sanremo 2021, le pagelle della terza serata

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La gestione Veraclub di Sanremo 2021 potrebbe rendere superflua una manche dedicata alle cover. Le prime due serate hanno visto gli animatori del Festival nel nuovo format villaggio vacanze cimentarsi in diversi karaoke, d’altronde come biasimarli se arrivano da lì. Il fatto è che in genere non è una buona idea interporre in una manifestazione canora delle canzoni alle canzoni in gara, per giunta interpretate dai conduttori, che è un po’ come riempire un bicchiere di pillole al posto dell’acqua per mandare giù una pillola, non so se mi spiego.

Il fatto è che la vera gara delle cover l’ha già vinta Elodie nella seconda serata. L’avete vista? “Tequila e guaranà” su “Vogue” di Madonna, “E la luna bussò” con un campionamento del riff di chitarra di “Could You Be Loved?”, “Fotoromanza” della Nannini in salsa downbeat, il mash up tra “Easy lady” di Spagna e “Rumore” di Raffaella Carrà (che resta un pezzone) e “Soldi” di Mahmood su “Crazy in Love” di Beyoncé. Si capisce che è una che, nella musica, si sa divertire. Non so chi sia l’ideatore dell’esibizione e chi abbia curato gli arrangiamenti ma per me non c’è storia, ha vinto lei e potremmo chiudere qui. Aspetta, però: e i duetti della terza serata?

Con Noemi e Neffa c’è un problema in cuffia e un curioso effetto fuori sincro. Il problema è l’autocitazione: Neffa che interpreta la parte meno importante di sé. Il capo dei messaggeri della dopa dovrebbe, per contratto, limitarsi a “Cani sciolti” o ai duetti con Giuliano Palma. “Prima di andare via” ci ricorda anche che la stagione dell’acid jazz è finita da un pezzo. Non proviamo alcuna nostalgia.

“Penso positivo”, con tutta quella gente lì e Fulminacci, mi fa venire voglia di pensare in negativo: qual è il contributo di un’esibizione impostata così? Siamo capaci tutti a prendere un pezzo che dal vivo spacca. Poi chiami Roy Paci e spacca ancora di più. Fino a quando arriva Lundini, ci mette una pezza e ricompone la grande chiesa che sappiamo da dove parte e sin dove arriva.

Francesco Renga e quella tizia conciata come un’abat jour propongono uno dei brani più belli degli anni 70 in bianco e nero. Mi ricorda Ornella Vanoni e i varietà dopo i tg che snocciolavano i numeri dei morti per terrorismo. I due la cantano dignitosamente, ma manca il tema strumentale che chiude i ritornelli (quello che Mino Reitano interpretava con la sua voce potente) e il pezzo risulta incompiuto.

Decisamente spassosi gli Extraliscio con quella specie di Goran Bregovic e Kočani Orkestar di fiati sconnessi da cui si sono fatti accompagnare. Un tripudio di musica popolare. Io avrei azzardato di più, inserendo nel medley “Kalashnikov”.

Nesli e Fasma hanno nomi che sembrano gli snack al cioccolato finto che prendo al distributore automatico. A quello con la giacca da prete non gli funziona il microfono collegato all’auto-tune. Poi glielo accendono, peccato.

Per Bugo e i PTN l’avventura non decolla. Capisco l’intento di rendere attuale Battisti con un arrangiamento da indie-pop da classifica, ma l’obiettivo viene raggiunto a metà e, considerando la portata del brano, risulta inadeguato. L’originale è troppo stra-sentita e per farla salire di tono ci vuole ben altro.

Michielin e Fedez si presentano vestiti da pagliacci e riescono nell’intento, come diceva mia mamma, di far ridere i polli. Il medley presentato si attesta su uno dei punti più bassi di Sanremo di tutti i tempi. Il balletto di Fedez, come dicono gli adolescenti, è decisamente cringe.

Poi si collega Irama in smart working a cantare Guccini: qualcuno si indigna per il sacrilegio ma è giusto che nel pop non ci sia spazio per il culto artistico della musica d’autore. L’esibizione, per dirla alla Morrissey, non mi dice nulla sulla mia vita. L’originale è troppo distante, la copia puro esercizio di stile.

L’agenda della serata a questo punto prevede i Moleskine con Agnelli che, a differenza di quelli di prima, mi pungono sull’orgoglio. Toppano in pieno lo spirito dei CCCP, anche se si tratta della versione già sulla via per Damasco verso la beatificazione CSI, ma tanto Giovanni Lindo Ferretti è già abbastanza sputtanato di suo. Il guaio è che in rete si parla solo di loro (dei Maneskine, eh, prima ho sbagliato il nome apposta per fare la battuta) e, come spesso accade, non mi stupirei se vincessero tutto.

Arrivati a Random capisco cosa c’è che non va. Dopo anni di X-Factor e di talent musicali risulta impensabile trovare ancora canzoni da coverizzare in tv. Le più adatte sono già esaurite, pensate alle decine di versioni di “Se telefonando” e “Un’emozione da poco”. Presentare un pezzo come “Ragazzo fortunato” suona come raschiare il fondo del barile.

Nella serata delle dimissioni di Zingaretti sul palco poi sale il Bersani meno atteso. Samuele però fa sempre tenerezza e fa sfigurare Peyote, d’altronde con quel nome d’arte dove crede di andare. Ormai l’autore di “Chicco e Spillo” è un cantautore ex-giovane e in certe espressioni ricorda Sergio Endrigo da vecchio. Il pezzo è bello, però, insomma, per il festival è sprecato.

Orietta Berti dismette l’abito con le conchiglie sul petto e passa al rosso luccicante. Massimo rispetto per la sua voce e per la scelta di Sergio Endrigo, questa volta quello vero. Poi cerco su Internet e scopro che Le Deva esistono sul serio e hanno pure una pagina Wikipedia. Non era uno scherzo, quindi.

E, a proposito di gente inutile, ecco Gio Evan e accompagnato dalle cariatidi per cantare gli 883, che erano cariatidi anche loro però già da giovani. Una fase che pensavo avessimo superato, come quella dei “Neri per caso” riesumati da Ghemon con tutti i tighidin tighidin tighidin di accompagnamento.

La partecipazione della coppia Rappresentante di lista + Rettore ha creato alte aspettative ma per la divina Donatella occorre attendere fino alla seconda strofa. Nell’insieme impeccabili ma c’era gente che si adoperava per il revival della canzonetta italiana anni 70 già vent’anni fa. Resta comunque l’unica band della storia in grado di schierare due coriste siamesi unite dalla coda di cavallo.

L’arrangiamento e l’orchestrazione di “Quando” interpretato da Arisa e uno di quelli Bravi fa passare in secondo piano la componente vocale senza pretese. Vetta superata solo da “Prisencolinensinainciusol” di Madame, che però perde l’occasione di personalizzarne il testo e cambiare quegli inutili segnaposto che sono stati messi dall’autore al posto delle parole. E il pippotto iniziale sull’incomunicabilità non giustifica il resto.

Annalisa e Poggipollini in versione blues si dimenticano subito grazie a Lo stato sociale, che ci ricorda quanto sono belle le canzoni degli Afterhours senza la voce di Agnelli e che porta sul palco il paradosso dello spettacolo senza pubblico. Che non sia per sempre lo speriamo tutti, anche la notte prima del risveglio sul baratro della zona rossa.

Gaia con Lous and The Yakuza si cimentano egregiamente in una versione noir-trap di “Mi sono innamorato di te” di Tenco intrecciando voci e sorrisi. Degno di plauso anche il duetto seguente, quello di Colapesce e Dimartino alle prese con il Battiato di “Povera Patria”. Due canzoni così di peso da schiacciare qualsiasi velleità di personalizzazione. Musica indistruttibile malgrado tutto e tutti. Meglio così.

I Coma trattino basso Cose ci invitano quindi intorno al falò da spiaggia per intonare – nel loro caso per modo di dire – “Il mio canto libero”, un classico dei classici da grigliata estiva, secondo solo alla “Canzone del sole”. Radius ci mette la chitarra con il doppio manico e l’esperienza per condurre la canzone sino alla tu tu tu tu tu tu finale.

Sembra incredibile, poi, come “Del mondo” risulti una una canzone perfetta per Sanremo. La versione psichedelica della Magical Mystery Band, un ensemble che unisce cantautori romani con la sezione ritmica della band di Zoro, è ottima e gli archi dell’orchestra del festival danno il loro decisivo contributo.

La scelta di Malika Ayane, invece, è una vera dichiarazione di intenti. Proporre “Insieme a te non ci sto più” in una rassegna di duetti alla fine ti fa salire sul palco da sola. Ben le sta. D’altronde nessuno vuole mettersi a confronto con i precedenti degli Avion Travel e Franco Battiato e, a dirla tutta, non mi sembra una molto simpatica.

E anche Heavy Meta con Napoli Mandolin Orchestra non porta nessun valore aggiunto a “Caruso”. Basta saperla cantare, e da questo punto di vista nulla da dire. Il tentativo di riprodurre il dialetto napoletano riesce parzialmente, come quando Marinelli faceva parlare in romanesco De André. Peccato per i mandolini quasi impercettibili, li avrei resi più protagonisti.

Chi l’avrebbe mai detto che sarei arrivato fino in fondo? Le sostituzioni di accordi nel remake di “Gianna” da parte di Aiello ne fanno una versione così irriverente che non si può parlarne che bene. Poi però arriva un rapper a rovinare tutto così ne approfitto per rimangiarmi quello che pensato, spegnere la tv e coricarmi. Anche questa sera è andata. 

sanremo 2021, le pagelle della seconda serata

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Ho capito chi mi ricorda: Fiorello somiglia sempre di più a Totò. Ma nessun principe della risata insisterebbe con la stessa battuta per così tanto tempo. La comicità non dovrebbe mai prendere per sfinimento. Di contorno, invece, niente male lo spot Amazon che è ricco di cameo. Non lo avevo notato ieri sera. Per il resto non si capisce più niente: pubblicità di fiction RAI su Nada e di serie tv Netflix con le canzoni di Nada. Mi gira subito la testa e si entra immediatamente in gara.

Orietta Berti, grande melodia, verbi al passato remoto, conchiglie sulle tette, vibrato ed echi di ritmo trap ma è solo l’illusione della prima strofa e del brano di apertura della seconda serata. Proprio per questo, per il momento, risulta la migliore.
Bugo; due taglie di giacca marrone in più, ha lo stile di un sempliciotto di campagna che va a messa la domenica. L’intro sembra una di quelle fanfaronate alla “Mi ritorni in mente”, il resto un tripudio di ottoni e Vasco. Scanzonata, forse fin troppo.
Dopo appena due canzoni c’è già il primo intervallone musicale. Il mash-up Pausini-Queen tutto sommato spassoso, però tirare troppo per le lunghe lo show non fa bene e fa esasperare i cinquantenni che vogliono coricarsi presto.
Gaia entra in trance, ma parte la musica e si rivela un’altra con la tazzina in bocca e ci si chiede perché tutti cantino allo stesso modo. Troppo impegnata a ballare una canzone a suo modo dignitosa. Potrebbe anche vincere.
Lo Stato Sociale: perfetti e perfettamente fuori target, puro cabaret, appena un tacca sotto l’avanspettacolo.
Il volo: no, vi prego, il volo no.
La rappresentante di lista mi fa sempre venire in mente la giornata di uno scrutatore. Vestiti come il tenerone di Drive In ma, colori a parte, risultano i più raffinati e pretenziosi del festival. La canzone è tutta un testacoda e il ritornello è un ritornello che ti si pianta in testa. Finalmente.
Su Malika Ayane mi sono addormentato.
Per fortuna mi sveglio con Elodì che dovrebbe essere un nuovo giorno dopo il mercoledì. uno di quelli che non vedi l’ora che arrivino. E quando arrivano sono giorni che lasciano il segno. Il medley che canta non ha eguali per gli arrangiamenti. Geniale “Could you be loved” in maggiore su “E la luna bussò” (ecco perché ieri sera la Bertè non l’ha riproposta) e “Crazy in love” su Mahmood. Peccato poi si vesta da swiffer e rovini tutto.
Heavy Meta o come cazzo si chiama ci riporta nei classici di Sanremo. Ha una canzone così innocua che si dimentica giusto il tempo di scriverne per due righe.
Gli Extraliscio sono un’idea forte con un progetto debole e il theremin sul palco. Toffolo dei Tre Allegri Ragazzi in Terapia Intensiva indossa la mascherina in modo errato. Proseguono la tradizione della coreografia sul palco, sull’onda della scimmia nuda e della vecchia che balla, con una canzone abbastanza convincente.
Poi parlano di rap e neomelodici, pensavo fosse Liberato e invece era Gigi D’alessio. Vabbè. Cosa non si fa per tirare l’una e mezza. Per fortuna il tg1 ci riporta in piena pandemia.
Segue il secondo pippone in due giorni sotto forma di audiolibro di Achille Lauro. Stasera niente fiore, per fortuna. Mentre sgomberano il palco controllo l’orologio: manca ancora un’ora alla fine. Un ultimo sforzo.
Random è l’ennesima star dello streaming da svariati milioni di visualizzazioni. Gambe rubate a Glovo. Forse l’attacco più stonato di tutti.
Fulminacci ha il timbro di De Gregori e finalmente sento qualcosa che mi piace. L’indie italiano alla Calcutta sbarca a Sanremo senza snaturare la sua riconoscibilità. Non vincerà mai, ma almeno ha un coretto come si deve. Per me è un otto abbondante.
Willy Peyote canta per gli addetti ai lavori e cita Boris e il meme di “che succede” tanto quanto lo stato sociale. Ma in scaletta viene dopo e il copione risulta lui. Amici partecipanti, mettetevi d’accordo prima.
C’è il tempo per un altro karaoke come ai vecchi tempi. Metto la tele sul mute e scrivo questo post.
Ed eccoci al rush finale, così deludente che mi fa pensare che era meglio fermarsi prima e recuperare qualche minuto di sonno. Gio Evan non l’ho mai sentito nominare prima. Lo googlo e dalla faccia mi sembra simpatico, Poi canta e mi viene voglia di spaccare tutto. Irama si esibisce in differita, posso immaginare che sia una merda, così spengo e vado a letto. Ci vediamo l’anno prossimo.

sanremo 2021, le pagelle della prima serata

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Fiorello e Amadeus: solito stile da Veraclub con l’aggravante del karaoke nel 2021. Le canzoni che non c’entrano, in un festival della canzone, sviliscono la canzone in sé e banalizzano lo show.
La tipa di Undoing: bella sciolta, bella e sciolta.
Intermezzi pubblicitari: spot in grande spolvero, Netflix su tutti. Sanremo ormai è come il Superbowl.

Ma passiamo alla musica.
Arisa: sembra una canzone di Arisa di qualche tempo fa, comunque una merda.
Colacoso e quell’altro: una merda, in più vestiti da cani.
Aiello: e chi cazzo è questo? Comunque una merda.
Michielin e Fedez: una merda, i duetti melodia e rap e poi ancora melodia hanno ampiamente rotto il cazzo. A loro il premio del mai più senza, secondo la rubrica di Cuore. Leggete qui:

Sanremo 2021, il tifo di Chiara Ferragni e il messaggio “nascosto” della camicia di Fedez: Fedez si è esibito sul palco dell’Ariston insieme a Francesca Michielin. A casa, sua moglie, Chiara Ferragni ha fatto il tifo insieme al figlio Leone. Nel pomeriggio proprio Leone aveva indossato una camicia speciale, uguale a quella con cui Fedez si è poi esibito a Sanremo. Sulla camicia Versace c’erano 4 lettere, le iniziali dei nomi di tutti i componenti della famiglia e una “V” in più. Per i fan si tratta di un indizio sul nome della prossima figlia della coppia, ed è scattato il totonomi.

Da Repubblica. Ma andate affanculo voi, Fedez e la Ferragni. E anche i loro figli.

Loredana Bertè: un plagio di una canzone di Loredana Bertè, anzi più di uno. Ah ma non era in gara? Peccato.
Max Gazzè in quota Salvi, Pippo Franco, i Figli di Bubba, Elio e le storie tese e tutto l’umorismo canoro e demenziale che ha calcato il palco di Sanremo. Che barba, in tutti i sensi.
Noemi due punto zero: brano perfetto per la gara, potrebbe anche vincere.
Achille Lauro conciato come un Peter Gabriel da balera. Fa della filosofia da tanto al mucchio e si prende troppo sul serio. Lo preferivo coatto ai tempi di Thoiry.
Esordisce la canzone scomposta, con Madame, una di quelle che vanno di moda adesso. Ci vogliono i sottotitoli e un buon metronomo. La regia nel ritornello fa venire mal d’auto. Ma le nuove generazioni – se seguissero Sanremo – sarebbero a loro agio.
Maneskine: stavo giusto pensando che fine avesse fatto il rock nella musica italiana, poi sono saliti sul palco loro e probabilmente il karma come un boomerang mi si è ritorto contro e mi ha punito. Ho capito che fine ha fatto il rock e perché nessuno vuole più suonarlo. Per quanto riguarda il pezzo, la lezione dei Little Pieces of Marmalade è servita almeno a qualcosa, come se fosse tutto un magna magna. Comunque una merda.
Ghemon: non ci ho capito un cazzo ma ho avuto un rigurgito di Jamiroquai. Vestito malissimo, si muove come un rapper goffo. Gli acuti sono da migliorare, ma nell’insieme insignificante.
Coma undescore cose: non è tanto che siano stonati, è che ci vorrebbe per loro un buon logopedista. Molto meglio quando cantavano sì con riso senza lattosio.
Annalisa: il giro di accordi è da sempre lo stesso, ma forse è una scelta stilistica, quella di interpretare solo brani mediocri e tutti uguali. Ottima la scollatura made in Valbormida.
Francesco Renga: che brutta canzone. Peccato.
Fasma: dovrebbe togliere l’autotune e il gessato. Ma si sono messi tutti d’accordo per vestirsi così male? La solita trappata romantica strasentita e, per di più, il ragazzino tiene il fiato a fatica. Nell’insieme il meno peggio.

A questo punto, speriamo nella seconda serata.

weekend

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dicono che si sono sciolti i Daft Punk ma io non ci casco

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scarabocchio

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Ho conosciuto Valeria al raduno nazionale dei fan di Garbo. Eravamo quattro gatti ma gli organizzatori ci hanno diviso lo stesso a seconda della canzone che ci rappresentava di più, requisito che in molti avevano frainteso con una banale dichiarazione del proprio brano preferito. In realtà si trattava di un’attività da team building aziendale, forse poco adeguata al contesto ma che comunque mi sembrava coinvolgente. Io e lei eravamo gli unici nel gruppo di “Cose veloci”, la canzone che Garbo ha presentato al Festival di Sanremo dell’85. Ci siamo presentati e, dopo i convenevoli, la conversazione si è immediatamente incentrata sull’esibizione in playback del giovedì alla manifestazione canora. Garbo sembrava Lloyd Cole, con quel dolcevita marrone chiaro e l’avveniristico ciuffo laterale. Niente a che vedere con il look dell’esibizione dei giorni successivi. Ci siamo ricordati però del paradosso del brano che, malgrado il titolo, aveva un andamento downbeat. Nonostante ciò c’era qualche dj che lo passava, considerato che il bpm rallentato non costituiva un’eccezione nelle selezioni per intrattenere la gente in pista, una sorta di warm-up propedeutico alle proposte più consone per una programmazione orientata al ballo. Valeria mi ha mostrato la copia del 45 giri autografata che aveva portato con sé al raduno e che custodiva in una di quelle buste in plastica trasparente in cui si conservano i dischi da collezione. Io le ho confessato di non esserne munito ma di avere l’mp3 da qualche parte. Mi è sembrata delusa dalla mia inadeguatezza. Mi ha detto che nessuna celebrità metterebbe mai la firma su un file. Stavo per raccontarle della cartolina promozionale di “Sorrisi e Canzoni TV” con dedica di cui mi aveva fatto omaggio di persona prima di un concerto ma nel frattempo, nella sala, ha preso il via il provvidenziale ascolto dei più famosi successi del cantautore, e la cosa è finita lì.

la guerra di Corea

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In caso di conflitto mondiale tra jazz e fusion sosterreste gli Akoustic o gli Elektric?

la svizzera

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I due principali siti di e-commerce dedicati ai biglietti di concerti sono andati in tilt per il massivo attacco dei fan italiani di The Weeknd. La vendita apriva alle dieci del mattino e già alle dieci e zero uno secondi le pagine erano in palla e restituivano messaggi contraddittori. Ho provato a rivolgermi al supporto clienti e mi sono sentito rispondere che il sistema non regge a un assalto di tali proporzioni, malgrado la strategia di rendere disponibili quantità limitate in momenti diversi, utile a evitare speculazioni e rivendite successive a prezzi gonfiati. Il fatto è che era il compleanno di mia figlia e il biglietto del concerto di The Weeknd al forum di Assago lo aveva chiesto come regalo. Sapete cosa non si fa per i figli.

Purtroppo l’esito di certe operazioni è già scritto nella storia. L’impossibilità di aggiudicarsi la partecipazione a grandi eventi è un problema che da tempo affligge le persone normali come me e voi. Non si capisce perché non si ricorra a una gestione più efficace delle richieste nei casi in cui l’affluenza superiore alla disponibilità sia più che ovvia. Mi vengono in mente almeno dieci soluzioni diverse – tutte basate sull’informatica, eh – per evitare colli di bottiglia rispetto a quella più demenziale che, guarda caso, ogni volta mostra tutti i suoi limiti. Tutto questo rende ancora più surreale il paradosso di voler semplicemente ascoltare dal vivo il proprio artista del cuore: il costo dei biglietti è inqualificabile – l’industria musicale, tra mp3 e pandemia, è letteralmente impazzita – senza contare che, nel mio caso, la data prevista per il concerto è il 1 di novembre. DEL 2022. E i siti che vanno in tilt quando ce n’è bisogno sono ormai una caratteristica del nostro Paese, tanto quanto la mozzarella e i mandolini.

Poi ci è venuto in mente di controllare le date del tour di The Weeknd e abbiamo appreso che la tappa successiva era prevista a Zurigo. Due clic (a ore di distanza dall’apertura della vendita c’era ancora piena disponibilità), la digitazione del numero di carta di credito e il biglietto – peraltro nel golden ring – è arrivato nella mia casella di posta. E lo so: Zurigo è a 3 ore di treno mentre Assago a venti minuti di tangenziale. Pazienza. Magari è anche una bella città e per mia figlia – e l’amica che la accompagnerà – sarà l’occasione per una gita.

Imagine – A Perfect Circle

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La maniera più elementare per insegnare la differenza tra maggiore e minore in musica è associare il primo modo alla serenità, il secondo alla mestizia. “Jingle Bells” è in maggiore, l’”Adagio di Albinoni” – che poi non è di Albinoni – in minore. Se avete studiato musica qualche riferimento a questa dicotomia vi sarà stato presentato, magari con esempi diversi. Se invece ne eravate all’oscuro e, grazie a questo incipit, avete pensato “cazzo, è vero”, divertitevi a cercare su Youtube gli esperimenti e le gag sui pezzi trasformati da maggiore in minore o viceversa (anche se fanno più ridere i primi) e constatate come passano all’opposto delle intenzioni di chi li ha composti. Ce ne sono migliaia, basta digitare “major key” o “minor key” nel campo di ricerca e il gioco è fatto.

Gli A Perfect Circle partono già con il piglio di chi non ha tanta voglia di scherzare e, con “Imagine” di John Lennon, sono andati fino in fondo. “eMOTIVe”, l’album che la contiene, è infatti una raccolta di esercizi di stile, da questo punto di vista. L’obiettivo è mettere sottosopra la speranza, l’ottimismo e anche la tranquillità in un momento piuttosto greve per la politica estera americana e per il mondo intero. È il 2004 e i fronti in cui l’esercito statunitense e i suoi alleati ci danno dentro con l’esportazione della democrazia non sono pochi. Di rimando, i messaggi di insofferenza verso il modello occidentale iniziano a palesarsi con una certa ricorrenza. Questo per dire che c’è poco da stare allegri e l’uso di una chiave di lettura pessimista per interpretare le cose può essere perfettamente in linea con l’indole già tutt’altro che leggera di Maynard James Keenan e soci.

Il risultato è una “Imagine” al contrario, una canzone di una cupezza senza confronti. A poco più di trent’anni dalla sua composizione, l’inno pacifista per eccellenza viene scardinato nella sua essenza tanto da diventare una straziante marcia funebre della civiltà come la conosciamo. Si passa a un livello superiore e decisivo in cui non c’è più niente da fare: se la versione originale voleva volgere le coscienze al primato della fratellanza, il nuovo arrangiamento ne accentua il fattore parodistico. I sognatori hanno perso, e l’idea di un unico paese in cui vivere tutti insieme – quello dell’economia globalizzata – non è certo ciò che aveva in mente John Lennon. Il video ne accentua, quindi, l’intento. La fine del mondo è prossima e descriverla con i versi di chi si era impegnato per arginare il decorso è il paradosso più eclatante.

“Imagine” in modo minore è la cover perfetta e, allo stesso tempo, la prova che basta qualche alterazione nella scala per dare un peso e un significato diverso alle parole e alle intenzioni con cui è nata una canzone. D’allora in poi, per insegnare la teoria musicale, gli A Perfect Circle possono risultare più che efficaci.

Out Of Control – The Chemical Brothers

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“Out of control” è allo stesso tempo il pezzo più bello dei Chemical Brothers e dei New Order. Non avete ancora chiuso la pagina? Bene, allora sentite qui, perché sono certo che alla fine mi darete ragione. In un’unica canzone infatti si compie qualcosa che ha del miracoloso. Il suono dei paladini del big beat lascia da parte i principianti delle comparsate nella musica trendy dell’epoca e si impreziosisce finalmente di uno dei timbri più caratteristici della new wave inglese, quello di Bernard Sumner, mentre i “postumi” – passatemi il termine – dei Joy Division, o almeno il loro storico frontman che in questo frangente ne ha la delega, ritornano alla completezza armonica e ritmica dei tempi migliori, dopo il lungo periodo di stasi artistica degli anni novanta.

“Out of control” è innanzitutto un brano che abbiamo vissuto in lungo e in largo. Lo abbiamo ballato quando i DJ non avevano nessun imbarazzo a mescolare la musica del periodo d’oro dell’elettronica alla techno, al rock e all’indie dei tempi. Lo abbiamo ascoltato contando il susseguirsi di suoni e rumori di tutti i tipi, bramosi nell’interminabile attesa dell’orgasmo indotto dalla inimitabile schitarrata che Sumner somministra come una cosa rarissima solo una volta, a tre quarti della canzone, quando la tensione raggiunge il culmine e, raggiunto il piacere sommo, ci lascia scemare l’estasi fino alla fine, ormai ebbri di appagamento sensoriale.

Lo abbiamo visto in un video che ha fatto storia, con una spaziale Rosario Dawson agli esordi di carriera che domina una scena di guerriglia urbana in un triste presagio di ciò che avverrà pochi anni dopo proprio qui in Italia. Una storia di amore sotto gli occhi delle forze dell’ordine che darà ispirazione all’iconografia delle effusioni scambiate tra manifestanti all’ombra di manganelli, scudi e lacrimogeni, se non addirittura alle istantanee di baci provocatori tra no-tav e poliziotti in assetto da battaglia, roba con cui i quotidiani on line negli anni duemila hanno raccolto centinaia di migliaia di clic post-adolescenziali.

Lo abbiamo lasciato fisso nelle numerose playlist che si sono susseguite nelle nostre sessioni di running. Centinaia di brani ritmati si sono susseguiti in anni di corse ignoranti verso il nulla urbano ma “Out of control” è rimasta meritatamente al suo posto, da lanciare nei momenti di maggior fatica quando il fisico e la convinzione a raggiungere il traguardo non bastano più e ci vuole qualcosa che consenta alle nostre gambe di non perdere il ritmo e chiudere l’allenamento secondo i tempi programmati.

“Out of control”, singolo tratto da “Surrender” e uscito agli sgoccioli del secolo scorso, conserva inalterata la sua perfezione tra suoni e cantato, tra post punk ed elettronica, tra passato e futuro e ad oggi risulta sempre attuale, tanto che non sfigurerebbe né in un nuovo disco dei New Order – se avete presente “Music complete” sapete a cosa mi riferisco – né in una nuova fase sperimentale dei Chemical Brothers, mantenendo in entrambi i casi invariato il suo messaggio di lotta e di speranza.