La gestione Veraclub di Sanremo 2021 potrebbe rendere superflua una manche dedicata alle cover. Le prime due serate hanno visto gli animatori del Festival nel nuovo format villaggio vacanze cimentarsi in diversi karaoke, d’altronde come biasimarli se arrivano da lì. Il fatto è che in genere non è una buona idea interporre in una manifestazione canora delle canzoni alle canzoni in gara, per giunta interpretate dai conduttori, che è un po’ come riempire un bicchiere di pillole al posto dell’acqua per mandare giù una pillola, non so se mi spiego.
Il fatto è che la vera gara delle cover l’ha già vinta Elodie nella seconda serata. L’avete vista? “Tequila e guaranà” su “Vogue” di Madonna, “E la luna bussò” con un campionamento del riff di chitarra di “Could You Be Loved?”, “Fotoromanza” della Nannini in salsa downbeat, il mash up tra “Easy lady” di Spagna e “Rumore” di Raffaella Carrà (che resta un pezzone) e “Soldi” di Mahmood su “Crazy in Love” di Beyoncé. Si capisce che è una che, nella musica, si sa divertire. Non so chi sia l’ideatore dell’esibizione e chi abbia curato gli arrangiamenti ma per me non c’è storia, ha vinto lei e potremmo chiudere qui. Aspetta, però: e i duetti della terza serata?
Con Noemi e Neffa c’è un problema in cuffia e un curioso effetto fuori sincro. Il problema è l’autocitazione: Neffa che interpreta la parte meno importante di sé. Il capo dei messaggeri della dopa dovrebbe, per contratto, limitarsi a “Cani sciolti” o ai duetti con Giuliano Palma. “Prima di andare via” ci ricorda anche che la stagione dell’acid jazz è finita da un pezzo. Non proviamo alcuna nostalgia.
“Penso positivo”, con tutta quella gente lì e Fulminacci, mi fa venire voglia di pensare in negativo: qual è il contributo di un’esibizione impostata così? Siamo capaci tutti a prendere un pezzo che dal vivo spacca. Poi chiami Roy Paci e spacca ancora di più. Fino a quando arriva Lundini, ci mette una pezza e ricompone la grande chiesa che sappiamo da dove parte e sin dove arriva.
Francesco Renga e quella tizia conciata come un’abat jour propongono uno dei brani più belli degli anni 70 in bianco e nero. Mi ricorda Ornella Vanoni e i varietà dopo i tg che snocciolavano i numeri dei morti per terrorismo. I due la cantano dignitosamente, ma manca il tema strumentale che chiude i ritornelli (quello che Mino Reitano interpretava con la sua voce potente) e il pezzo risulta incompiuto.
Decisamente spassosi gli Extraliscio con quella specie di Goran Bregovic e Kočani Orkestar di fiati sconnessi da cui si sono fatti accompagnare. Un tripudio di musica popolare. Io avrei azzardato di più, inserendo nel medley “Kalashnikov”.
Nesli e Fasma hanno nomi che sembrano gli snack al cioccolato finto che prendo al distributore automatico. A quello con la giacca da prete non gli funziona il microfono collegato all’auto-tune. Poi glielo accendono, peccato.
Per Bugo e i PTN l’avventura non decolla. Capisco l’intento di rendere attuale Battisti con un arrangiamento da indie-pop da classifica, ma l’obiettivo viene raggiunto a metà e, considerando la portata del brano, risulta inadeguato. L’originale è troppo stra-sentita e per farla salire di tono ci vuole ben altro.
Michielin e Fedez si presentano vestiti da pagliacci e riescono nell’intento, come diceva mia mamma, di far ridere i polli. Il medley presentato si attesta su uno dei punti più bassi di Sanremo di tutti i tempi. Il balletto di Fedez, come dicono gli adolescenti, è decisamente cringe.
Poi si collega Irama in smart working a cantare Guccini: qualcuno si indigna per il sacrilegio ma è giusto che nel pop non ci sia spazio per il culto artistico della musica d’autore. L’esibizione, per dirla alla Morrissey, non mi dice nulla sulla mia vita. L’originale è troppo distante, la copia puro esercizio di stile.
L’agenda della serata a questo punto prevede i Moleskine con Agnelli che, a differenza di quelli di prima, mi pungono sull’orgoglio. Toppano in pieno lo spirito dei CCCP, anche se si tratta della versione già sulla via per Damasco verso la beatificazione CSI, ma tanto Giovanni Lindo Ferretti è già abbastanza sputtanato di suo. Il guaio è che in rete si parla solo di loro (dei Maneskine, eh, prima ho sbagliato il nome apposta per fare la battuta) e, come spesso accade, non mi stupirei se vincessero tutto.
Arrivati a Random capisco cosa c’è che non va. Dopo anni di X-Factor e di talent musicali risulta impensabile trovare ancora canzoni da coverizzare in tv. Le più adatte sono già esaurite, pensate alle decine di versioni di “Se telefonando” e “Un’emozione da poco”. Presentare un pezzo come “Ragazzo fortunato” suona come raschiare il fondo del barile.
Nella serata delle dimissioni di Zingaretti sul palco poi sale il Bersani meno atteso. Samuele però fa sempre tenerezza e fa sfigurare Peyote, d’altronde con quel nome d’arte dove crede di andare. Ormai l’autore di “Chicco e Spillo” è un cantautore ex-giovane e in certe espressioni ricorda Sergio Endrigo da vecchio. Il pezzo è bello, però, insomma, per il festival è sprecato.
Orietta Berti dismette l’abito con le conchiglie sul petto e passa al rosso luccicante. Massimo rispetto per la sua voce e per la scelta di Sergio Endrigo, questa volta quello vero. Poi cerco su Internet e scopro che Le Deva esistono sul serio e hanno pure una pagina Wikipedia. Non era uno scherzo, quindi.
E, a proposito di gente inutile, ecco Gio Evan e accompagnato dalle cariatidi per cantare gli 883, che erano cariatidi anche loro però già da giovani. Una fase che pensavo avessimo superato, come quella dei “Neri per caso” riesumati da Ghemon con tutti i tighidin tighidin tighidin di accompagnamento.
La partecipazione della coppia Rappresentante di lista + Rettore ha creato alte aspettative ma per la divina Donatella occorre attendere fino alla seconda strofa. Nell’insieme impeccabili ma c’era gente che si adoperava per il revival della canzonetta italiana anni 70 già vent’anni fa. Resta comunque l’unica band della storia in grado di schierare due coriste siamesi unite dalla coda di cavallo.
L’arrangiamento e l’orchestrazione di “Quando” interpretato da Arisa e uno di quelli Bravi fa passare in secondo piano la componente vocale senza pretese. Vetta superata solo da “Prisencolinensinainciusol” di Madame, che però perde l’occasione di personalizzarne il testo e cambiare quegli inutili segnaposto che sono stati messi dall’autore al posto delle parole. E il pippotto iniziale sull’incomunicabilità non giustifica il resto.
Annalisa e Poggipollini in versione blues si dimenticano subito grazie a Lo stato sociale, che ci ricorda quanto sono belle le canzoni degli Afterhours senza la voce di Agnelli e che porta sul palco il paradosso dello spettacolo senza pubblico. Che non sia per sempre lo speriamo tutti, anche la notte prima del risveglio sul baratro della zona rossa.
Gaia con Lous and The Yakuza si cimentano egregiamente in una versione noir-trap di “Mi sono innamorato di te” di Tenco intrecciando voci e sorrisi. Degno di plauso anche il duetto seguente, quello di Colapesce e Dimartino alle prese con il Battiato di “Povera Patria”. Due canzoni così di peso da schiacciare qualsiasi velleità di personalizzazione. Musica indistruttibile malgrado tutto e tutti. Meglio così.
I Coma trattino basso Cose ci invitano quindi intorno al falò da spiaggia per intonare – nel loro caso per modo di dire – “Il mio canto libero”, un classico dei classici da grigliata estiva, secondo solo alla “Canzone del sole”. Radius ci mette la chitarra con il doppio manico e l’esperienza per condurre la canzone sino alla tu tu tu tu tu tu finale.
Sembra incredibile, poi, come “Del mondo” risulti una una canzone perfetta per Sanremo. La versione psichedelica della Magical Mystery Band, un ensemble che unisce cantautori romani con la sezione ritmica della band di Zoro, è ottima e gli archi dell’orchestra del festival danno il loro decisivo contributo.
La scelta di Malika Ayane, invece, è una vera dichiarazione di intenti. Proporre “Insieme a te non ci sto più” in una rassegna di duetti alla fine ti fa salire sul palco da sola. Ben le sta. D’altronde nessuno vuole mettersi a confronto con i precedenti degli Avion Travel e Franco Battiato e, a dirla tutta, non mi sembra una molto simpatica.
E anche Heavy Meta con Napoli Mandolin Orchestra non porta nessun valore aggiunto a “Caruso”. Basta saperla cantare, e da questo punto di vista nulla da dire. Il tentativo di riprodurre il dialetto napoletano riesce parzialmente, come quando Marinelli faceva parlare in romanesco De André. Peccato per i mandolini quasi impercettibili, li avrei resi più protagonisti.
Chi l’avrebbe mai detto che sarei arrivato fino in fondo? Le sostituzioni di accordi nel remake di “Gianna” da parte di Aiello ne fanno una versione così irriverente che non si può parlarne che bene. Poi però arriva un rapper a rovinare tutto così ne approfitto per rimangiarmi quello che pensato, spegnere la tv e coricarmi. Anche questa sera è andata.
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