crude e nulla di più.

Il fatto è che degli innumerevoli cantanti e band protagonisti delle passate edizioni è rimasto ben poco. Quanti e quali hanno fatto della musica un mestiere e pubblicano dischi con regolarità? A me vengono in mente solo Giusy Ferreri, Marco Mengoni e Francesca Michielin. Mi sono dimenticato di qualcuno? Tutte le proposte, dalle più commerciali e tamarre sino alle più raffinate e di nicchia (i Bowland su tutti) sono sparite nel nulla, spremute e strumentalizzate al fine di far crescere la trasmissione per fare ascolti e attirare pubblicità – come è giusto che sia – e poi abbandonate al primo Autogrill come animali domestici che non servono più, una volta che il programma stava per giungere a destinazione. In più c’è un altro fattore di cui la produzione non poteva non tener conto. Una trasmissione live ai tempi di una pandemia globale e in crescita, in cui il pubblico presente gioca un ruolo decisivo con la sua imprevedibilità sulle performance che si tengono sul palco, doveva necessariamente essere ripensata.

Ne consegue che in un benchmarking con i talent musicali competitor diretti – Amici su tutti -, dal punto di vista della creazione di popstar, X Factor risulta un flop senza precedenti. In più, negli ultimi anni, sembra che la formula abbia rotto i maroni, a partire dai giudici buonisti che non aizzano più l’indotto del giornalettismo che va a caccia di gossip. 

E poi, diciamocelo, le cover belle e convincenti da portare in gara non sono infinite. L’edizione 2020 ha cambiato in parte le carte in tavola. I concorrenti questa volta partono con una personalità artistica – passatemi il termine – già sin troppo definita. Cantanti e band piuttosto inquadrati in un genere difficilmente scardinabile dal contest – c’è un abisso di versatilità rispetto agli altri anni, quando invece si prediligeva la duttilità della componente pop – e con inediti pronti all’uso. Vedremo quale sarà la strategia del programma per convincere il pubblico a non cambiare canale sino al termine di questa edizione, ora che quello che accadeva in finale – la presentazione di un pezzo inedito – è stato utilizzato come punto di partenza e non di arrivo. 

Da tutto ciò deriva una raccolta di 12 canzoni che sorprende non solo per qualità e varietà, ma perché rende superflua la gara in sé. Quest’anno X Factor potrebbe finire qui, con 12 partecipanti che sono saliti sul palco di un Sanremo qualunque e hanno fatto conoscere le loro canzoni. Il sistema è stato abbattuto? Abbiamo vinto noi? È ancora presto per dirlo, ma nel frattempo ascoltiamo le tracce perché potrebbero riservare delle sorprese.

Vi dico subito i miei preferiti, così arriviamo al dunque. I Little Pieces of Marmalade presentano un format inedito per il nostro mercato – batteria/voce e chitarra – e di difficile gestione. Il richiamo ai White Stripes è riduttivo perché sono molto meno fighetti e il brano, “One cup of Happiness”, se non fosse stato presentato alla corte di Cattelan probabilmente sarebbe già sulle playlist degli indie rocker più esigenti. Per non parlare di N.A.I.P., un vero outsider non solo per il programma ma anche per il mondo intero, raro esempio di techno-situazionismo intellettuale e industrial-demenziale, una versione trap-songwriting a metà tra Max Headroom e MGZ. 

Ci sono poi brani molto più mainstream ma, non per questo, meno azzeccati. “Cuore nero” di Blind ha un titolo che richiama trame nazifasciste e, per questo, fa un po’ paura ma poi si scopre che le teste rasate non c’entrano e, addirittura, contiene un ritornello che ti si pianta nel cervello ed è già una hit. I Melancholia sono un prodotto fatto e finito e in qualunque universo parallelo non avrebbero alcun bisogno di nessun trampolino di lancio se non quello dentro a loro stessi. Per non parlare di Cmqmartina, che incarna perfettamente l’idea di pop elettronico e raffinato che hanno i millennials, e del calcuttiano Santi, in perfetta quota cantautori indie. Gradevoli anche i richiami eighties dei Manitoba (su cui nessuno avrebbe scommesso due lire), l’italo-reggaeton di Vergo e persino le canzoni che sanno di già sentito, come Eda Marì, Bluefelix, Mydrama e Casadilego.

“Mixtape 2020” dà l’impressione di una scelta di campo di X Factor, prova di un modello ormai superato che lascia spazio a un nuovo approccio ai tempi del Covid-19, in cui la nuova normalità impone un punto di vista diverso. È chiaro che la decisione di passare la palla al valore di cantanti e band non è per nulla disinteressata. Ci saranno le cover e ci sarà lo spettacolo, come sempre. Ma la capacità di adattamento alla situazione e la necessità di non perdere in credibilità, in ascolti e, ovviamente, in raccolta pubblicitaria, questa volta, almeno in questa fase, è a tutto vantaggio dei concorrenti. Quindi va bene così.

Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate.

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

Nel 2020 c’è ancora qualcosa da dire sui Beatles? Almeno 416 pagine. È appena uscito per Arcana “Getting Better: le 250 migliori canzoni dei Beatles classificate, valutate, commentate”. L’autore, Leonardo Tondelli, è uno dei più seguiti blogger italiani e online da più tempo, considerando che ha pubblicato il primo post a gennaio 2001 e, da allora, non ha mai smesso. Insegnante presso una scuola secondaria di primo grado, Leonardo scrive di tutto ma è specializzato in creature leggendarie: le divinità della religione, quei santi che tiriamo in ballo nei momenti in cui canalizzare l’ira lenisce il dolore fisico, e le divinità della musica, come Bob Dylan e il quartetto di Liverpool, su cui invece a scherzarci su ne va della nostra incolumità.

Poco più di un anno fa Leonardo ha dato il via al suo progetto di pubblicare su Il Post una monumentale classifica di 250 brani dei Beatles, assumendosi la responsabilità di ordinarli dal “meno” migliore al “più” migliore, anche se è uno strafalcione che fa venire la pelle d’oca ma scrivere peggiore, a proposito di qualunque cosa inerente ai Beatles, credo sia vietato.

Gli articoli sono stati poi raccolti in un libro uscito lo scorso 22 ottobre, a cavallo tra quello che sarebbe stato l’ottantesimo compleanno di John Lennon e la commemorazione dei quarant’anni trascorsi dai tragici fatti del Dakota Building.

Abbiamo contattato Leonardo Tondelli per aver qualche dettaglio in più sulla sua opera.

Come definiresti il tuo libro? (Ti do un indizio: un’enciclopedia)

Sicuramente non un’enciclopedia, anche perché a questo punto della Storia nelle librerie di enciclopedie beatlesiane ne trovi quante vuoi. A me sembra che il mio sia un “commento”, nel senso letterario del termine (io ho una formazione letteraria, anche se per far soldi mi sono messo a scrivere di musica). In molte case esistono ancora vecchie edizioni commentate di classici della letteratura (in Italia perlopiù Dante e Manzoni): si tratta di versioni in cui un critico, con la scusa di spiegare qualche punto difficile, si abbandona a interpretazioni e digressioni, litigando spesso con altri commentatori che sono venuti prima di lui in una lunga discussione che a volte comincia nel medioevo. Ecco, io ho fatto una cosa simile, ma con le canzoni dei Beatles come palinsesto.

L’etichetta “musica” è la seconda in classifica, nel tuo blog, con 275 post (almeno oggi, perché “santi” le sta con il fiato sul collo subito dopo con 274). In che posizione si trovano i Beatles se dovessi fare una classifica degli ascolti nella tua vita?

Può darsi che siano il gruppo che ho ascoltato di più, ma bisogna dire che sono un ascoltatore molto ondivago e svogliato. Quel che è veramente importante è il momento in cui li ho ascoltati, ovvero tra il 14 e i 18 anni, per la lezione di libertà che hanno impartito alle mie orecchie. Poi per un bel po’ li ho accantonati, al punto che quando ho cominciato questo progetto mi sono reso conto che alcune canzoni non le avevo mai ascoltate.

Ci sono due aspetti sul lavoro che hai svolto per questo libro che hanno dell’incredibile e rendono la tua opera monumentale. Il primo è come sia possibile aver così tanto da scrivere su ciascuna canzone, anche se chi segue il tuo blog sa benissimo che hai tanto da scrivere su qualunque cosa. Quanto già conoscevi e quante ricerche hai fatto?

Ho la sensazione di avere studiato molto meno di quanto avrei dovuto – anche perché è cominciato tutto in modo semiserio, e quando la cosa è diventata più seria e mi hanno proposto di farci un libro, il tempo cominciava a mancare: poi c’è stato il lockdown, le cavallette, ecc. Però per esperienza a volte più conosci la materia e meno ti resta da scriverne. C’è anche da dire che per me è naturale, ogni volta che riascolto un disco o una canzone, andare a cercare su internet cosa ne ha scritto il tal critico o il tal musicista, per cui molte idee al momento di scrivere si erano già sedimentate.

Il secondo aspetto è che non c’è nulla di più soggettivo di una classifica musicale. Il tuo approccio – le migliori 250 canzoni – può suonare improbabile per chi non è avvezzo ai toni dei social network, in cui chiunque può smontare e rimontare qualunque teoria anche solo con un diploma all’università della vita, ironicamente e non. Perché quindi una classifica e non un semplice elenco in ordine alfabetico o cronologico?

La verità è che all’inizio volevo fare un mega-torneo in stile Wimbledon, con 256 canzoni (e a volte mi torna anche la voglia di farlo), che è proprio una classica trovata da social network, salvo che di solito la gente si stanca coi tornei a 32, per cui dopo un po’ ho optato per la più semplice classifica. L’idea di affrontare i Beatles in senso cronologico mi spaventava, perché molto facilmente sarebbe diventata una storia di quegli otto anni della loro vita; una cosa che già altri hanno fatto molto meglio di quanto possa fare io. Invece cominciando dalla canzone più ‘brutta’ ho avuto a disposizione un po’ di tempo per prendere coraggio e affrontare la materia: quando sono arrivato a metà comunque ho iniziato ad avere paura, ma ormai non potevo più tornare indietro. Nel libro comunque le canzoni sono organizzate in ordine cronologico.

E poi: come sei riuscito a decidere le posizioni? Quali criteri hai adottato?

Sin dall’inizio sapevo di non essere capace di preferire una canzone all’altra, e che quindi non avrei deciso nulla: ho preso tutte le classifiche già pubblicate on line (Rolling Stone, Mojo, NME, ecc.) e ho fatto una media.

Quante canzoni hai lasciato fuori dalla classifica?

L’idea originale era di non lasciarne nemmeno una. In realtà ho sacrificato almeno una trentina di cover incise alla BBC che erano pure interessanti ma avrebbero allungato troppo il brodo. Nel frattempo è uscito il cofanetto per il cinquantenario di Abbey Road con un inedito (Goodbye), che conoscevamo già ma che fino a questo momento non era considerato un brano dei Beatles, visto che McCartney lo aveva riservato a Mary Hopkins. Tra un po’ dovrebbe uscire il cofanetto di Let It Be con altri due o tre inediti, sempre abbastanza inessenziali. Sul libro non hanno trovato spazio neanche alcuni commenti che avevo scritto per brani di Anthology e alcune outtakes del Disco Bianco; il libro era già molto grosso così, e poi mi sembrava appropriato lasciare qualche ‘inedito’ per quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi sul Post.

Come ti sei organizzato il lavoro?

Non l’ho organizzato, come al solito ahimè. Mi è venuta in mente l’idea, ho scritto cinque o sei pezzi, li ho mandati al pazientissimo direttore del Post che mi ha dato il semaforo verde, e poi se avessi avuto il tempo avrei cominciato dai brani che conoscevo meglio e progressivamente avrei affrontato gli altri; invece come al solito mi sono ridotto all’ultimo momento. Probabilmente certe cose mi escono soltanto se sono un po’ sotto pressione. Quando poi ho firmato il contratto sono proprio andato in blocco – tempo qualche settimana e c’è stato il lockdown, che nel mio caso è stato molto faticoso, non uscivo più di casa ma avevo troppe cose da fare. Insomma non so neanch’io come sono riuscito a rispettare i tempi. Mi ha aiutato molto la famiglia, che ha capito che stavolta dovevo davvero farcela e ha avuto pazienza e pietà di me.

Come per i grandi classici della letteratura, nel tempo si sono succeduti fior di commentatori e opinionisti autorevoli sui Beatles. Come hai affrontato la sfida di aggiungere il tuo punto di vista e una rilettura su un fenomeno su cui è già stato detto e scritto molto?

Credo che la molla sia stata proprio questa: parlare di qualcosa di cui tutti hanno già parlato, partecipare a un’enorme discussione che dura da parecchio e continuerà dopo di me. A quel punto riuscire a scrivere qualcosa di nuovo è una sfida – poi ovviamente come in ogni sfida a volte si vince e a volte si perde.

É nato prima il progetto di somministrazione graduale per Il Post o l’idea del libro?

Quando ho iniziato ero abbastanza scettico sulla possibilità del libro, perché ci ho provato altre volte con altri progetti e per un motivo o per un altro non ce n’è uno che sia andato in porto. Forse stavolta ho scelto i Beatles perché davvero, di più popolare dei Beatles non c’è neanche Gesù Cristo (un libro su Gesù Cristo non me lo pubblicano, ci ho provato).

Nei tuoi pezzi pubblicati sul Post spesso ci sono video o altri contenuti a corredo. Hai dovuto adattare qualcosa per la versione stampata? Quanto è diverso scrivere per un blog/per il web rispetto a scrivere un libro? 

La differenza macroscopica in effetti è che i contenuti web sono più multimediali: per me è importante inserire immagini e video, non solo per combattere l’effetto ‘muro di testo’, ma anche per fornire esempi o offrire argomenti collaterali. Questa cosa non sarebbe possibile su un libro (mi piacerebbe fare libri illustrati, ma sarebbe ancora più complicato per me e costoso per il lettore). L’altra differenza più importante è che i blog sono sempre un po’ più egoriferiti dei libri, o perlomeno certe digressioni personali secondo me hanno più senso su un blog che su un libro. Il problema è che in certi casi (spero pochi), se avessi tagliato le mie digressioni personali non sarebbe restato un granché.

Sei un insegnante della secondaria di primo grado. Hai mai provato a intercettare gli ascolti dei tuoi alunni con l’obiettivo di farti chiedere chi erano i Beatles?

Una cosa che ho imparato alla svelta è: mai discutere di musica con gli undicenni. No sul serio, hanno gusti agghiaccianti, uno ci resta male – poi si ricorda cosa ascoltava lui a undici anni e mette le cose in prospettiva. Anche perché per un insegnante è molto facile ottenere l’effetto inverso, ovvero causare in loro un rigetto, e non vorrei mai che si mettessero a odiare i Beatles per causa mia. Per cui se proprio dobbiamo parlare di musica di solito è Young Signorino o Sfera Ebbasta. Se poi si mettono a odiare Young Signorino per causa mia, beh, pazienza.

Prima Dylan, poi i Beatles. Chi sarà il prossimo?

Non saprei, per ora sono spossato. Ho come la sensazione che ci sia ancora un po’ di lavorare su Dylan, ero praticamente arrivato alla fine ma poi ha messo fuori altri cinque o sei dischi, di cui uno di inediti.

Cosa diresti per convincere i lettori di Loudd a comprare una classifica di canzoni dei Beatles che non vede al primo posto “Helter Skelter”?

Beh dunque, posto che è un brano straordinario con una storia pazzesca, richiamerei l’attenzione sul fatto che all’inizio non suonava poi così “loud”, e se è diventato un monumento al frastuono non è per una esigenza espressiva: è stata una decisione presa a tavolino da McCartney, che voleva dimostrare a se stesso e ai rivali di poter suonare più “loud” di chiunque. Insomma è possibile, sotto il rumore, sentire un po’ di freddezza, di artificio. Ci sono altri brani dei Beatles che forse non suonano altrettanto rumorosi, ma in cui il rumore non è fine a se stesso: penso a Tomorrow Never Knows o She Said She Said, o per tornare a McCartney, persino un brano come Oh! Darling, dove si distrugge le corde vocali con una violenza molto più immediata e sincera.

Speranza – L’ultimo a morire

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La recensione di un disco d’esordio dovrebbe prevedere un nutrito preambolo di dettagli biografici. In un album di debutto non ci sono solo le prime canzoni ma c’è, soprattutto, la vita che l’ha preceduto e le esperienze che hanno portato l’artista sin lì, un trascorso di cui le canzoni sono un adattamento in musica. Come l’inizio di ogni cosa si tratta del momento più bello. Dall’uscita del primo disco nulla sarà più come prima.

In realtà di Speranza se ne parla già da un po’. Non a caso – giustamente – in “Casertexas” sostiene di incazzarsi quando, dopo vent’anni che scrive canzoni, c’è ancora chi lo chiama emergente. Come molti esponenti della scena rap e trap, il periodico rilascio di singoli sotto forma di video per Youtube e di brani pubblicati sulle piattaforme di streaming ne ha alimentato la fama grazie al passaparola. Nel caso di Speranza c’è anche il provvidenziale endorsement di un esponente del settore che ha attirato curiosità trasversale (“So’ n’eremita c”u tocco ‘e re Mida/Tiene l’invidia? Nun t’aggia dà cunto”, Camminante), ed è curioso che, per le nuove generazioni di artisti che hanno conosciuto l’industria discografica già allo sbando, la pubblicazione di un ellepì costituisca ancora un obiettivo di carriera.

Per i dettagli sulla sua vita, quindi, vi lascio a un’intervista rilasciata a Daria Bignardi – interessata, come già accaduto per l’analoga iniziativa con Massimo Pericolo, a confezionare un’adeguata collocazione a un fenomeno scomodo secondo un modello di catalogazione tale da consentire, al pubblico dei “grandi”, una facile rintracciabilità culturale all’interno del loro sistema, per ovvi fini di controllo (“Hê capito Savià? Me piglio pure ‘o stereo cu tutto l’impianto”, Spall a sott 4) e a questo esaustivo documentario di Noisey, in cui Speranza è stato seguito durante la preparazione del suo “L’ultimo a morire.”

In entrambi i casi risulta difficile abbinare il mansueto Ugo Scicolone, con i suoi occhi chiari e i suoi modi garbati, con la sua umiltà da ragazzo del sud che sembra chiedere scusa del disturbo, con le sue debolezze e i suoi tic, alla voce hardcore-trap urlata di Speranza, sicura, massiccia e diritta al punto, a tratti violenta, poliglotta e multiculturale, esasperata nei cupi videoclip dalle movenze che ne accompagnano l’espressività, un timbro graffiante che sta al rap come i Sepultura stanno al metal.

Certo è che grazie alla raffinata musica di Speranza la trap italiana sale finalmente di livello, consolidando un meritato processo di emancipazione dalla mediocre generazione rap precedente, già iniziato con Massimo Pericolo. L’età media dei seguaci di questo fenomeno – unico per bacino di utenza nella storia del pop italiano – malgrado temi e approcci vietati ai minori si è abbassata vertiginosamente, fino a contendere il marketshare dei fan ad artisti del calibro dei Me contro te. Nulla di male, per carità, a parte il rischio che un pubblico composto da alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado depauperi la portata esplosiva di nichilismo ribelle degli esponenti del settore, una reductio ad animazione da oratorio estivo di prodotti pensati invece per trasmettere machismo, voglia di sfondarsi di qualunque sostanza stupefacente (“E quanno stongo arrapate/Cucaina ‘int”a purchiacca, еh/Non legalizzate o si no venimmo ‘a mortе”, Chinatown) e indissolubile appartenenza al ghetto.

Ma il pericolo è anche che un genere così di moda esaurisca il suo principio attivo per sovraesposizione, imitazione dei modelli e ripetitività dei temi. Sono anni che la proposta trap si avvale di narrazioni e stereotipi quali il riscatto sociale conseguito grazie al successo, la droga, le faide interne, le donne consenzienti, brand e auto di lusso (“Ho il cambio vestiti con l’antitaccheggio/Chiuse ‘int”o cuofano d”a Bentley”, Calibro 9) e altri ingenui scimmiottamenti degli inventori oltreoceano del genere. D’altronde, come biasimare l’esterofilia dei trappisti italiani: Little Tony faceva lo stesso con Elvis, la PFM con i King Crimson, i primi Diaframma con i Joy Division, i Casino Royale con i Massive Attack.
La proposta di Speranza è invece quella di un giovane uomo reso adulto – ha superato abbondantemente la trentina – dai bastoni che la vita mette tra le ruote mentre pedaliamo già con l’affanno (“Io non punto in alto, miro alle ginocchia”, A la muerte). Nato a Caserta e cresciuto in un villaggio edificato per immigrati assoldati come minatori al confine tra Francia e Germania, Speranza impara a scrivere a 12 anni mosso da una sensibilità non comune, nutrita in un ambiente composto da coetanei di diverse origini e tenuta a digiuno dalle ristrettezze della quotidianità. Con qualche demo rientra in Italia nella sua città natale e, grazie al passaparola, attira l’attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori che iniziano a indicarlo come una delle realtà più interessanti della scena nazionale. Nel frattempo per mantenersi fa il muratore, professione di cui canta la fatica e il look (“Sul cantiere vesto solo Mapei, ehi/A sera ‘ncopp”o palco, po’ ‘a matina sott”o masto”, Casertexas).

Colpiscono la sua grinta, la sua abilità nel mescolare dialetto della sua terra, italiano e francese, e soprattutto i contenuti dei suoi pezzi, amare constatazioni della vita nella provincia meridionale, del doversi arrangiare con espedienti al limite della legalità e dei guai con la giustizia che ne conseguono (“I soldi ti fottono, je me fotto ‘e sorde”, Fendt Caravan), della difficoltà di mantenere la dignità in una società che non ammette scatti di anzianità, una gara in cui quelli come Speranza sono destinati a inseguire vetture da miliardari, superveloci e acquistate grazie a soldi facili, trainando una roulotte Fendt che è allo stesso tempo una casa e uno status symbol al contrario per rom e sinti.

“L’ultimo a morire”, il cui gioco di parole con il nome d’arte di Ugo Scicolone è fin troppo scolastico, è una raffinata produzione Sugar con beat ricercati, intuizioni da fuoriclasse e ospiti del calibro di Tedua, chiamati ad accompagnare Speranza tra i grandi della musica italiana pur rimanendo leale a se stesso (“Mi parlano di trap, ma sto ’int’a n’atu pianeta/Sto cu Pietro l’albanese, viaggio a 230”, Omm i merd). I testi sono ricchi di citazioni e calembour nelle diverse lingue che Speranza è in grado di sfoggiare, ma è quello che dice che colpisce l’ascoltatore. Finalmente c’è qualcuno che nella trap racconta qualcosa di interessante, fuori dal suo metro quadro di cameretta al netto di pc e console (“Piglia chesta base, lievece ddoje barre/Due barre di silenzio per le vittime di Gaza”, Casertexas).

I rapporti con le donne, quando la vita va così, passano in secondo piano (“Pisciare è meglio che chiavare”, Fendt Caravan, e “Mondo in crisi di abbandono, l’ha detto il telegiornale/Mentre cerchi il punto G, sto cercando il punto SNAI”, Takeo Ischi), ma a giudicare dalle tracce “Iris” e “Puttana***” c’è qualche cicatrice che fa ancora male. Ed è un peccato che i primi successi con cui l’artista casertano si è imposto al pubblico ritornino solo come citazioni nei nuovi pezzi. Ci sono echi di “Givova” in “100 anni” e di “Chiavate a mammeta” in “Calibro 9”, mentre “Spall a sott” rinasce nella sua quarta vita in un pezzo a sé e come intercalare in molti degli altri brani.

La musica di Speranza, come il genere a cui appartiene, non ammette compromessi: o si ama o si odia. Un manicheismo che si è inventato chi è cresciuto con il rock e che è tempo di superare, ora che anche gli artisti trap stanno diventando adulti e si confrontano con quello che il mondo offre loro e quello che il mondo gli ha negato. Non bisogna, quindi, approcciarne l’ascolto come gli altri generi a cui siamo abituati. Qui di musica ce n’è ben poca ma c’è tanta passione, come ci sono cuore pancia e cervello, e soprattutto lingua velocissima, fiato serrato, e occhi che non si abbassano nemmeno di fronte alla sfida più grande.

Speranza è davvero una speranza. Anzi, una certezza. Le parole sono importanti, se non fondamentali, e ne “L’ultimo a morire” di parole ce ne sono milioni. C’è solo l’imbarazzo della scelta.

Bambara – Stray

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[questo articolo è uscito su Loudd.it]

“Stray” è un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo.

Al post-punk mancava un sottogenere noir-pulp. Capiamoci: il filone gotico è stato ampiamente sviscerato nei minimi dettagli dai gruppi dark figli dei Banshees e dei Bauhaus. In questo millennio, però, nessun esponente della categoria ancora aveva provato a mettere da parte il distorsore per collegare la chitarra a un effetto pulito come lo spring, quel riverbero antico come gli amplificatori su cui è stato installato e che ha fatto la fortuna in musica del surf e, sul versante cinematografico, dei film di Tarantino. Un suono inconfondibile e allarmante, una pennata capace di lasciarci solcare le onde del Pacifico come di farci vivere un duello nel far west e, ora, di indurci a pogare come forsennati sotto il palco virtuale e fisico (sempre che si facciano vedere da queste parti) dei Bambara, la prima band ascrivibile a questa categoria e pronta a stravolgere le regole di un mercato dominato dal buonismo facile e accogliente dei suoni fuzz filtrati dall’overdrive.

I Bambara sono due gemelli e un bassista di Athens, Georgia, cresciuti artisticamente a Brooklyn. Annoverano una voce da Nick Cave o, per chi è pratico di queste lande impervie, una versione intonata, tentacolare e suadente di Joe Casey, una chitarra tutt’altro che brit e poco comune per il filone di appartenenza, una scrittura da Leonard Cohen, una sezione ritmica brutale rodata sui più comuni standard del post-punk, pronta a cavalcare sui tamburi e a impennarsi quando c’è da partire al galoppo nei momenti più tirati. Facce poco raccomandabili, approccio da brutti e cattivi, uno sporco terzetto fin troppo trasandato per l’accuratezza con cui suonano la loro visione delle cose.

La capacità dei Bambara di proporre suoni così apparentemente eterogenei come se fosse la cosa più naturale del mondo, usati come sottofondo per una narrazione baritonale, a tratti declamata ma sempre ruvida e diretta, non può che prendere alle viscere e lasciare il segno. Il loro distinto uso della narrativa macabra con il valore aggiunto della surrealtà dà luogo a suggestive incursioni nei bassifondi dell’indie. Partiti nel 2013 con un disco noise – Dreamviolence – che a dargli dell’inascoltabile è fargli un complimento, si inizia a ragionare con il secondo lavoro, “Swarm”, uscito nel 2016. Giunti al quarto album, e sull’onda dello straordinario “Shadow Of Everything” pubblicato un paio di anni fa, la band rilascia un disco come “Stray” e per me il 2020 musicale potrebbe chiudersi qui. I Bambara hanno già vinto tutto. Non chiedo altro.

“Stray” è infatti un pugno nello stomaco, una congiura emotiva efficace per i discepoli del masochismo sonoro, quel popolo che ascolta musica impegnativa con l’obiettivo di stare male perché, davvero, farci piacere un disco non deprimente è una cosa che non ha proprio senso. Quindi perché non calcare sul registro della sofferenza? Perché non usare lo spleen come backdoor per prendere il controllo dell’ansia della gente e dominare il mondo?

E potete sezionare “Stray” sino agli atomi e a tutte le particelle che vi girano intorno senza trovare una vibrazione che infierisca con cattiveria gratuita laddove è già la vita in sé a essere spietata. Un disco in cui non c’è speranza, ha già detto tutto e non ammette contraddittori per mediare una redenzione. Anche perché è la morte a essere protagonista. L’unico ente in grado di dire punto e basta: possiamo andare avanti a parlarne e a scriverne per anni, secoli e millenni ma non c’è un dato di fatto più realisticamente dominante e crudele.

Il paesaggio sonoro dei Bambara è crepuscolare, polveroso, dark-western, smisuratamente violento negli spazi incommensurabili del mistero, una prateria sconfinata e buia dove al posto del coyote regna l’ossessivo lamento della chitarra vibrante. Gli stessi tappeti di tastiere di cui le dieci tracce sono ricche risultano la cosa più lontana dall’elettronica possibile. Un fattore imprescindibile nella fotografia di un album altamente cinematografico, la costante coloritura virante verso le tonalità notturne e volta a ristabilire i parametri della fragilità delle cose umane, la parola miseria tatuata sul retro del labbro – sono parole dei Bambara – che ci ricorda il nostro destino ogni volta che sorridiamo allo specchio.

“Stray” è di sicuro un disco epocale, un’opera che resterà nei decenni come uno di quei libri di Cormac McCarthy che prende polvere sullo scaffale perché ci fa paura rileggerlo e ammettere che la trama si è conclusa addirittura peggio di quanto ci ricordassimo. La parola fine su tutto con il paradosso stesso dei Bambara, al momento una delle band più vitali al mondo con il chiodo fisso dell’andarsene da qui.