Una delle strisce dei Peanuts più amate dagli appassionati di musica indie è quella che ritrae Charlie Brown e Lucy seduti intorno a un giradischi in funzione, un modo di trascorrere il tempo in auge tra i ragazzi prima dei videogiochi e di Internet. «Questa canzone mi deprime sempre», esordisce Charlie Brown, contemplando sul piatto un vinile compiere alcuni dei suoi 33 giri (e un terzo) al minuto e sprigionare due crome del brano in ascolto. «Mi riporta alla mente ricordi tristi. Capisci cosa voglio dire?». Ora è Lucy, con espressione altrettanto malinconica, a osservare il mistero del disco che ruota e del braccio che, al termine del solco finale, va riportato in posizione di riposo, come se fosse la meccanica la vera depositaria del segreto in cui risiede la risposta che vorrebbe dare al suo amico, ma che non trova dentro di sé. Charlie Brown così si rivolge direttamente a lei, che ora tiene il disco in mano. «Non ho mai sentito una canzone che mi deprima come questa. Suonala di nuovo, vuoi?».
Non siamo in pochi a fantasticare che i due Peanuts siano stati ripresi da Charles M. Schulz durante uno degli innumerevoli ascolti di “Neon Golden” dei The Notwist. Non a caso i fratelli Acher sono campioni mondiali di musica felicemente deprimente proprio dal 2002, anno di uscita di quel disco, un primato che – tra il pubblico dei depressi compiaciuti – si contendono con i Radiohead. Un trofeo che ha un suo fondamento, considerando che, davvero, non si capisce che senso abbia ascoltare musica non deprimente.
Il fatto è che il suono di “Neon Golden” sembra essersi cristallizzato da allora, come se qualcuno avesse fermato l’orologio sull’ultima nota di “Consequence”, in una specie di incantesimo. Avete presente cosa combinano le fate nella “Bella addormentata nel bosco”? Il tempo riprenderà a scorrere solo quando i The Notwist pubblicheranno un secondo capitolo altrettanto significativo, e solo allora il genere umano potrà riprendere a muoversi e a guardare al futuro.
Peccato che la band tedesca non sia certo una di quelle che sforna un album a cadenze di brevi periodi. In poco meno di un ventennio hanno centellinato la loro produzione in appena un paio di lavori non altrettanto fortunati, ma vorrei vedere voi a mantenere la qualità di un capolavoro così ingombrante come “Neon Golden”. Troppe aspettative e, soprattutto, le cose nel frattempo sono cambiate. L’indietronica, così tanto di moda a cavallo tra i due secoli, ha lasciato il passo a suoni nuovi, più modernamente antichi, riducendo la gamma espressiva di una band così orientata all’auto-citazionismo.
Ma non è un problema. La storia ci insegna che è solo questione di aspettare il momento giusto. Nel 2021 la ruota dei corsi e ricorsi musicali si è fermata difatti a quel punto lì. È uscito “Vertigo Days” ed è di nuovo il 2002. L’incantesimo si è spezzato. Possiamo sederci intorno al giradischi e assumere ancora l’espressione malinconica di Lucy e Charlie Brown, al cospetto del nuovo e felicemente deprimente album dei The Notwist.
Vi consiglio però sedie comode, considerando che ci gravano vent’anni in più sul groppone e che “Vertigo Days” è un disco da ascoltare senza soluzione di continuità. Le tracce confluiscono l’una nell’altra, un fattore che penalizza qualunque versione streaming. I versi delle canzoni cercano di catturare il periodo storico in cui è stato concepito, con tutte le sue stranezze che, come dice il titolo dell’album, fanno girare la testa. “L’impossibile può accadere in qualsiasi momento”, annuncia la band tedesca nel comunicato stampa che accompagna la pubblicazione dell’LP, quando sostiene che rimanere seduti nell’incertezza è coraggioso. Proprio come i due Peanuts intorno al giradischi e allo spleen che scaturisce dal nuovo disco e pervade l’ascoltatore, facendolo sentire vivo. Missione compiuta, quindi. “Vertigo Days” è un album traboccante di vita, di entusiasmo e di amore per la musica e per chi ne affronterà le tracce con gli occhi spalancati e sognanti.
E ci sono svariati motivi per fare di “Vertigo Days” l’ascolto ossessivo compulsivo che merita. Almeno uno per ogni titolo. “Al Norte” è un’intro che arriva diretta dagli albori della retromania, quando – al tempo dei CD – imperava il vezzo di stendere, sotto le canzoni, un tappeto di rumori campionati con l’effetto puntina su vinile, una trovata anacronistica oggi perché in grado di mandare in crisi i nuovi cultori della riproduzione analogica.
Ma bastano i suoni di elettronica elementare di “Into love/stars” e la stessa semplicità del cantato, che è lo stesso di ”One Step Inside Doesn’t Mean You Understand”, a rassicurarci sul fatto che sono davvero tornati gli stessi The Notwist con cui ci siamo crogiolati allora. Due pezzi in uno, considerando la drum machine giocattolo uno spartiacque che emerge a metà brano e che si porta via il resto, fino alla fine, fino a fondersi con il brano dopo. “Exit Strategy To Myself” ci tiene quindi in pugno con il suo andamento veloce, retto dalla chitarra, in uno di quei crescendo che non esplodono mai, nemmeno quando entra l’organo distorto come anteprima stoner dello sconclusionato epilogo noise.
Con “Where You Find” e “Ship” si volta pagina. Due tracce ma quasi la stessa canzone, prima in versione ruvida e poi levigata, l’una la cover simmetrica dell’altra, almeno sotto il profilo timbrico. Solo la presenza della cantante giapponese Saya le rende distinguibili. La coda di synth ci trascina all’intro di chitarra e piano di “Loose Ends”, forse l’episodio più toccante del disco, anche solo per la vetta di bellezza del riff di chitarra che completa il brano fino alla conclusione.
La jazzista americana Angel Bat Dawid è l’ospite di “Into The Ice Age”, con il suo apporto al clarinetto a ricamare l’ossessivo loop di chitarra ripetuto sino al capovolgimento di fronte, quando un’atmosfera dilatata e completamente priva di ritmo inghiotte gli ultimi strumenti rimasti. La successiva “Oh Sweet Fire” ha una matrice psichedelica e si lascia trascinare nella sua colta sgangheratezza dalla voce del polistrumentista americano Ben LaMar Gay, altro ospite in quota dub e jazz. E dopo l’interludio strumentale “Ghost” e le sue reminiscenze alla Steve Reich, “Sans Soleil” e “Night’s Too Dark” arricchiscono l’album con le strutture compositive più rassicuranti e comuni della canzone indie-acustica tipica delle trame di “Neon Golden”. In “Al Sur”, agli antipodi di “Al Norte”, è la cantautrice argentina Juana Molina a prestare la sua voce alla movimentata sequenza ritmica breakbeat, disturbata e asciugata secondo i canoni del krautrock elettronico. E così si interrompe la lunga suite di “Vertigo Days”. La coda di “Into Love Again” è infatti il rimando conclusivo al genere che i The Notwist hanno inventato vent’anni fa, con il cantato volutamente disinteressato al contesto sugli incroci di pattern reiterati di suoni folk e lo-fi.
Il disco finisce e, al risveglio dalla trance, ci si scopre letteralmente appagati. “Vertigo Days” risulta così l’inizio di un nuovo corso in cui, come per “Neon Golden”, si renderanno necessari almeno vent’anni per costruire un mito, comprenderne l’essenza per poi dimenticarcene distratti dai generi derivativi che nasceranno nei tempi a venire, e per riappropriarcene poi alla fine, lungo una traiettoria ciclica che ci riporterà ancora al punto di partenza, ad ascoltare musica deprimente per sentirci sempre meglio.
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