siamo matti

Standard

La musica in tv ha bisogno di divulgatori bravi. Gente come Barbero o come gli Angela, cioè gente seria ma divertente, appassionata ma non invasata, colta ma non saccente, che sappia intrattenere senza fare il pagliaccio. Il rischio di imbattersi nelle rockstar, a proposito di musica, è dietro l’angolo dal momento che le rockstar appartengono al settore. Pensate a uno come Manuel Agnelli. Per quanto abbia veicolato nelle sue trasmissioni tv contenuti di valore, il suo approccio risulta così ingombrante da farti scappare la voglia di ascoltare l’ospite che sta presentando o di non acquistare il disco di cui sta parlando. Oppure a uno come Renzo Arbore, che divulga musica da sempre ma mettendoci troppo spettacolo in mezzo, tanto che il risultato sconfina nel varietà e finisce che lo spettatore si concentra sulle cosce della soubrette. Per non parlare dei nerd della musica, che poi sono quelli meno sopportabili con il loro modo di spaccare in quattro la semibiscroma e ridurre tutto alla matematica.

Il punto è che parlare di una cosa bella in modo palloso la fa sembrare pallosa, ma allo stesso tempo è fondamentale essere preparati ed entusiasti della materia. Poi conta quanto sei simpatico e quanto ci sai fare davanti alle telecamere senza risultare presuntuoso. Se poi sei anche un mostro di bravura sul tuo strumento, oltre a essere una perla rara con tutte queste peculiarità, il cerchio si chiude e puoi essere considerato – almeno dal sottoscritto – un bravo divulgatore di musica alla tv.

Da quando l’ho visto suonare la prima volta nutro una smodata venerazione per Stefano Bollani. Se potessi reincarnarmi al volo in qualcuno sceglierei Stefano Bollani perché è uno dei rari casi di sintesi tra tecnica eccelsa e ottimo gusto. Bollani suona con grinta e ironia, con fermezza e ispirazione, e ha una padronanza dello strumento unica e versatile, che poi è l’aspetto che a me interessa di più di qualunque mostruosità tecnica. Stefano Bollani, da qualche giorno, va in onda ogni sera dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3 nel programma “Via dei Matti numero Zero”, insieme a Valentina Cenni, che oltre a essere un’attrice è anche sua moglie.

Lo studio in cui si svolge il programma è una sorta di “casa Bollani”, per l’occasione riprodotta e ubicata nell’edificio inventato e cantato da Sergio Endrigo. Una striscia serale di nemmeno mezz’ora in cui i due divulgano la musica nei suoi vari aspetti storici, sociali e vivifici. La musica come scienza, magia, filosofia e cultura quotidiana ma mai spicciola. L’approccio è leggero perché è Bollani, in primis, a esserlo. Un pianista tra i più talentuosi interpreti del jazz e della classica che traduce la propria esperienza in materia per la tv generalista e per un pubblico che ha sempre meno pazienza di ascoltare canzoni, con un modo unico di mescolare stili sia musicali che narrativi. Non manca la musica suonata e cantata dai padroni di casa stessi e dagli ospiti che si alternano a ogni puntata. “Via dei Matti numero Zero” è sorprendentemente gradevole, dura il giusto, ed è da prendere come un dessert a fine cena, anzi un cordiale anti-stress prima di cambiare canale e gettarsi nella bolgia dei temi più urgenti e tragici dibattuti nei talk di politica e attualità, in prima serata. Grazie Rai e grazie Bollani. C’era bisogno di un po’ di aria fresca.

sulla sabbia è nato un fiore

Standard

Conoscete la differenza tra liscio romagnolo e liscio piemontese? Diciamo che il primo sta al secondo come il temperamento degli uni sta a quello degli altri. Si può intanto vedere la definizione che ne dà Wikipedia:

Il liscio romagnolo, danze folk romagnole, è caratterizzato da un’esecuzione brillante (data dalla forte presenza ritmica di basso e batteria) e veloce dei brani scritti principalmente per violino, clarinetto in Do, sassofono e successivamente per voce. È il liscio più conosciuto, soprattutto grazie al brano che ha dato il via al “fenomeno liscio”, Romagna mia (Secondo Casadei 1954), ed allegro, grazie al tipico sound dato dall’unione del sax e del clarinetto in do.

e

Il liscio piemontese, liscio tradizionale piemontese, è più lento di quello romagnolo ed eseguito principalmente da fisarmonica, clarinetto in do, sassofono e voce. Alcune formazioni di liscio piemontese sostituiscono al basso elettrico il basso tuba e non utilizzano la chitarra; tale scelta è probabilmente diretto retaggio delle formazioni bandistiche precedenti.

ma se volete il parere di uno che ha suonato per anni entrambi gli stili, vi assicuro che il romagnolo ha una vena di spensieratezza mentre quell’altro mette sempre un po’ di malinconia. Se vogliamo banalizzare, pensate al dualismo tra piadina vs bagna cauda, e comunque sono ghiotto di entrambe.

Io con il liscio ci sono cresciuto perché in famiglia c’era un vero e proprio culto. Nonni paterni, nonni materni e, di conseguenza, genitori. Gente di campagna che se la cavava bene nei balli di coppia. Pur riconducibili – per provenienza – al ceppo piemontese, non sono mancati a casa mia i dischi dell’Orchestra Casadei. Raoul, scomparso proprio ieri per il Covid a 84 anni, negli anni 70 è stato protagonista di un’operazione di music for the masses, portando le sue composizioni ed esecuzioni persino nelle hit parade.

Nel 1977, mentre in UK i Clash esordivano con il loro primo album, dalle nostre parti l’Orchestra Casadei pubblicava un singolo che, malgrado il titolo, trasmetteva malinconia e – a suo modo – spleen. Un valzer cantato dal titolo “Allegria Ja Ja” ma che, malgrado il modo maggiore, lascia un retrogusto opposto. Il testo, poi, non sfigurerebbe nel repertorio dei più depressi cantautori indie del momento. Il brano racconta una storia d’amore con una ragazza tedesca lunga quanto una vacanza. Un’esperienza forte e intensa destinata a finire, proprio come la stagione estiva.

Sedici anni, era bella:
non capivo le parole
ma sentivo che il suo cuore impazziva d’allegria
allegria allegria!
Son felice, vi dispiace?
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria
allegria allegria!

Ja ja, mi diceva
si si eh eh rispondevo
raccoglievo le conchiglie, le facevo una collana
impazziva d’allegria allegria allegria!
Ja, ja, chi mi cerca? Non esisto
Non m’importa più niente, non m’importa della gente
vivo solo per amore
allegria allegria!
Ja ja, era bella, da morire!
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria!

Poi un giorno è andata via,
poi un giorno è andata via!!!
allegria allegria. Ja ja.

Arvo Pärt – Fratres

Standard

Ho appena scoperto questa cosa bellissima, e qui ve la spiegano bene.

ma i måneskin non potevano crescere con la trap come tutti i loro coetanei?

Standard

Il complesso di inferiorità nei confronti della musica di matrice anglosassone-statunitense da parte degli italiani non si spiega. Non si tratta di rivalità perché inglesi e americani giocano un altro campionato. Un po’ come gli azzurri di rugby umiliati a ogni edizione del trofeo delle sei nazioni che si ostinano a partecipare o il pallosissimo basket locale che, per darsi una dignità, si riempie di mezze calzette statunitensi che nell’NBA non farebbero nemmeno le mascotte.

Eppure vinciamo a mani basse con i tenori del calibro de “Il Volo” o Bocelli e siamo i primi nel mondo in certi ambiti come il Rinascimento, il Futurismo e la canzone d’autore. Se poi vogliamo aggiungere la solita paternale retorica sulle eccellenze del made in italy tra vino, corruzione, frecce tricolori, gastronomia, pressapochismo, manifatturiero e moda possiamo completare il quadro. Eppure da sessant’anni cerchiamo di ritagliarci con inspiegabile ostinazione uno spazio nel rock anglo-americano senza risparmiarci in figure di merda. Capiamoci: non sto dicendo che non ci siano esperienze di rock italiano dignitose, ma non è rock. Piuttosto è, appunto, rock italiano. Per farvi capire, la pizza di Domino’s è una pietanza squisita ma non è una pizza. Piuttosto è, appunto, una pizza americana. Una questione di nome. L’insalata è un cosa. L’insalata russa è un’altra.

Il fatto è che il rock italiano (che, ripeto, non è un sottogenere del rock ma una cosa a sé), da quando le ultime due o tre generazioni preferiscono i videogiochi, i social, smanettare con i programmi di audio editing sul computer e PornHub anziché deprimersi di frustrazione suonando il rock italiano per diventare rockstar di rock italiano, è definitamente sparito dalla scena.

Quella del musicista alternativo che, fino alla fine degli anni 90, in Italia deteneva il monopolio del rock italiano, è una figura che ora non incarna più uno status in grado di esercitare un’attrazione sociale e sessuale per i coetanei e per i nostalgici del rock italiano precedente, per esempio i fan degli Area (anni 70) o dei CCCP (anni 80). Piuttosto incarna uno sfigato inconcludente sognatore di quella sinistra da concerto del primo maggio che perde tempo a smazzarsi l’inutile trafila per presentarsi tecnicamente o artisticamente preparato all’appuntamento con il successo.

Da quando l’attrazione per il virtuale ha soppiantato tutto il resto e assorbe le energie che, un tempo, si riversavano nello sport e nella dimensione socioculturale per così dire analogica, le cose sono cambiate e il prodotto delle turbe, delle frustrazioni, della voglia di emancipazione e della trasgressione è l’elaborato di strumenti digitali non necessariamente pensati per la musica con cui, comunque, si fa musica. Strumenti che permettono di fare musica molto più velocemente di prima. Attenzione: non sto dicendo che siano più facili da utilizzare. I prodotti di questi strumenti sono principalmente la musica pop da Youtube, il rap e la trap, l’indie nelle sue varie accezioni e poi una valanga di sottogeneri che vanno dalle parodie di brani famosi con testi dedicati ai videogiochi del momento, alle variazioni sui meme, alle partecipazioni ai talent e alle esibizioni su Tik Tok.

Da quasi ventiquattr’ore ovunque si grida al miracolo e si celebra il rock italiano e alternativo del complesso vincitore dell’ultimo festival di Sanremo, i Måneskin. Colpiscono il fatto che si tratti di una band di giovanissimi, oggi che le band non esistono più. Che si esibiscano con gli strumenti in mano, oggi in cui si deve avere il corpo libero da orpelli per poter ballare qualche danza riconducibile alla cultura latino-americana. Che abbiano i capelli lunghi, oggi che vanno di moda le zazzere, le creste e le rasature a zig zag. Che suonino rock italiano e alternativo, oggi che tutti i ragazzi della loro età propongono trap, rap, pop da Youtube o uno di quei sottogeneri a cui ho fatto cenno prima.

Il fatto è che il loro rock italiano e alternativo fa talmente cagare a spruzzo che, davvero, avrei ampiamente preferito che i Måneskin fossero cresciuti con la musica e le passioni che sono propri della loro generazione. La trap e il rap, tanto per iniziare. Avrei preferito che si fossero dedicati ai passatempi dei millennials. E, se proprio proprio destinati allo showbiz, avrei preferito che fossero diventati uno sferaebbasta qualsiasi, che al posto degli strumenti con cui si suona rock italiano e alternativo si fossero concentrati sulle coreografie reggaeton. Che, in caso di esibizione, avessero scelto di farlo in playback. E che, al posto di abiti così inappropriatamente da rock italiano e alternativo (perché fuorvianti), avessero indossato, in caso di esibizione in playback, una normale tuta da ginnastica come quelle che usano i ragazzi come loro, con le braghe strette al fondo. Se leggete di qualcuno che gioisce perché finalmente a Sanremo ha vinto il rock italiano e alternativo, quindi, mandatelo affanculo. Affanculo lui e i Måneskin.

sanremo 2021, le pagelle della terza serata

Standard

La gestione Veraclub di Sanremo 2021 potrebbe rendere superflua una manche dedicata alle cover. Le prime due serate hanno visto gli animatori del Festival nel nuovo format villaggio vacanze cimentarsi in diversi karaoke, d’altronde come biasimarli se arrivano da lì. Il fatto è che in genere non è una buona idea interporre in una manifestazione canora delle canzoni alle canzoni in gara, per giunta interpretate dai conduttori, che è un po’ come riempire un bicchiere di pillole al posto dell’acqua per mandare giù una pillola, non so se mi spiego.

Il fatto è che la vera gara delle cover l’ha già vinta Elodie nella seconda serata. L’avete vista? “Tequila e guaranà” su “Vogue” di Madonna, “E la luna bussò” con un campionamento del riff di chitarra di “Could You Be Loved?”, “Fotoromanza” della Nannini in salsa downbeat, il mash up tra “Easy lady” di Spagna e “Rumore” di Raffaella Carrà (che resta un pezzone) e “Soldi” di Mahmood su “Crazy in Love” di Beyoncé. Si capisce che è una che, nella musica, si sa divertire. Non so chi sia l’ideatore dell’esibizione e chi abbia curato gli arrangiamenti ma per me non c’è storia, ha vinto lei e potremmo chiudere qui. Aspetta, però: e i duetti della terza serata?

Con Noemi e Neffa c’è un problema in cuffia e un curioso effetto fuori sincro. Il problema è l’autocitazione: Neffa che interpreta la parte meno importante di sé. Il capo dei messaggeri della dopa dovrebbe, per contratto, limitarsi a “Cani sciolti” o ai duetti con Giuliano Palma. “Prima di andare via” ci ricorda anche che la stagione dell’acid jazz è finita da un pezzo. Non proviamo alcuna nostalgia.

“Penso positivo”, con tutta quella gente lì e Fulminacci, mi fa venire voglia di pensare in negativo: qual è il contributo di un’esibizione impostata così? Siamo capaci tutti a prendere un pezzo che dal vivo spacca. Poi chiami Roy Paci e spacca ancora di più. Fino a quando arriva Lundini, ci mette una pezza e ricompone la grande chiesa che sappiamo da dove parte e sin dove arriva.

Francesco Renga e quella tizia conciata come un’abat jour propongono uno dei brani più belli degli anni 70 in bianco e nero. Mi ricorda Ornella Vanoni e i varietà dopo i tg che snocciolavano i numeri dei morti per terrorismo. I due la cantano dignitosamente, ma manca il tema strumentale che chiude i ritornelli (quello che Mino Reitano interpretava con la sua voce potente) e il pezzo risulta incompiuto.

Decisamente spassosi gli Extraliscio con quella specie di Goran Bregovic e Kočani Orkestar di fiati sconnessi da cui si sono fatti accompagnare. Un tripudio di musica popolare. Io avrei azzardato di più, inserendo nel medley “Kalashnikov”.

Nesli e Fasma hanno nomi che sembrano gli snack al cioccolato finto che prendo al distributore automatico. A quello con la giacca da prete non gli funziona il microfono collegato all’auto-tune. Poi glielo accendono, peccato.

Per Bugo e i PTN l’avventura non decolla. Capisco l’intento di rendere attuale Battisti con un arrangiamento da indie-pop da classifica, ma l’obiettivo viene raggiunto a metà e, considerando la portata del brano, risulta inadeguato. L’originale è troppo stra-sentita e per farla salire di tono ci vuole ben altro.

Michielin e Fedez si presentano vestiti da pagliacci e riescono nell’intento, come diceva mia mamma, di far ridere i polli. Il medley presentato si attesta su uno dei punti più bassi di Sanremo di tutti i tempi. Il balletto di Fedez, come dicono gli adolescenti, è decisamente cringe.

Poi si collega Irama in smart working a cantare Guccini: qualcuno si indigna per il sacrilegio ma è giusto che nel pop non ci sia spazio per il culto artistico della musica d’autore. L’esibizione, per dirla alla Morrissey, non mi dice nulla sulla mia vita. L’originale è troppo distante, la copia puro esercizio di stile.

L’agenda della serata a questo punto prevede i Moleskine con Agnelli che, a differenza di quelli di prima, mi pungono sull’orgoglio. Toppano in pieno lo spirito dei CCCP, anche se si tratta della versione già sulla via per Damasco verso la beatificazione CSI, ma tanto Giovanni Lindo Ferretti è già abbastanza sputtanato di suo. Il guaio è che in rete si parla solo di loro (dei Maneskine, eh, prima ho sbagliato il nome apposta per fare la battuta) e, come spesso accade, non mi stupirei se vincessero tutto.

Arrivati a Random capisco cosa c’è che non va. Dopo anni di X-Factor e di talent musicali risulta impensabile trovare ancora canzoni da coverizzare in tv. Le più adatte sono già esaurite, pensate alle decine di versioni di “Se telefonando” e “Un’emozione da poco”. Presentare un pezzo come “Ragazzo fortunato” suona come raschiare il fondo del barile.

Nella serata delle dimissioni di Zingaretti sul palco poi sale il Bersani meno atteso. Samuele però fa sempre tenerezza e fa sfigurare Peyote, d’altronde con quel nome d’arte dove crede di andare. Ormai l’autore di “Chicco e Spillo” è un cantautore ex-giovane e in certe espressioni ricorda Sergio Endrigo da vecchio. Il pezzo è bello, però, insomma, per il festival è sprecato.

Orietta Berti dismette l’abito con le conchiglie sul petto e passa al rosso luccicante. Massimo rispetto per la sua voce e per la scelta di Sergio Endrigo, questa volta quello vero. Poi cerco su Internet e scopro che Le Deva esistono sul serio e hanno pure una pagina Wikipedia. Non era uno scherzo, quindi.

E, a proposito di gente inutile, ecco Gio Evan e accompagnato dalle cariatidi per cantare gli 883, che erano cariatidi anche loro però già da giovani. Una fase che pensavo avessimo superato, come quella dei “Neri per caso” riesumati da Ghemon con tutti i tighidin tighidin tighidin di accompagnamento.

La partecipazione della coppia Rappresentante di lista + Rettore ha creato alte aspettative ma per la divina Donatella occorre attendere fino alla seconda strofa. Nell’insieme impeccabili ma c’era gente che si adoperava per il revival della canzonetta italiana anni 70 già vent’anni fa. Resta comunque l’unica band della storia in grado di schierare due coriste siamesi unite dalla coda di cavallo.

L’arrangiamento e l’orchestrazione di “Quando” interpretato da Arisa e uno di quelli Bravi fa passare in secondo piano la componente vocale senza pretese. Vetta superata solo da “Prisencolinensinainciusol” di Madame, che però perde l’occasione di personalizzarne il testo e cambiare quegli inutili segnaposto che sono stati messi dall’autore al posto delle parole. E il pippotto iniziale sull’incomunicabilità non giustifica il resto.

Annalisa e Poggipollini in versione blues si dimenticano subito grazie a Lo stato sociale, che ci ricorda quanto sono belle le canzoni degli Afterhours senza la voce di Agnelli e che porta sul palco il paradosso dello spettacolo senza pubblico. Che non sia per sempre lo speriamo tutti, anche la notte prima del risveglio sul baratro della zona rossa.

Gaia con Lous and The Yakuza si cimentano egregiamente in una versione noir-trap di “Mi sono innamorato di te” di Tenco intrecciando voci e sorrisi. Degno di plauso anche il duetto seguente, quello di Colapesce e Dimartino alle prese con il Battiato di “Povera Patria”. Due canzoni così di peso da schiacciare qualsiasi velleità di personalizzazione. Musica indistruttibile malgrado tutto e tutti. Meglio così.

I Coma trattino basso Cose ci invitano quindi intorno al falò da spiaggia per intonare – nel loro caso per modo di dire – “Il mio canto libero”, un classico dei classici da grigliata estiva, secondo solo alla “Canzone del sole”. Radius ci mette la chitarra con il doppio manico e l’esperienza per condurre la canzone sino alla tu tu tu tu tu tu finale.

Sembra incredibile, poi, come “Del mondo” risulti una una canzone perfetta per Sanremo. La versione psichedelica della Magical Mystery Band, un ensemble che unisce cantautori romani con la sezione ritmica della band di Zoro, è ottima e gli archi dell’orchestra del festival danno il loro decisivo contributo.

La scelta di Malika Ayane, invece, è una vera dichiarazione di intenti. Proporre “Insieme a te non ci sto più” in una rassegna di duetti alla fine ti fa salire sul palco da sola. Ben le sta. D’altronde nessuno vuole mettersi a confronto con i precedenti degli Avion Travel e Franco Battiato e, a dirla tutta, non mi sembra una molto simpatica.

E anche Heavy Meta con Napoli Mandolin Orchestra non porta nessun valore aggiunto a “Caruso”. Basta saperla cantare, e da questo punto di vista nulla da dire. Il tentativo di riprodurre il dialetto napoletano riesce parzialmente, come quando Marinelli faceva parlare in romanesco De André. Peccato per i mandolini quasi impercettibili, li avrei resi più protagonisti.

Chi l’avrebbe mai detto che sarei arrivato fino in fondo? Le sostituzioni di accordi nel remake di “Gianna” da parte di Aiello ne fanno una versione così irriverente che non si può parlarne che bene. Poi però arriva un rapper a rovinare tutto così ne approfitto per rimangiarmi quello che pensato, spegnere la tv e coricarmi. Anche questa sera è andata. 

sanremo 2021, le pagelle della seconda serata

Standard

Ho capito chi mi ricorda: Fiorello somiglia sempre di più a Totò. Ma nessun principe della risata insisterebbe con la stessa battuta per così tanto tempo. La comicità non dovrebbe mai prendere per sfinimento. Di contorno, invece, niente male lo spot Amazon che è ricco di cameo. Non lo avevo notato ieri sera. Per il resto non si capisce più niente: pubblicità di fiction RAI su Nada e di serie tv Netflix con le canzoni di Nada. Mi gira subito la testa e si entra immediatamente in gara.

Orietta Berti, grande melodia, verbi al passato remoto, conchiglie sulle tette, vibrato ed echi di ritmo trap ma è solo l’illusione della prima strofa e del brano di apertura della seconda serata. Proprio per questo, per il momento, risulta la migliore.
Bugo; due taglie di giacca marrone in più, ha lo stile di un sempliciotto di campagna che va a messa la domenica. L’intro sembra una di quelle fanfaronate alla “Mi ritorni in mente”, il resto un tripudio di ottoni e Vasco. Scanzonata, forse fin troppo.
Dopo appena due canzoni c’è già il primo intervallone musicale. Il mash-up Pausini-Queen tutto sommato spassoso, però tirare troppo per le lunghe lo show non fa bene e fa esasperare i cinquantenni che vogliono coricarsi presto.
Gaia entra in trance, ma parte la musica e si rivela un’altra con la tazzina in bocca e ci si chiede perché tutti cantino allo stesso modo. Troppo impegnata a ballare una canzone a suo modo dignitosa. Potrebbe anche vincere.
Lo Stato Sociale: perfetti e perfettamente fuori target, puro cabaret, appena un tacca sotto l’avanspettacolo.
Il volo: no, vi prego, il volo no.
La rappresentante di lista mi fa sempre venire in mente la giornata di uno scrutatore. Vestiti come il tenerone di Drive In ma, colori a parte, risultano i più raffinati e pretenziosi del festival. La canzone è tutta un testacoda e il ritornello è un ritornello che ti si pianta in testa. Finalmente.
Su Malika Ayane mi sono addormentato.
Per fortuna mi sveglio con Elodì che dovrebbe essere un nuovo giorno dopo il mercoledì. uno di quelli che non vedi l’ora che arrivino. E quando arrivano sono giorni che lasciano il segno. Il medley che canta non ha eguali per gli arrangiamenti. Geniale “Could you be loved” in maggiore su “E la luna bussò” (ecco perché ieri sera la Bertè non l’ha riproposta) e “Crazy in love” su Mahmood. Peccato poi si vesta da swiffer e rovini tutto.
Heavy Meta o come cazzo si chiama ci riporta nei classici di Sanremo. Ha una canzone così innocua che si dimentica giusto il tempo di scriverne per due righe.
Gli Extraliscio sono un’idea forte con un progetto debole e il theremin sul palco. Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi in Terapia Intensiva indossa la mascherina in modo errato. Proseguono la tradizione della coreografia sul palco, sull’onda della scimmia nuda e della vecchia che balla, con una canzone abbastanza convincente.
Poi parlano di rap e neomelodici, pensavo fosse Liberato e invece era Gigi D’alessio. Vabbè. Cosa non si fa per tirare l’una e mezza. Per fortuna il tg1 ci riporta in piena pandemia.
Segue il secondo pippone in due giorni sotto forma di audiolibro di Achille Lauro. Stasera niente fiore, per fortuna. Mentre sgomberano il palco controllo l’orologio: manca ancora un’ora alla fine. Un ultimo sforzo.
Random è l’ennesima star dello streaming da svariati milioni di visualizzazioni. Gambe rubate a Glovo. Forse l’attacco più stonato di tutti.
Fulminacci ha il timbro di De Gregori e finalmente sento qualcosa che mi piace. L’indie italiano alla Calcutta sbarca a Sanremo senza snaturare la sua riconoscibilità. Non vincerà mai, ma almeno ha un coretto come si deve. Per me è un otto abbondante.
Willy Peyote canta per gli addetti ai lavori e cita Boris e il meme di “che succede” tanto quanto lo stato sociale. Ma in scaletta viene dopo e il copione risulta lui. Amici partecipanti, mettetevi d’accordo prima.
C’è il tempo per un altro karaoke come ai vecchi tempi. Metto la tele sul mute e scrivo questo post.
Ed eccoci al rush finale, così deludente che mi fa pensare che era meglio fermarsi prima e recuperare qualche minuto di sonno. Gio Evan non l’ho mai sentito nominare prima. Lo googlo e dalla faccia mi sembra simpatico, Poi canta e mi viene voglia di spaccare tutto. Irama si esibisce in differita, posso immaginare che sia una merda, così spengo e vado a letto. Ci vediamo l’anno prossimo.

sanremo 2021, le pagelle della prima serata

Standard

Fiorello e Amadeus: solito stile da Veraclub con l’aggravante del karaoke nel 2021. Le canzoni che non c’entrano, in un festival della canzone, sviliscono la canzone in sé e banalizzano lo show.
La tipa di Undoing: bella sciolta, bella e sciolta.
Intermezzi pubblicitari: spot in grande spolvero, Netflix su tutti. Sanremo ormai è come il Superbowl.

Ma passiamo alla musica.
Arisa: sembra una canzone di Arisa di qualche tempo fa, comunque una merda.
Colacoso e quell’altro: una merda, in più vestiti da cani.
Aiello: e chi cazzo è questo? Comunque una merda.
Michielin e Fedez: una merda, i duetti melodia e rap e poi ancora melodia hanno ampiamente rotto il cazzo. A loro il premio del mai più senza, secondo la rubrica di Cuore. Leggete qui:

Sanremo 2021, il tifo di Chiara Ferragni e il messaggio “nascosto” della camicia di Fedez: Fedez si è esibito sul palco dell’Ariston insieme a Francesca Michielin. A casa, sua moglie, Chiara Ferragni ha fatto il tifo insieme al figlio Leone. Nel pomeriggio proprio Leone aveva indossato una camicia speciale, uguale a quella con cui Fedez si è poi esibito a Sanremo. Sulla camicia Versace c’erano 4 lettere, le iniziali dei nomi di tutti i componenti della famiglia e una “V” in più. Per i fan si tratta di un indizio sul nome della prossima figlia della coppia, ed è scattato il totonomi.

Da Repubblica. Ma andate affanculo voi, Fedez e la Ferragni. E anche i loro figli.

Loredana Bertè: un plagio di una canzone di Loredana Bertè, anzi più di uno. Ah ma non era in gara? Peccato.
Max Gazzè in quota Salvi, Pippo Franco, i Figli di Bubba, Elio e le storie tese e tutto l’umorismo canoro e demenziale che ha calcato il palco di Sanremo. Che barba, in tutti i sensi.
Noemi due punto zero: brano perfetto per la gara, potrebbe anche vincere.
Achille Lauro conciato come un Peter Gabriel da balera. Fa della filosofia da tanto al mucchio e si prende troppo sul serio. Lo preferivo coatto ai tempi di Thoiry.
Esordisce la canzone scomposta, con Madame, una di quelle che vanno di moda adesso. Ci vogliono i sottotitoli e un buon metronomo. La regia nel ritornello fa venire mal d’auto. Ma le nuove generazioni – se seguissero Sanremo – sarebbero a loro agio.
Maneskine: stavo giusto pensando che fine avesse fatto il rock nella musica italiana, poi sono saliti sul palco loro e probabilmente il karma come un boomerang mi si è ritorto contro e mi ha punito. Ho capito che fine ha fatto il rock e perché nessuno vuole più suonarlo. Per quanto riguarda il pezzo, la lezione dei Little Pieces of Marmalade è servita almeno a qualcosa, come se fosse tutto un magna magna. Comunque una merda.
Ghemon: non ci ho capito un cazzo ma ho avuto un rigurgito di Jamiroquai. Vestito malissimo, si muove come un rapper goffo. Gli acuti sono da migliorare, ma nell’insieme insignificante.
Coma undescore cose: non è tanto che siano stonati, è che ci vorrebbe per loro un buon logopedista. Molto meglio quando cantavano sì con riso senza lattosio.
Annalisa: il giro di accordi è da sempre lo stesso, ma forse è una scelta stilistica, quella di interpretare solo brani mediocri e tutti uguali. Ottima la scollatura made in Valbormida.
Francesco Renga: che brutta canzone. Peccato.
Fasma: dovrebbe togliere l’autotune e il gessato. Ma si sono messi tutti d’accordo per vestirsi così male? La solita trappata romantica strasentita e, per di più, il ragazzino tiene il fiato a fatica. Nell’insieme il meno peggio.

A questo punto, speriamo nella seconda serata.

weekend

Standard

dicono che si sono sciolti i Daft Punk ma io non ci casco

Standard

scarabocchio

Standard

Ho conosciuto Valeria al raduno nazionale dei fan di Garbo. Eravamo quattro gatti ma gli organizzatori ci hanno diviso lo stesso a seconda della canzone che ci rappresentava di più, requisito che in molti avevano frainteso con una banale dichiarazione del proprio brano preferito. In realtà si trattava di un’attività da team building aziendale, forse poco adeguata al contesto ma che comunque mi sembrava coinvolgente. Io e lei eravamo gli unici nel gruppo di “Cose veloci”, la canzone che Garbo ha presentato al Festival di Sanremo dell’85. Ci siamo presentati e, dopo i convenevoli, la conversazione si è immediatamente incentrata sull’esibizione in playback del giovedì alla manifestazione canora. Garbo sembrava Lloyd Cole, con quel dolcevita marrone chiaro e l’avveniristico ciuffo laterale. Niente a che vedere con il look dell’esibizione dei giorni successivi. Ci siamo ricordati però del paradosso del brano che, malgrado il titolo, aveva un andamento downbeat. Nonostante ciò c’era qualche dj che lo passava, considerato che il bpm rallentato non costituiva un’eccezione nelle selezioni per intrattenere la gente in pista, una sorta di warm-up propedeutico alle proposte più consone per una programmazione orientata al ballo. Valeria mi ha mostrato la copia del 45 giri autografata che aveva portato con sé al raduno e che custodiva in una di quelle buste in plastica trasparente in cui si conservano i dischi da collezione. Io le ho confessato di non esserne munito ma di avere l’mp3 da qualche parte. Mi è sembrata delusa dalla mia inadeguatezza. Mi ha detto che nessuna celebrità metterebbe mai la firma su un file. Stavo per raccontarle della cartolina promozionale di “Sorrisi e Canzoni TV” con dedica di cui mi aveva fatto omaggio di persona prima di un concerto ma nel frattempo, nella sala, ha preso il via il provvidenziale ascolto dei più famosi successi del cantautore, e la cosa è finita lì.