In caso di conflitto mondiale tra jazz e fusion sosterreste gli Akoustic o gli Elektric?
alti e bassi di fedeltà sonora
la svizzera
StandardI due principali siti di e-commerce dedicati ai biglietti di concerti sono andati in tilt per il massivo attacco dei fan italiani di The Weeknd. La vendita apriva alle dieci del mattino e già alle dieci e zero uno secondi le pagine erano in palla e restituivano messaggi contraddittori. Ho provato a rivolgermi al supporto clienti e mi sono sentito rispondere che il sistema non regge a un assalto di tali proporzioni, malgrado la strategia di rendere disponibili quantità limitate in momenti diversi, utile a evitare speculazioni e rivendite successive a prezzi gonfiati. Il fatto è che era il compleanno di mia figlia e il biglietto del concerto di The Weeknd al forum di Assago lo aveva chiesto come regalo. Sapete cosa non si fa per i figli.
Purtroppo l’esito di certe operazioni è già scritto nella storia. L’impossibilità di aggiudicarsi la partecipazione a grandi eventi è un problema che da tempo affligge le persone normali come me e voi. Non si capisce perché non si ricorra a una gestione più efficace delle richieste nei casi in cui l’affluenza superiore alla disponibilità sia più che ovvia. Mi vengono in mente almeno dieci soluzioni diverse – tutte basate sull’informatica, eh – per evitare colli di bottiglia rispetto a quella più demenziale che, guarda caso, ogni volta mostra tutti i suoi limiti. Tutto questo rende ancora più surreale il paradosso di voler semplicemente ascoltare dal vivo il proprio artista del cuore: il costo dei biglietti è inqualificabile – l’industria musicale, tra mp3 e pandemia, è letteralmente impazzita – senza contare che, nel mio caso, la data prevista per il concerto è il 1 di novembre. DEL 2022. E i siti che vanno in tilt quando ce n’è bisogno sono ormai una caratteristica del nostro Paese, tanto quanto la mozzarella e i mandolini.
Poi ci è venuto in mente di controllare le date del tour di The Weeknd e abbiamo appreso che la tappa successiva era prevista a Zurigo. Due clic (a ore di distanza dall’apertura della vendita c’era ancora piena disponibilità), la digitazione del numero di carta di credito e il biglietto – peraltro nel golden ring – è arrivato nella mia casella di posta. E lo so: Zurigo è a 3 ore di treno mentre Assago a venti minuti di tangenziale. Pazienza. Magari è anche una bella città e per mia figlia – e l’amica che la accompagnerà – sarà l’occasione per una gita.
Imagine – A Perfect Circle
StandardLa maniera più elementare per insegnare la differenza tra maggiore e minore in musica è associare il primo modo alla serenità, il secondo alla mestizia. “Jingle Bells” è in maggiore, l’”Adagio di Albinoni” – che poi non è di Albinoni – in minore. Se avete studiato musica qualche riferimento a questa dicotomia vi sarà stato presentato, magari con esempi diversi. Se invece ne eravate all’oscuro e, grazie a questo incipit, avete pensato “cazzo, è vero”, divertitevi a cercare su Youtube gli esperimenti e le gag sui pezzi trasformati da maggiore in minore o viceversa (anche se fanno più ridere i primi) e constatate come passano all’opposto delle intenzioni di chi li ha composti. Ce ne sono migliaia, basta digitare “major key” o “minor key” nel campo di ricerca e il gioco è fatto.
Gli A Perfect Circle partono già con il piglio di chi non ha tanta voglia di scherzare e, con “Imagine” di John Lennon, sono andati fino in fondo. “eMOTIVe”, l’album che la contiene, è infatti una raccolta di esercizi di stile, da questo punto di vista. L’obiettivo è mettere sottosopra la speranza, l’ottimismo e anche la tranquillità in un momento piuttosto greve per la politica estera americana e per il mondo intero. È il 2004 e i fronti in cui l’esercito statunitense e i suoi alleati ci danno dentro con l’esportazione della democrazia non sono pochi. Di rimando, i messaggi di insofferenza verso il modello occidentale iniziano a palesarsi con una certa ricorrenza. Questo per dire che c’è poco da stare allegri e l’uso di una chiave di lettura pessimista per interpretare le cose può essere perfettamente in linea con l’indole già tutt’altro che leggera di Maynard James Keenan e soci.
Il risultato è una “Imagine” al contrario, una canzone di una cupezza senza confronti. A poco più di trent’anni dalla sua composizione, l’inno pacifista per eccellenza viene scardinato nella sua essenza tanto da diventare una straziante marcia funebre della civiltà come la conosciamo. Si passa a un livello superiore e decisivo in cui non c’è più niente da fare: se la versione originale voleva volgere le coscienze al primato della fratellanza, il nuovo arrangiamento ne accentua il fattore parodistico. I sognatori hanno perso, e l’idea di un unico paese in cui vivere tutti insieme – quello dell’economia globalizzata – non è certo ciò che aveva in mente John Lennon. Il video ne accentua, quindi, l’intento. La fine del mondo è prossima e descriverla con i versi di chi si era impegnato per arginare il decorso è il paradosso più eclatante.
“Imagine” in modo minore è la cover perfetta e, allo stesso tempo, la prova che basta qualche alterazione nella scala per dare un peso e un significato diverso alle parole e alle intenzioni con cui è nata una canzone. D’allora in poi, per insegnare la teoria musicale, gli A Perfect Circle possono risultare più che efficaci.
Out Of Control – The Chemical Brothers
Standard“Out of control” è allo stesso tempo il pezzo più bello dei Chemical Brothers e dei New Order. Non avete ancora chiuso la pagina? Bene, allora sentite qui, perché sono certo che alla fine mi darete ragione. In un’unica canzone infatti si compie qualcosa che ha del miracoloso. Il suono dei paladini del big beat lascia da parte i principianti delle comparsate nella musica trendy dell’epoca e si impreziosisce finalmente di uno dei timbri più caratteristici della new wave inglese, quello di Bernard Sumner, mentre i “postumi” – passatemi il termine – dei Joy Division, o almeno il loro storico frontman che in questo frangente ne ha la delega, ritornano alla completezza armonica e ritmica dei tempi migliori, dopo il lungo periodo di stasi artistica degli anni novanta.
“Out of control” è innanzitutto un brano che abbiamo vissuto in lungo e in largo. Lo abbiamo ballato quando i DJ non avevano nessun imbarazzo a mescolare la musica del periodo d’oro dell’elettronica alla techno, al rock e all’indie dei tempi. Lo abbiamo ascoltato contando il susseguirsi di suoni e rumori di tutti i tipi, bramosi nell’interminabile attesa dell’orgasmo indotto dalla inimitabile schitarrata che Sumner somministra come una cosa rarissima solo una volta, a tre quarti della canzone, quando la tensione raggiunge il culmine e, raggiunto il piacere sommo, ci lascia scemare l’estasi fino alla fine, ormai ebbri di appagamento sensoriale.
Lo abbiamo visto in un video che ha fatto storia, con una spaziale Rosario Dawson agli esordi di carriera che domina una scena di guerriglia urbana in un triste presagio di ciò che avverrà pochi anni dopo proprio qui in Italia. Una storia di amore sotto gli occhi delle forze dell’ordine che darà ispirazione all’iconografia delle effusioni scambiate tra manifestanti all’ombra di manganelli, scudi e lacrimogeni, se non addirittura alle istantanee di baci provocatori tra no-tav e poliziotti in assetto da battaglia, roba con cui i quotidiani on line negli anni duemila hanno raccolto centinaia di migliaia di clic post-adolescenziali.
Lo abbiamo lasciato fisso nelle numerose playlist che si sono susseguite nelle nostre sessioni di running. Centinaia di brani ritmati si sono susseguiti in anni di corse ignoranti verso il nulla urbano ma “Out of control” è rimasta meritatamente al suo posto, da lanciare nei momenti di maggior fatica quando il fisico e la convinzione a raggiungere il traguardo non bastano più e ci vuole qualcosa che consenta alle nostre gambe di non perdere il ritmo e chiudere l’allenamento secondo i tempi programmati.
“Out of control”, singolo tratto da “Surrender” e uscito agli sgoccioli del secolo scorso, conserva inalterata la sua perfezione tra suoni e cantato, tra post punk ed elettronica, tra passato e futuro e ad oggi risulta sempre attuale, tanto che non sfigurerebbe né in un nuovo disco dei New Order – se avete presente “Music complete” sapete a cosa mi riferisco – né in una nuova fase sperimentale dei Chemical Brothers, mantenendo in entrambi i casi invariato il suo messaggio di lotta e di speranza.
Vertigo Days – The Notwist
StandardUna delle strisce dei Peanuts più amate dagli appassionati di musica indie è quella che ritrae Charlie Brown e Lucy seduti intorno a un giradischi in funzione, un modo di trascorrere il tempo in auge tra i ragazzi prima dei videogiochi e di Internet. «Questa canzone mi deprime sempre», esordisce Charlie Brown, contemplando sul piatto un vinile compiere alcuni dei suoi 33 giri (e un terzo) al minuto e sprigionare due crome del brano in ascolto. «Mi riporta alla mente ricordi tristi. Capisci cosa voglio dire?». Ora è Lucy, con espressione altrettanto malinconica, a osservare il mistero del disco che ruota e del braccio che, al termine del solco finale, va riportato in posizione di riposo, come se fosse la meccanica la vera depositaria del segreto in cui risiede la risposta che vorrebbe dare al suo amico, ma che non trova dentro di sé. Charlie Brown così si rivolge direttamente a lei, che ora tiene il disco in mano. «Non ho mai sentito una canzone che mi deprima come questa. Suonala di nuovo, vuoi?».
Non siamo in pochi a fantasticare che i due Peanuts siano stati ripresi da Charles M. Schulz durante uno degli innumerevoli ascolti di “Neon Golden” dei The Notwist. Non a caso i fratelli Acher sono campioni mondiali di musica felicemente deprimente proprio dal 2002, anno di uscita di quel disco, un primato che – tra il pubblico dei depressi compiaciuti – si contendono con i Radiohead. Un trofeo che ha un suo fondamento, considerando che, davvero, non si capisce che senso abbia ascoltare musica non deprimente.
Il fatto è che il suono di “Neon Golden” sembra essersi cristallizzato da allora, come se qualcuno avesse fermato l’orologio sull’ultima nota di “Consequence”, in una specie di incantesimo. Avete presente cosa combinano le fate nella “Bella addormentata nel bosco”? Il tempo riprenderà a scorrere solo quando i The Notwist pubblicheranno un secondo capitolo altrettanto significativo, e solo allora il genere umano potrà riprendere a muoversi e a guardare al futuro.
Peccato che la band tedesca non sia certo una di quelle che sforna un album a cadenze di brevi periodi. In poco meno di un ventennio hanno centellinato la loro produzione in appena un paio di lavori non altrettanto fortunati, ma vorrei vedere voi a mantenere la qualità di un capolavoro così ingombrante come “Neon Golden”. Troppe aspettative e, soprattutto, le cose nel frattempo sono cambiate. L’indietronica, così tanto di moda a cavallo tra i due secoli, ha lasciato il passo a suoni nuovi, più modernamente antichi, riducendo la gamma espressiva di una band così orientata all’auto-citazionismo.
Ma non è un problema. La storia ci insegna che è solo questione di aspettare il momento giusto. Nel 2021 la ruota dei corsi e ricorsi musicali si è fermata difatti a quel punto lì. È uscito “Vertigo Days” ed è di nuovo il 2002. L’incantesimo si è spezzato. Possiamo sederci intorno al giradischi e assumere ancora l’espressione malinconica di Lucy e Charlie Brown, al cospetto del nuovo e felicemente deprimente album dei The Notwist.
Vi consiglio però sedie comode, considerando che ci gravano vent’anni in più sul groppone e che “Vertigo Days” è un disco da ascoltare senza soluzione di continuità. Le tracce confluiscono l’una nell’altra, un fattore che penalizza qualunque versione streaming. I versi delle canzoni cercano di catturare il periodo storico in cui è stato concepito, con tutte le sue stranezze che, come dice il titolo dell’album, fanno girare la testa. “L’impossibile può accadere in qualsiasi momento”, annuncia la band tedesca nel comunicato stampa che accompagna la pubblicazione dell’LP, quando sostiene che rimanere seduti nell’incertezza è coraggioso. Proprio come i due Peanuts intorno al giradischi e allo spleen che scaturisce dal nuovo disco e pervade l’ascoltatore, facendolo sentire vivo. Missione compiuta, quindi. “Vertigo Days” è un album traboccante di vita, di entusiasmo e di amore per la musica e per chi ne affronterà le tracce con gli occhi spalancati e sognanti.
E ci sono svariati motivi per fare di “Vertigo Days” l’ascolto ossessivo compulsivo che merita. Almeno uno per ogni titolo. “Al Norte” è un’intro che arriva diretta dagli albori della retromania, quando – al tempo dei CD – imperava il vezzo di stendere, sotto le canzoni, un tappeto di rumori campionati con l’effetto puntina su vinile, una trovata anacronistica oggi perché in grado di mandare in crisi i nuovi cultori della riproduzione analogica.
Ma bastano i suoni di elettronica elementare di “Into love/stars” e la stessa semplicità del cantato, che è lo stesso di ”One Step Inside Doesn’t Mean You Understand”, a rassicurarci sul fatto che sono davvero tornati gli stessi The Notwist con cui ci siamo crogiolati allora. Due pezzi in uno, considerando la drum machine giocattolo uno spartiacque che emerge a metà brano e che si porta via il resto, fino alla fine, fino a fondersi con il brano dopo. “Exit Strategy To Myself” ci tiene quindi in pugno con il suo andamento veloce, retto dalla chitarra, in uno di quei crescendo che non esplodono mai, nemmeno quando entra l’organo distorto come anteprima stoner dello sconclusionato epilogo noise.
Con “Where You Find” e “Ship” si volta pagina. Due tracce ma quasi la stessa canzone, prima in versione ruvida e poi levigata, l’una la cover simmetrica dell’altra, almeno sotto il profilo timbrico. Solo la presenza della cantante giapponese Saya le rende distinguibili. La coda di synth ci trascina all’intro di chitarra e piano di “Loose Ends”, forse l’episodio più toccante del disco, anche solo per la vetta di bellezza del riff di chitarra che completa il brano fino alla conclusione.
La jazzista americana Angel Bat Dawid è l’ospite di “Into The Ice Age”, con il suo apporto al clarinetto a ricamare l’ossessivo loop di chitarra ripetuto sino al capovolgimento di fronte, quando un’atmosfera dilatata e completamente priva di ritmo inghiotte gli ultimi strumenti rimasti. La successiva “Oh Sweet Fire” ha una matrice psichedelica e si lascia trascinare nella sua colta sgangheratezza dalla voce del polistrumentista americano Ben LaMar Gay, altro ospite in quota dub e jazz. E dopo l’interludio strumentale “Ghost” e le sue reminiscenze alla Steve Reich, “Sans Soleil” e “Night’s Too Dark” arricchiscono l’album con le strutture compositive più rassicuranti e comuni della canzone indie-acustica tipica delle trame di “Neon Golden”. In “Al Sur”, agli antipodi di “Al Norte”, è la cantautrice argentina Juana Molina a prestare la sua voce alla movimentata sequenza ritmica breakbeat, disturbata e asciugata secondo i canoni del krautrock elettronico. E così si interrompe la lunga suite di “Vertigo Days”. La coda di “Into Love Again” è infatti il rimando conclusivo al genere che i The Notwist hanno inventato vent’anni fa, con il cantato volutamente disinteressato al contesto sugli incroci di pattern reiterati di suoni folk e lo-fi.
Il disco finisce e, al risveglio dalla trance, ci si scopre letteralmente appagati. “Vertigo Days” risulta così l’inizio di un nuovo corso in cui, come per “Neon Golden”, si renderanno necessari almeno vent’anni per costruire un mito, comprenderne l’essenza per poi dimenticarcene distratti dai generi derivativi che nasceranno nei tempi a venire, e per riappropriarcene poi alla fine, lungo una traiettoria ciclica che ci riporterà ancora al punto di partenza, ad ascoltare musica deprimente per sentirci sempre meglio.
brucia ancora
StandardSe c’è una prima volta per ogni cosa, mi chiedo chissà che effetto faccia ascoltare per la prima volta “Shine On You Crazy Diamond”. Interpretate questa domanda come preferite: chissà come un orecchio umano ancora vergine ai Pink Floyd possa reagire alla prima traccia del lato A di “Wish You Were Here”, sempre che ci siano persone al mondo che non conoscano ancora i successi della band di Gilmour e soci. Oppure chissà come il pubblico di oggi, con l’estetica musicale a forma di trap e di pop, può reagire al blues psichedelico. O anche chissà se gli ascoltatori educati alla dinamica delle composizioni in auge, tutte intrise di stop and go mozzafiato, bassi da infarto ed emozioni forti connesse, sono in grado di apprezzare un espediente come il fill in crescendo con cui esordisce la batteria nella canzone in questione. O, infine, se gente irreggimentata dalla fretta della comunicazione in tempo reale e dai ritmi imposti dai radio e video edit ha la pazienza di seguire il compimento di una suite musicale sino alla fine, lungo tutti i 13 minuti e 31 secondi solo della prima parte. Mi piacciono tutte, queste domande, e le trovo plausibili. Io però intendevo un’altra cosa, e cioè che è un peccato avere già ascoltato “Shine On You Crazy Diamond” migliaia di volte dal 75 ad oggi, perché sarebbe bello invece non averla mai ascoltata per ascoltarla sempre la prima volta e provarne la bellezza per la prima volta. Tornerei indietro nel tempo solo per ascoltare “Shine On You Crazy Diamond” per la prima volta, appena uscita, in un tempo in cui non l’ho mai ascoltata, magari in quell’anno lì in cui è stato pubblicata, per scoprire davvero che effetto fa, la prima volta.
il breakfast club del weeknd
StandardNegli anni ottanta i pezzi veloci si ballavano così. Grazie a Molly Ringwald per aver prestato i suoi passi di danza a una canzone del 2020 ma che potrebbe essere uscita quarant’anni fa. Una delle cose più belle viste sull’Internet ultimamente. Anch’io ballavo così. Ci ho provato ma non ho più il fisico.
ernia al disco
StandardVi ricordate, da ragazzi, quei fanatici dell’hi-fi domestico e delle autoradio che vi tiravano scemi sulle innumerevoli combinazioni dei componenti dello stereo per avere il suono perfetto? Ognuno professava una dottrina propria per la conformazione ideale dell’equipaggiamento ideale e delle relative marche per ascoltare nel modo più ottimale dischi, musicassette e poi cd, snocciolando dati e parametri incomprensibili (spesso non richiesti) indipendentemente dal target di riferimento, con massimo sbigottimento dei non addetti ai lavori, a dimostrazione che per ogni cosa c’è un mondo da scoprire e i nerd sono noiosi indipendentemente dalla disciplina in cui manifestano il loro disturbo ossessivo-compulsivo. Voglio dire, è un argomento che può anche appassionarmi ma se me lo presenti come un dogma per me il discorso è chiuso. Mi sono iscritto a un gruppo Facebook dedicato ai giradischi in cui ho rivissuto ciò che accade per qualunque altro settore della conoscenza umana, dove i social network hanno questo potere di Re Mida al contrario per cui ogni cosa che toccano si trasforma in noia. A me piace mettere i dischi quando sono a casa e basta, tutto qui. Ho un impianto dignitoso, mi sembra che si senta bene e non riesco a capire quali possano essere i margini di miglioramento con quella roba pazzesca che pubblicano i frequentatori di quella pagina. Ma, volendo spezzare una lancia a favore dei maniaci delle cose, la passione dei dischi in vinile – acquisto dopo acquisto – sta prendendo in me le sembianze di una fissazione a tutti gli effetti. Appena ho un momento libero corro a mettere un ellepì. Altre volte mi sorprendo a contemplare le centinaia di copertine impilate e penso a come potrei valorizzare la collezione, per esempio comprando un mobile su misura con gli scaffali delle dimensione giuste a contenere i trentatré giri. Ho maturato persino la convinzione che una civiltà che si rispetti dovrebbe impedire la progettazione e la vendita di soluzioni di contenimento e di arredo con form factor inadeguate all’archiviazione ottimizzata di dischi. Se volete altri segnali, ho acquistato un copia promozionale di un 45 giri di una band pop-new wave sconosciutissima italiana uscito nell’82 perché sento che mi abbia formato musicalmente. Poi torno a osservare la mia collezione e penso che non uscirei più di casa perché mi basta accendere lo stereo, mettere un disco e sono felice così.
Does It Really Happen? – Yes
StandardPensate a come può sentirsi disorientato un fan di un qualunque gruppo che non ha mai subito particolari vicissitudini tra i propri membri – per esempio gli U2 – al cospetto della rappresentazione grafica della timeline degli avvicendamenti nella formazione degli Yes.
Chi si è preso la briga di studiarla avrà notato, a ridosso del primo scioglimento della band risalente al 1981, il breve gap nella linea che indica la continuità di Jon Anderson, il cantante storico che ha reso riconoscibilissime con il suo falsetto (un vero marchio di fabbrica) le canzoni degli Yes, e che corrisponde all’assenza di un altro pezzo da novanta, Rick Wakeman.
Sembra infatti che i due abbiano mollato il colpo al termine del tour di “Tomato”, consapevoli delle divergenze con Steve Howe, Chris Squire e Alan White. Non che gli Yes non si fossero ancora risparmiati in turn over. Il fatto è che, questa volta, i problemi sono di carattere stilistico.
Siamo nel novembre del 1979. Gli anni ottanta sono alle porte, punk e post-punk stanno mandando in pensione i dinosauri del rock, e la generazione prog non se la passa molto bene. Non tanto per la fedeltà della fanbase – il popolo del rock classico continua a riempire gli stadi – quanto per la difficoltà di adattare le nuove sonorità imposte dall’estetica (musicale e non) imperante e l’evoluzione stessa degli strumenti – le tastiere in primis – a un genere basato su rigidi paradigmi ormai radicati in più di dieci anni di storia. In poche parole, la musica si sta trasformando come mai successo in precedenza, e questa volta senza ritorno.
Howe, Squire e White, probabilmente l’anima più prog degli Yes, giudicano il materiale proposto da Anderson e Wakeman per il nuovo album troppo leggero e folk e si ostinano, nelle sessioni di recording in uno studio a Parigi, a voler far rientrare lo stile degli Yes nei binari tradizionali. Ma ormai c’è poco da fare. Il gruppo approfitta di un infortunio del batterista per interrompere le registrazioni, far sbollire gli animi e rivedersi qualche mese dopo a Londra, ma anche il nuovo tentativo fallisce e la band si ritrova priva di cantante e tastierista.
Il caso vuole che Brian Lane, il nuovo manager, segua anche i Buggles di “Video Killed the Radio Stars” e che il cantante Trevor Horn e il tastierista Geoff Downes siano fan degli Yes. Per dare corpo al nuovo materiale che Howe, Squire e White stanno componendo, i due vengono invitati a contribuire alla stesura del nuovo disco, e la voce di Horn, simile a quella di Anderson, non passa inosservata. Stesso discorso per la destrezza di Downes con i synth. La nuova line-up è servita e si assicura persino la benedizione della casa discografica. Di lì a poco (e in tutta fretta) gli Yes daranno alle stampe “Drama”, un album di grande successo malgrado costituisca una svolta per una delle band più rappresentative del rock di un’era dai giorni contati.
Il connubio tra i due ceppi artistici dei nuovi Yes ha la sua massima rappresentazione in “Does It Really Happen?”, il primo singolo dell’album “Drama”. Due anime per un amalgama – quello tra progressive e synth pop – che riesce perfettamente, contro ogni previsione. La versione da 6:34 (fuso orario di Spotify) presente come ultima traccia del lato A del disco è l’evoluzione di uno spunto in gestazione durante le sessioni parigine, a cui Horn e Downes nello studio londinese conferiscono un vigoroso e decisivo svecchiamento.
Il brano si presenta con il celebre riff di basso suonato con il plettro, un perfetto bordone per il giro armonico che fa brillare gli accordi colpo dopo colpo e sprigiona tutta la sua potenza di hit da arena rock. Non riesce difficile immaginarlo nel live come brano di apertura del concerto, con tanto di esplosioni di luce sincronizzate e il pubblico che si gode lo spettacolo a bocca aperta.
L’apparente semplicità funky della strofa – la ritmica di Howe è inconsueta quanto deliziosa – introduce al potente ritornello in cui la voce di Horn non fa rimpiangere per nulla l’assenza di Anderson. Chitarra e synth si muovono all’unisono in quella che può essere considerata una prova generale dei fasti di “Owner of a Lonely Heart”, un allenamento preparatorio alla scalata delle classifiche mondiali. Ma è la parte cantata sul tema di basso e stacchi iniziale, a metà pezzo, a dare un valore aggiunto al brano, rendendolo sorprendente nei botta e risposta, verso dopo verso, un parte ripresa magistralmente a partire dall’ultimo minuto con il solo di basso sopra a un tema modernissimo lasciato ai sintetizzatori, prima, e alla chitarra, subito dopo.
I ragazzi degli anni ottanta, però, hanno la versione a 45 giri – quello che oggi chiameremmo radio edit – nel cuore, perché “Does It Really Happen?” fu selezionata come sigla della trasmissione Discoring, appuntamento fisso del primo pomeriggio della domenica. E la notizia non è che la produzione di Discoring avesse messo una canzone come sigla del programma (ai tempi costituiva la norma), e nemmeno che avessero deciso di farla ascoltare tutta – alla luce delle sigle da una manciata di secondi a cui siamo abituati oggi -, ma che avessero scelto un brano di una band progressive che, si sa, sono i campioni del mondo di suite articolate e tempi da capogiro.
“Does It Really Happen?” era la password per accedere a un mondo di canzonette che faceva parte del nostro vissuto, la colonna sonora della giornata di riposo dallo studio per noi adolescenti appassionati di musica. E non era difficile che una trasmissione nazionalpopolare, parte di un contenitore altrettanto dozzinale come “Domenica in”, ospitasse musica e band di qualità, mescolate al solito pop all’italiana. “Does It Really Happen?” degli Yes era solo l’aperitivo, un assaggio di cui, nel peggiore dei casi, ci saremmo comunque accontentati.
ciao 2020
Standard“Ciao 2020” non è, purtroppo, il caro vecchio “Ciao 2001” che torna in edicola in edizione aggiornata. “Ciao 2020” è un programma di 1 Pervyj Kanal, la RaiUno russa, trasmesso la sera della vigilia della notte di San Silvestro. Si tratta di una parodia di “Popcorn”, il programma musicale di Canale 5 che andava in onda negli anni ottanta, in una veste di episodio speciale per Capodanno e alterna sketch a canzoni arrangiate secondo l’idea che, nel nuovo millennio, si ha dell’italo-disco e del pop alla Albano-Romina confezionato per il patto di Varsavia, in versione aumentata dall’elettronica che oggi si ispira a quella pionieristica del decennio più bello della storia dell’umanità. Se avete meno di trent’anni il programma è godibilissimo.
Se siete ragazzi degli anni ottanta, però, noterete alcuni grossolani errori filologici, a partire da questo:
A parte che il Nord Stage 2 non era ancora stato inventato, a parte che i synth con i manopoloni negli anni 80 erano fuori moda perché tutti si dotavano di sintetizzatori con le memorie e i tastini, era rarissimo che i tastieristi usassero modificare in tempo reale i suoni durante le esecuzioni live perché andavano per la maggiore suoni impostati con variazioni e modulazioni programmate. Nessun tastierista, negli anni ottanta, avrebbe mai messo le mani su un synth così.