Vertigo Days – The Notwist

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Una delle strisce dei Peanuts più amate dagli appassionati di musica indie è quella che ritrae Charlie Brown e Lucy seduti intorno a un giradischi in funzione, un modo di trascorrere il tempo in auge tra i ragazzi prima dei videogiochi e di Internet. «Questa canzone mi deprime sempre», esordisce Charlie Brown, contemplando sul piatto un vinile compiere alcuni dei suoi 33 giri (e un terzo) al minuto e sprigionare due crome del brano in ascolto. «Mi riporta alla mente ricordi tristi. Capisci cosa voglio dire?». Ora è Lucy, con espressione altrettanto malinconica, a osservare il mistero del disco che ruota e del braccio che, al termine del solco finale, va riportato in posizione di riposo, come se fosse la meccanica la vera depositaria del segreto in cui risiede la risposta che vorrebbe dare al suo amico, ma che non trova dentro di sé. Charlie Brown così si rivolge direttamente a lei, che ora tiene il disco in mano. «Non ho mai sentito una canzone che mi deprima come questa. Suonala di nuovo, vuoi?».

Non siamo in pochi a fantasticare che i due Peanuts siano stati ripresi da Charles M. Schulz durante uno degli innumerevoli ascolti di “Neon Golden” dei The Notwist. Non a caso i fratelli Acher sono campioni mondiali di musica felicemente deprimente proprio dal 2002, anno di uscita di quel disco, un primato che – tra il pubblico dei depressi compiaciuti – si contendono con i Radiohead. Un trofeo che ha un suo fondamento, considerando che, davvero, non si capisce che senso abbia ascoltare musica non deprimente.

Il fatto è che il suono di “Neon Golden” sembra essersi cristallizzato da allora, come se qualcuno avesse fermato l’orologio sull’ultima nota di “Consequence”, in una specie di incantesimo. Avete presente cosa combinano le fate nella “Bella addormentata nel bosco”? Il tempo riprenderà a scorrere solo quando i The Notwist pubblicheranno un secondo capitolo altrettanto significativo, e solo allora il genere umano potrà riprendere a muoversi e a guardare al futuro.

Peccato che la band tedesca non sia certo una di quelle che sforna un album a cadenze di brevi periodi. In poco meno di un ventennio hanno centellinato la loro produzione in appena un paio di lavori non altrettanto fortunati, ma vorrei vedere voi a mantenere la qualità di un capolavoro così ingombrante come “Neon Golden”. Troppe aspettative e, soprattutto, le cose nel frattempo sono cambiate. L’indietronica, così tanto di moda a cavallo tra i due secoli, ha lasciato il passo a suoni nuovi, più modernamente antichi, riducendo la gamma espressiva di una band così orientata all’auto-citazionismo.

Ma non è un problema. La storia ci insegna che è solo questione di aspettare il momento giusto. Nel 2021 la ruota dei corsi e ricorsi musicali si è fermata difatti a quel punto lì. È uscito “Vertigo Days” ed è di nuovo il 2002. L’incantesimo si è spezzato. Possiamo sederci intorno al giradischi e assumere ancora l’espressione malinconica di Lucy e Charlie Brown, al cospetto del nuovo e felicemente deprimente album dei The Notwist.

Vi consiglio però sedie comode, considerando che ci gravano vent’anni in più sul groppone e che “Vertigo Days” è un disco da ascoltare senza soluzione di continuità. Le tracce confluiscono l’una nell’altra, un fattore che penalizza qualunque versione streaming. I versi delle canzoni cercano di catturare il periodo storico in cui è stato concepito, con tutte le sue stranezze che, come dice il titolo dell’album, fanno girare la testa. “L’impossibile può accadere in qualsiasi momento”, annuncia la band tedesca nel comunicato stampa che accompagna la pubblicazione dell’LP, quando sostiene che rimanere seduti nell’incertezza è coraggioso. Proprio come i due Peanuts intorno al giradischi e allo spleen che scaturisce dal nuovo disco e pervade l’ascoltatore, facendolo sentire vivo. Missione compiuta, quindi. “Vertigo Days” è un album traboccante di vita, di entusiasmo e di amore per la musica e per chi ne affronterà le tracce con gli occhi spalancati e sognanti.

E ci sono svariati motivi per fare di “Vertigo Days” l’ascolto ossessivo compulsivo che merita. Almeno uno per ogni titolo. “Al Norte” è un’intro che arriva diretta dagli albori della retromania, quando – al tempo dei CD – imperava il vezzo di stendere, sotto le canzoni, un tappeto di rumori campionati con l’effetto puntina su vinile, una trovata anacronistica oggi perché in grado di mandare in crisi i nuovi cultori della riproduzione analogica.

Ma bastano i suoni di elettronica elementare di “Into love/stars” e la stessa semplicità del cantato, che è lo stesso di ”One Step Inside Doesn’t Mean You Understand”, a rassicurarci sul fatto che sono davvero tornati gli stessi The Notwist con cui ci siamo crogiolati allora. Due pezzi in uno, considerando la drum machine giocattolo uno spartiacque che emerge a metà brano e che si porta via il resto, fino alla fine, fino a fondersi con il brano dopo. “Exit Strategy To Myself” ci tiene quindi in pugno con il suo andamento veloce, retto dalla chitarra, in uno di quei crescendo che non esplodono mai, nemmeno quando entra l’organo distorto come anteprima stoner dello sconclusionato epilogo noise.

Con “Where You Find” e “Ship” si volta pagina. Due tracce ma quasi la stessa canzone, prima in versione ruvida e poi levigata, l’una la cover simmetrica dell’altra, almeno sotto il profilo timbrico. Solo la presenza della cantante giapponese Saya le rende distinguibili. La coda di synth ci trascina all’intro di chitarra e piano di “Loose Ends”, forse l’episodio più toccante del disco, anche solo per la vetta di bellezza del riff di chitarra che completa il brano fino alla conclusione.

La jazzista americana Angel Bat Dawid è l’ospite di “Into The Ice Age”, con il suo apporto al clarinetto a ricamare l’ossessivo loop di chitarra ripetuto sino al capovolgimento di fronte, quando un’atmosfera dilatata e completamente priva di ritmo inghiotte gli ultimi strumenti rimasti. La successiva “Oh Sweet Fire” ha una matrice psichedelica e si lascia trascinare nella sua colta sgangheratezza dalla voce del polistrumentista americano Ben LaMar Gay, altro ospite in quota dub e jazz. E dopo l’interludio strumentale “Ghost” e le sue reminiscenze alla Steve Reich, “Sans Soleil” e “Night’s Too Dark” arricchiscono l’album con le strutture compositive più rassicuranti e comuni della canzone indie-acustica tipica delle trame di “Neon Golden”. In “Al Sur”, agli antipodi di “Al Norte”, è la cantautrice argentina Juana Molina a prestare la sua voce alla movimentata sequenza ritmica breakbeat, disturbata e asciugata secondo i canoni del krautrock elettronico. E così si interrompe la lunga suite di “Vertigo Days”. La coda di “Into Love Again” è infatti il rimando conclusivo al genere che i The Notwist hanno inventato vent’anni fa, con il cantato volutamente disinteressato al contesto sugli incroci di pattern reiterati di suoni folk e lo-fi.

Il disco finisce e, al risveglio dalla trance, ci si scopre letteralmente appagati. “Vertigo Days” risulta così l’inizio di un nuovo corso in cui, come per “Neon Golden”, si renderanno necessari almeno vent’anni per costruire un mito, comprenderne l’essenza per poi dimenticarcene distratti dai generi derivativi che nasceranno nei tempi a venire, e per riappropriarcene poi alla fine, lungo una traiettoria ciclica che ci riporterà ancora al punto di partenza, ad ascoltare musica deprimente per sentirci sempre meglio.

brucia ancora

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Se c’è una prima volta per ogni cosa, mi chiedo chissà che effetto faccia ascoltare per la prima volta “Shine On You Crazy Diamond”. Interpretate questa domanda come preferite: chissà come un orecchio umano ancora vergine ai Pink Floyd possa reagire alla prima traccia del lato A di “Wish You Were Here”, sempre che ci siano persone al mondo che non conoscano ancora i successi della band di Gilmour e soci. Oppure chissà come il pubblico di oggi, con l’estetica musicale a forma di trap e di pop, può reagire al blues psichedelico. O anche chissà se gli ascoltatori educati alla dinamica delle composizioni in auge, tutte intrise di stop and go mozzafiato, bassi da infarto ed emozioni forti connesse, sono in grado di apprezzare un espediente come il fill in crescendo con cui esordisce la batteria nella canzone in questione. O, infine, se gente irreggimentata dalla fretta della comunicazione in tempo reale e dai ritmi imposti dai radio e video edit ha la pazienza di seguire il compimento di una suite musicale sino alla fine, lungo tutti i 13 minuti e 31 secondi solo della prima parte. Mi piacciono tutte, queste domande, e le trovo plausibili. Io però intendevo un’altra cosa, e cioè che è un peccato avere già ascoltato “Shine On You Crazy Diamond” migliaia di volte dal 75 ad oggi, perché sarebbe bello invece non averla mai ascoltata per ascoltarla sempre la prima volta e provarne la bellezza per la prima volta. Tornerei indietro nel tempo solo per ascoltare “Shine On You Crazy Diamond” per la prima volta, appena uscita, in un tempo in cui non l’ho mai ascoltata, magari in quell’anno lì in cui è stato pubblicata, per scoprire davvero che effetto fa, la prima volta.

il breakfast club del weeknd

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Negli anni ottanta i pezzi veloci si ballavano così. Grazie a Molly Ringwald per aver prestato i suoi passi di danza a una canzone del 2020 ma che potrebbe essere uscita quarant’anni fa. Una delle cose più belle viste sull’Internet ultimamente. Anch’io ballavo così. Ci ho provato ma non ho più il fisico.

ernia al disco

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Vi ricordate, da ragazzi, quei fanatici dell’hi-fi domestico e delle autoradio che vi tiravano scemi sulle innumerevoli combinazioni dei componenti dello stereo per avere il suono perfetto? Ognuno professava una dottrina propria per la conformazione ideale dell’equipaggiamento ideale e delle relative marche per ascoltare nel modo più ottimale dischi, musicassette e poi cd, snocciolando dati e parametri incomprensibili (spesso non richiesti) indipendentemente dal target di riferimento, con massimo sbigottimento dei non addetti ai lavori, a dimostrazione che per ogni cosa c’è un mondo da scoprire e i nerd sono noiosi indipendentemente dalla disciplina in cui manifestano il loro disturbo ossessivo-compulsivo. Voglio dire, è un argomento che può anche appassionarmi ma se me lo presenti come un dogma per me il discorso è chiuso. Mi sono iscritto a un gruppo Facebook dedicato ai giradischi in cui ho rivissuto ciò che accade per qualunque altro settore della conoscenza umana, dove i social network hanno questo potere di Re Mida al contrario per cui ogni cosa che toccano si trasforma in noia. A me piace mettere i dischi quando sono a casa e basta, tutto qui. Ho un impianto dignitoso, mi sembra che si senta bene e non riesco a capire quali possano essere i margini di miglioramento con quella roba pazzesca che pubblicano i frequentatori di quella pagina. Ma, volendo spezzare una lancia a favore dei maniaci delle cose, la passione dei dischi in vinile – acquisto dopo acquisto – sta prendendo in me le sembianze di una fissazione a tutti gli effetti. Appena ho un momento libero corro a mettere un ellepì. Altre volte mi sorprendo a contemplare le centinaia di copertine impilate e penso a come potrei valorizzare la collezione, per esempio comprando un mobile su misura con gli scaffali delle dimensione giuste a contenere i trentatré giri. Ho maturato persino la convinzione che una civiltà che si rispetti dovrebbe impedire la progettazione e la vendita di soluzioni di contenimento e di arredo con form factor inadeguate all’archiviazione ottimizzata di dischi. Se volete altri segnali, ho acquistato un copia promozionale di un 45 giri di una band pop-new wave sconosciutissima italiana uscito nell’82 perché sento che mi abbia formato musicalmente. Poi torno a osservare la mia collezione e penso che non uscirei più di casa perché mi basta accendere lo stereo, mettere un disco e sono felice così.

Does It Really Happen? – Yes

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Pensate a come può sentirsi disorientato un fan di un qualunque gruppo che non ha mai subito particolari vicissitudini tra i propri membri – per esempio gli U2 – al cospetto della rappresentazione grafica della timeline degli avvicendamenti nella formazione degli Yes.

Chi si è preso la briga di studiarla avrà notato, a ridosso del primo scioglimento della band risalente al 1981, il breve gap nella linea che indica la continuità di Jon Anderson, il cantante storico che ha reso riconoscibilissime con il suo falsetto (un vero marchio di fabbrica) le canzoni degli Yes, e che corrisponde all’assenza di un altro pezzo da novanta, Rick Wakeman.

Sembra infatti che i due abbiano mollato il colpo al termine del tour di “Tomato”, consapevoli delle divergenze con Steve Howe, Chris Squire e Alan White. Non che gli Yes non si fossero ancora risparmiati in turn over. Il fatto è che, questa volta, i problemi sono di carattere stilistico.

Siamo nel novembre del 1979. Gli anni ottanta sono alle porte, punk e post-punk stanno mandando in pensione i dinosauri del rock, e la generazione prog non se la passa molto bene. Non tanto per la fedeltà della fanbase – il popolo del rock classico continua a riempire gli stadi – quanto per la difficoltà di adattare le nuove sonorità imposte dall’estetica (musicale e non) imperante e l’evoluzione stessa degli strumenti – le tastiere in primis – a un genere basato su rigidi paradigmi ormai radicati in più di dieci anni di storia. In poche parole, la musica si sta trasformando come mai successo in precedenza, e questa volta senza ritorno.

Howe, Squire e White, probabilmente l’anima più prog degli Yes, giudicano il materiale proposto da Anderson e Wakeman per il nuovo album troppo leggero e folk e si ostinano, nelle sessioni di recording in uno studio a Parigi, a voler far rientrare lo stile degli Yes nei binari tradizionali. Ma ormai c’è poco da fare. Il gruppo approfitta di un infortunio del batterista per interrompere le registrazioni, far sbollire gli animi e rivedersi qualche mese dopo a Londra, ma anche il nuovo tentativo fallisce e la band si ritrova priva di cantante e tastierista.

Il caso vuole che Brian Lane, il nuovo manager, segua anche i Buggles di “Video Killed the Radio Stars” e che il cantante Trevor Horn e il tastierista Geoff Downes siano fan degli Yes. Per dare corpo al nuovo materiale che Howe, Squire e White stanno componendo, i due vengono invitati a contribuire alla stesura del nuovo disco, e la voce di Horn, simile a quella di Anderson, non passa inosservata. Stesso discorso per la destrezza di Downes con i synth. La nuova line-up è servita e si assicura persino la benedizione della casa discografica. Di lì a poco (e in tutta fretta) gli Yes daranno alle stampe “Drama”, un album di grande successo malgrado costituisca una svolta per una delle band più rappresentative del rock di un’era dai giorni contati.

Il connubio tra i due ceppi artistici dei nuovi Yes ha la sua massima rappresentazione in “Does It Really Happen?”, il primo singolo dell’album “Drama”. Due anime per un amalgama – quello tra progressive e synth pop – che riesce perfettamente, contro ogni previsione. La versione da 6:34 (fuso orario di Spotify) presente come ultima traccia del lato A del disco è l’evoluzione di uno spunto in gestazione durante le sessioni parigine, a cui Horn e Downes nello studio londinese conferiscono un vigoroso e decisivo svecchiamento.

Il brano si presenta con il celebre riff di basso suonato con il plettro, un perfetto bordone per il giro armonico che fa brillare gli accordi colpo dopo colpo e sprigiona tutta la sua potenza di hit da arena rock. Non riesce difficile immaginarlo nel live come brano di apertura del concerto, con tanto di esplosioni di luce sincronizzate e il pubblico che si gode lo spettacolo a bocca aperta.

L’apparente semplicità funky della strofa – la ritmica di Howe è inconsueta quanto deliziosa – introduce al potente ritornello in cui la voce di Horn non fa rimpiangere per nulla l’assenza di Anderson. Chitarra e synth si muovono all’unisono in quella che può essere considerata una prova generale dei fasti di “Owner of a Lonely Heart”, un allenamento preparatorio alla scalata delle classifiche mondiali. Ma è la parte cantata sul tema di basso e stacchi iniziale, a metà pezzo, a dare un valore aggiunto al brano, rendendolo sorprendente nei botta e risposta, verso dopo verso, un parte ripresa magistralmente a partire dall’ultimo minuto con il solo di basso sopra a un tema modernissimo lasciato ai sintetizzatori, prima, e alla chitarra, subito dopo.

I ragazzi degli anni ottanta, però, hanno la versione a 45 giri – quello che oggi chiameremmo radio edit – nel cuore, perché “Does It Really Happen?” fu selezionata come sigla della trasmissione Discoring, appuntamento fisso del primo pomeriggio della domenica. E la notizia non è che la produzione di Discoring avesse messo una canzone come sigla del programma (ai tempi costituiva la norma), e nemmeno che avessero deciso di farla ascoltare tutta – alla luce delle sigle da una manciata di secondi a cui siamo abituati oggi -, ma che avessero scelto un brano di una band progressive che, si sa, sono i campioni del mondo di suite articolate e tempi da capogiro.

“Does It Really Happen?” era la password per accedere a un mondo di canzonette che faceva parte del nostro vissuto, la colonna sonora della giornata di riposo dallo studio per noi adolescenti appassionati di musica. E non era difficile che una trasmissione nazionalpopolare, parte di un contenitore altrettanto dozzinale come “Domenica in”, ospitasse musica e band di qualità, mescolate al solito pop all’italiana. “Does It Really Happen?” degli Yes era solo l’aperitivo, un assaggio di cui, nel peggiore dei casi, ci saremmo comunque accontentati.

ciao 2020

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“Ciao 2020” non è, purtroppo, il caro vecchio “Ciao 2001” che torna in edicola in edizione aggiornata. “Ciao 2020” è un programma di 1 Pervyj Kanal, la RaiUno russa, trasmesso la sera della vigilia della notte di San Silvestro. Si tratta di una parodia di “Popcorn”, il programma musicale di Canale 5 che andava in onda negli anni ottanta, in una veste di episodio speciale per Capodanno e alterna sketch a canzoni arrangiate secondo l’idea che, nel nuovo millennio, si ha dell’italo-disco e del pop alla Albano-Romina confezionato per il patto di Varsavia, in versione aumentata dall’elettronica che oggi si ispira a quella pionieristica del decennio più bello della storia dell’umanità. Se avete meno di trent’anni il programma è godibilissimo.

Se siete ragazzi degli anni ottanta, però, noterete alcuni grossolani errori filologici, a partire da questo:

A parte che il Nord Stage 2 non era ancora stato inventato, a parte che i synth con i manopoloni negli anni 80 erano fuori moda perché tutti si dotavano di sintetizzatori con le memorie e i tastini, era rarissimo che i tastieristi usassero modificare in tempo reale i suoni durante le esecuzioni live perché andavano per la maggiore suoni impostati con variazioni e modulazioni programmate. Nessun tastierista, negli anni ottanta, avrebbe mai messo le mani su un synth così.

riproduzione

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La mia amica Patrizia ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto natalizia di un angolo di casa sua. Nell’immagine si vede un piccolo albero con festoni, palline colorate e lucine accese. Il problema è che Patrizia ha posizionato l’albero sul coperchio del giradischi. Ho reagito commentandole che, se fosse successo qui da me, avrei già chiesto al mio avvocato di preparare i documenti per il divorzio. Qualche giorno prima riflettevo sulla stanza della musica del mio amico Nick. Nick colleziona compulsivamente musica e ha allestito una cameretta dedicata alla conservazione e all’ascolto, le cui pareti sono coperte interamente da scaffalature zeppe di cd e dischi. Massimo invece è la prova dell’evoluzione del modo in cui si ascolta musica in casa. Ha messo a punto un sistema di casse bluetooth distribuite tra i vani del suo appartamento, connesse alla stessa rete domestica e gestite tramite Alexa. Questo gli permette di fruire dell’infinito archivio di Spotify ovunque si trovi e, cosa non da poco, di muoversi da una stanza all’altra senza perdere una nota della playlist in programmazione.

Si tratta di tre visioni differenti, tre modi diversi di intendere la relazione degli esseri umani con la musica. Ci sono quelli per i quali si può rinunciare alla disponibilità di un giradischi perché non è così fondamentale, ai tempi dello streaming, e le canzoni preferite si possono ascoltare con svariati altri sistemi, e comunque se un riproduttore è momentaneamente indisponibile non importa: una canzone si può procrastinare senza problemi. Ci sono persone che hanno dovuto, per i più svariati motivi, occultare l’intero patrimonio discografico in un ambiente dedicato. Una nicchia per godere appieno di un nuovo album appena uscito o per rivivere l’appagamento dato dalle proprie band preferite, e talvolta un compromesso con il partner per il quale tutti quei supporti e l’impianto hi-fi non costituiscono un componente di arredo per i vani di rappresentanza. Altri, invece, vivono al passo con i tempi e sfruttano per intero i vantaggi della domotica. Ma, in questo caso, che ne è della stereofonia? I più moderni impianti a innumerevoli vie e pensati per l’home theatre dolby sorround come se la cavano con i canali left-right di un disco inciso prima dell’avvento dei CD?

La questione non è delle più semplici, anche se io ho la fortuna di vivere con persone che condividono la mia stessa passione. Mia moglie è sicuramente meno ossessionata di me, mia figlia invece accompagna ogni cosa che fa con la musica. Per me sarebbe impensabile una casa senza lo stereo al centro, ubicato nell’ambiente più vissuto. Una parte di un mobile-libreria della sala è occupata così da piatto, amplificatore e casse. Ho anche un lettore CD che da poco si è guastato ma vi assicuro che i cd ormai qui non li ascolta più nessuno, soppiantati in toto da un tablet collegato all’ampli e dedicato esclusivamente a Spotify. L’impianto è posizionato al centro della mia collezione di dischi, ordinati alfabeticamente e pronti per essere scelti e messi sul piatto. Mia figlia passa molto tempo nella sua cameretta, con le cuffie e Spotify. Nella stanza dove dormiamo non c’è nemmeno una radio, ma la zona notte è la meno frequentata. Sento la mancanza però di un riproduttore in bagno, quando faccio la doccia. Ho provato con lo smartphone connesso a una cassa ma, con il rumore dell’acqua, ci vuole ben altro. Nell’insieme, non abitando in un castello, non ci sono grossi problemi. Lo stereo, in sala, diffonde musica in tutto l’appartamento. Durante il lockdown ci siamo raccolti spesso intorno a questo focolaio sonoro, vi assicuro che è molto romantico e consente di fare un sacco di altre cose nel frattempo.

le canzoni di Natale

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Le festività natalizie sono quel periodo dell’anno in cui, Whamageddon a parte, sale la voglia più che mai di ascoltare della musica a tema. Il fatto è che le canzoni sul 25 dicembre non sono infinite. Anzi, la storia ci insegna che sono sempre le stesse (let it snow, let it snow, let it snow). C’è qualche artista che si lancia a comporre nuova musica ad hoc ma è tutto da vedere se, da quel momento in poi, avrà dignità di far parte della tradizione. Ci sono riusciti gli Wham, appunto, e pochi altri, ma per motivi che hanno ben poco da spartire con la religione cattolica. Quest’anno si è scomodato Robbie Williams, per dire, ma solo i posteri potranno testimoniare se l’ex Take That ha colto nel segno. La varietà delle playlist presenti in giro non riserva nessuna sorpresa. Se ne deduce che il Natale impone il rispetto di dogmi difficili da smantellare anche in ambito musicale, a meno che non si scelga volutamente di comportarsi da bastian contrari come quel mio amico che festeggia provocatoriamente con menu anti-clericali ed etnici in una sorta di dispetto al sentimento e al gusto della massa. Anch’io, nel corso della cena della vigilia, dopo qualche brindisi di troppo ho messo i Bauhaus, ma – come avrete inteso – non è questo il punto. Un approccio serio alla soluzione del problema mette in stretta correlazione consuetudini come candele accese, lucine intermittenti e tovaglioli con le renne con la musica classica. Risulta fondamentale, però, conoscere i grandi compositori del passato, e se pensate che questo articolo ora prosegua con una guida alle migliori cantate o messe per organo e corali vi consiglio di sintonizzarvi su una radio più competente o, comunque, cercare un blogger specializzato. Per una efficace colonna sonora di musica classica natalizia occorre infatti conoscere che cosa proporre ai propri commensali: il rischio che qualcosa vada storto non è così remoto. La selezione dev’essere nelle corde di chi l’ascolta. Anni di canzonette, purtroppo, hanno reso ancor più faticosa la musica cosiddetta colta e l’impegno richiesto – anche nel caso costituisca un mero background alla conversazione – può guastare l’atmosfera.

Il 2020 è stato però il 250esimo anniversario della nascita del più importante di tutti, Ludwig van Beethoven. Un evento passato in sordina (non è una battuta) (nemmeno questa) per l’emergenza sanitaria che ha piallato qualsiasi guizzo di vitalità dell’anno più nefasto dalla seconda guerra mondiale. Qualche giorno fa Rai5 ha trasmesso una maratona-Beethoven per un binge-listening delle nove sinfonie dirette da Claudio Abbado, una estenuante programmazione che mi ha reso felice. Ogni mattina di Natale ho infatti l’abitudine di aprire il cofanetto con la collezione in vinile delle sinfonie dirette da Von Karajan – era di mio papà – e riempire l’atmosfera di casa con quell’esplosivo concentrato di genio musicale. Non so se Beethoven sia natalizio, probabilmente no. Ascoltandolo, però, ho la sensazione di assistere al passaggio di un piccolo pezzo di storia proprio qui, attraverso questi luoghi domestici in cui si svolge una vita ordinaria con un tornado che spazza via la quotidianità grazie alla potenza di un impeto immortale. Forse alle canzoni di Natale si chiede altro. Si chiede di celebrare lo spirito. Con Beethoven è tutto il contrario, ma a me va bene così.

spotify

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Che non si possa più regalare dischi per Natale è un vero peccato. Far trovare un 33 giri sotto l’albero, un pacco dal volume e dalle dimensioni così facilmente prevedibili, resta il modo più personalizzato – eguagliato solo da un libro – di dire qualcosa proponendo al destinatario una parte di sé. Da quando la musica è interamente gratuita e disponibile in tempo reale ci affligge la percezione che sia stata depauperata della sua essenza artistica nonché depotenziata del piacere della sua scoperta. Per questo, scegliere un CD o un disco significa regalare solo un supporto o un involucro o, peggio, il materiale con cui è costruito, in poche parole una metonimia. Tanto vale adattarsi al mercato e dare in dono smartphone o altri elettrodomestici. Contenitori virtuali.

Così quest’anno, per Natale, mi sono regalato Spotify Premium. Lo aveva già in dotazione mia figlia dalla scorsa primavera e mi è bastato aggiungere qualche euro al mese per avere un account in più. Dopo la sbornia del peer to peer e dell’mp3, da quando ha ripreso ad essere prodotto sono tornato ad approvvigionarmi di musica prevalentemente comprando vinile quando disponibile a un prezzo accettabile. In realtà rientro nella categoria dei collezionisti e acquirenti ossessivo-compulsivi, profilo che spero di mantenere malgrado il passaggio alla piattaforma digitale. Utilizzavo già ampiamente Spotify ma nella versione gratuita, tollerando senza particolari fastidi le dovute interruzioni pubblicitarie ogni tot brani. Ho collegato un vecchio tablet all’impianto stereo e usavo la piattaforma di streaming nei casi in cui prevedevo di non aver voglia di correre a girare il disco sul lato B dopo pochi brani, che poi è la scocciatura su cui la civiltà musicale più pigra della storia risulta più intransigente. Poi è successo che anche su tablet, come già accadeva su smartphone, la versione free ha ridotto pesantemente le funzionalità. L’altra situazione tipo in cui ascolto musica in formato playlist è quando vado a correre. Ho una libreria da 64 gb di mp3 copiati su una schedina di memoria, un’enormità di canzoni per la gente normale ma che a me stava sempre più stretta.

Il passaggio a Spotify sta cambiando le mie abitudini? Avevo giurato che non avrei mai permesso ad un algoritmo di impormi una scaletta. Invece trovo in parte utili i consigli di ascolto correlati ai dischi e artisti che mi piacciono. Quando corro, malgrado il consumo dei dati (si lo so che potrei scaricare le canzoni direttamente da Spotify ma allora saremmo da capo), è impagabile il fatto di aggiungere in coda tutta la musica che mi viene in mente, per non parlare di interi album o compilation tematiche altrui, tenendo conto che posso skippare tutto quello che non ho voglia di sentire al momento. In casa, giradischi a parte, ho la musica diffusa in continuazione e con i dispositivi connessi al wifi domestico con lo stesso account posso scegliere gli ascolti dallo smartphone a distanza, mentre il tablet è amplificato dall’impianto. Inoltre mi risulta più facile reperire i dischi da recensire su Loudd, senza doverli scaricare con Soulseek o tramite i siti di file sharing. Mi sento anche più onesto, a dirla tutta, sperando che gli artisti e i compositori traggano profitto dalle mie scelte. Spero, comunque, di continuare ad acquistare dischi in vinile. Sarebbe un peccato perdere questa meravigliosa abitudine.

la musica nell’anno di mani pulite (e igienizzate)

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Allora com’è andato questo 2020, chiedono gli alieni che sbarcano sulla terra per le loro ricerche di mercato. Di merda, risponde all’unisono il genere umano ormai rassegnato, sempre che a parlare con la mascherina davanti alla bocca si comprenda qualcosa. La retorica ci ricorda che è dai momenti di tensione che nascono le opere d’arte più durature, anche se avremmo preferito un po’ meno ispirazione in cambio di contesti più banali come l’anno scorso, quello prima o tutto il resto che si è avvicendato ma rigorosamente non antecedente al 1946. Ci saremmo accontentati di uscire, andare al cinema, darci i baci sulle guance quando ci si incontra, abbracciare i nostri genitori anziani senza paura di dar loro il virus di grazia e, comunque, di prodotti culturali atrettanto eccezionali. Invece ci siamo trovati dieci mesi su dodici sul cosiddetto filo del rasoio. In ambasce per una pandemia bella e impossibile dal sapor estremo-orientale, poi barricati in casa a guardare il mondo da un oblò annoiandoci un po’ mentre la natura si riappropriava dei suoi spazi mandando in avanscoperta scoiattoli e cinghiali, quindi eroi tutti giovani e belli decisi a rinascere nell’estate per mandare poi tutto in vacca nell’autunno successivo fino agli ultimi scampoli dell’anno, quando ancora non sappiamo che minchia succederà e cosa potremo o non potremo fare da dopodomani.

Consoliamoci allora, per quanto possibile, con i dischi usciti quest’anno. Ho scelto un po’ di album che è difficile posizionare in una classifica. Sarebbero tutti numero uno, al vertice di qualcosa che non saprei definire, ciascuno con i suoi punti di forza e con le sue debolezze.

C’è stato tutto un fiorire e rifiorire di post-punk e suoi derivati.
Su tutti “Stray” dei Bambara

“Container” dei The Wants

“A Hero’s Death” dei Fontaines DC

“There Is No Year” degli Algiers

“Ultimate Success Today” dei Protomartyr,

“Just Look At That Sky” dei Ganser

“The Menace Of Mechanical Music” dei Team Picture

“Fantasize Your Ghost” delle Ohmme

“Auto-Pain” dei Deeper

“Void Moments” dei FACS

“Unmask Whoever” degli Activity

“Every Bad” dei Porridge Radio

e anche “Kompromat” degli “I Like Trains”.

Mi sono anche piaciuti molto “Kitchen Sink” di Nadine Shah

“100% Yes” dei Melt Yourself Down

“Shabrang” di Sevdaliza

i dischi omonimi dei Muzz di Paul Banks

e dei Keleketla! (ovvero i Cold Cut in salsa afrobeat)

“Live Forever” del sorprendente Bartees Strange

l’elegante “Off Off On” di This is the Kit

l’esotico “Zan” di Liraz

il cerebrale “Automatic” dei Mildilife

e “Konke” dei sudafricani Seba Kaapstad.

Di italiani nemmeno uno? Due, in verità. “L’ultimo a morire” di Speranza

e “Canale paesaggi” dei Post Nebbia.

Ci vediamo nel 2021. Almeno, questo è il buon proposito.