pietre immobili

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Per certi aspetti non c’è nulla di più democratico di una pandemia mondiale. Non siamo solo noi poveracci le vittime di questo stallo termonucleare globale. Non c’è solo il nostro dirimpettaio che alle sei di ogni santo pomeriggio si piazza fuori sul balcone a suonare musica di merda a beneficio di tutto il vicinato. Non c’è solo il tizio della villetta a schiera più avanti che, piuttosto che mettere il naso fuori di casa, fa finta di correre o di portare fuori il cane. Non ci sono solo i ristoratori che chiamano gli amici di casapound per fare un po’ di casino in piazza. Poveri e ricchi, emeriti sconosciuti e influencer di tendenza, intellettuali e deprivati, siamo tutti costretti a starcene con le mani in mano fino a quando anche l’ultimo dei più recidivi negazionisti di staminchia non sarà vaccinato e finalmente, debellato l’odiato virus, potremmo tornare a non fare scontrini fiscali, ad ascoltare la trap al parchetto e fumare le nostre sigarette elettroniche fuori dai ristoranti. Sarà una magra consolazione ma anche gente del calibro di Mick Jagger non ci sta più dentro. Pensate: con tutti i fantastiliardi che ha è costretto ad ammazzarsi di social network, pane fatto in casa e serie tv proprio come noi. A differenza nostra, ogni tanto gli viene un’idea, chiama qualche amichetto dall’altra parte del mondo e tira fuori qualcosa a tema. Quindi tranquilli, anche le rockstar si annoiano a stare fermi.

Dry Cleaning – New Long Leg

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Ammiro il coraggio degli artisti che puntano tutto sulla formula della loro proposta e non solo sulle canzoni in sé. Li stimo perché si prendono un rischio doppio rispetto agli altri. Oltre a piacere o non piacere entra in gioco anche la possibilità che la formula scelta vada a scapito delle canzoni e che non sia una fonte inesauribile. Certo, azzeccare entrambe le cose – la formula e le canzoni – ti fa entrare nella storia. Sarai ricordato come un innovatore, l’archetipo di uno stile. Sarai l’ispiratore di band di emuli e ci saranno fior di esordienti che dichiareranno alla stampa di aver imbracciato per la prima volta una chitarra o di aver cominciato a scrivere versi grazie a te.

Il fatto è che se inauguri un filone devi essere davvero convinto e altrettanto convincente. Ora lasciamo perdere le speculazioni su quanti dischi riusciranno a pubblicare – fedeli quello a che fanno – mantenendo la sicurezza di sé e la stessa freschezza di cui gli EP di esordio e il primo long playing “New Long Leg” sono permeati. Focalizziamoci sul presente. I Dry Cleaning sono davvero qualcosa di imperscrutabile e risultano al contempo una delle più interessanti originalità degli ultimi anni.

Provenienti, manco a dirlo, da South London, una miniera d’oro per il post-punk britannico, Tom Dowse alla chitarra, Lewis Maynard al basso e Nick Buxton alla batteria suonano la musica del momento secondo canoni irreprensibili. La differenza è che Florence Shaw non imita Siouxsie né sbraita volgarità con la voce roca e neppure fa la lagna imbracciando una chitarra con quelle pose indie d’ordinanza che i cliché del genere impongono alle front-woman. La sua voce impassibile si muove su una fune tesa tra la melodia e il recitato, un perfetto equilibrio in cui il suo incedere distrae dalla ricerca della vera natura delle loro composizioni: sarà musica o sarà poesia? Se questo è un limite o un punto di forza lo deciderà il tempo. Se fai canzoni ed esaurisci l’ispirazione puoi sempre variare stile. Se fai spoken word su basi post-punk – la formula della proposta dei Dry Cleaning – puoi solo inventare tutto da zero e crescere e basta, ma devi essere il più creativo di tutti. E, al momento, ci riescono alla grande.

L’effetto del flusso narrativo di Florence Shaw è sorprendente e non ci vuole molto a lasciarsi convincere. La ascolti raccontare qualcosa che non torna del tutto e, per questo, la preghi di farti sapere di più, di scendere nei dettagli, di fornirti dei chiarimenti. In “New Long Leg” ci sono storie di alienazione, di paranoia e di ansie quotidiane. Una sequenza di commenti corali a un tweet visionario. Lo zapping alla tv tra un talk show e la pubblicità sul canale successivo. Un brainstorming finalizzato alla ricerca dello slogan per un prodotto. Il tutto montato a dovere, senza lasciare nulla al caso. Una visione del mondo piena di dubbi che non necessitano alcuna risposta.

Basta solo superare il paradosso alla base di tutto. In una musica così trascinante e nervosa fino all’ossessione il monologo come voce solista non è una componente statica che si mette di traverso per guastare la festa alla gente che è venuta al concerto con l’intenzione di ballarsi addosso. Semmai il contrario. Seguire Florence Shaw significa lasciarsi trascinare lungo il suo placido e costante torrente di parole. Canzoni a metà ma non prive di struttura, strofe e ritornelli, per di più composte da versi a cui manca davvero poco per assurgere a una dignità melodica.

Fino a quando, a 3 minuti dopo l’inizio di “More Big Birds”, la terz’ultima traccia dell’album, a Florence Shaw scappa di cantare e, ancora un paradosso, canta senza dire nemmeno una parola. In quel momento, a voler banalizzare, sarebbe facile perdere la testa, tuffarsi in quell’oceano di beatitudine che anche solo un du-du-du-du, in forma di aria e accennato da una delle più belle e carnose voci della musica che gira intorno di questi tempi, può generare, dopo brani su brani in cui ci siamo lasciati incantare da quella scia di armonici scaturiti da un timbro così inebriante. Bisogna trattenersi dall’implorare i Dry Cleaning di farlo ancora, di dimostrarsi meno radicali e intransigenti. Ma, al momento, è un buco nell’acqua.

Senza contare la difficoltà di separare la componente strumentale, sotto a quel fiume di parole. L’altra metà della magia dei Dry Cleaning va ricondotta infatti alla perfetta sintonia della sezione ritmica, ai loop di basso, ai riff e ai soli accennati di chitarra. Un amalgama perfettamente riuscito e davvero sorprendente. Prodotto da John Parish e registrato con mille espedienti a cavallo del lockdown, “New Long Leg” è uno straordinario lasciapassare per prendersi una vacanza da questo eterno presente e dalla manciata di metri quadrati a cui siamo costretti.

comunque poveri

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Buon compleanno a Francesco De Gregori, che fa settant’anni in questi giorni. Ognuno vuole dire la sua e, così, ecco la mia canzone preferita, che poi non è del tutto sua ma c’è lo zampino di Mimmo Locasciulli. C’è una versione in studio presente su “Canzoni d’amore” ma che non ha una buona resa, specialmente se ascoltate l’esecuzione live pubblicata come prima traccia di “Bootleg”, molto più aggressiva e dirompente. L’arpeggio di chitarra distorta che la introduce trasmette perfettamente l’urgenza e la tensione del brano. Di “Povero me” live esisteva anche un video promozionale che ruotava spesso su Videomusic, vediamo se lo trovo. Non l’ho trovato. Pazienza.

toast

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I modelli più recenti di notebook – compreso il mio e quello che ho acquistato per mia figlia – sono sprovvisti di lettore DVD, il CD player del mio impianto hi-fi si è guastato e qualche mese fa ho sottoscritto l’abbonamento a Spotify. Tutto questo in un momento in cui la mia collezione di vinili si sta espandendo a dismisura e sono in trattativa per l’acquisto del quarto giradischi con cui ascoltarli. La trattativa non è tanto con il venditore quanto con mia moglie, devo convincerla che ne abbiamo davvero bisogno. Una serie di eventi collegati tra di loro che mi ha spinto a mettere in cantina il riproduttore per compact disc dello stereo, decisione che, considerati gli eventi di cui sopra, ha reso la presenza dei CD in casa mia superflui. Ho comprato 33 giri finché ho potuto, finché si trovavano, finché l’industria musicale li ha stampati. Per farvi capire, ho una copia di “Nevermind” prima stampa in vinile mentre “In Utero” l’ho acquistato in cd, cosa di cui non smetterò mai di pentirmi. Ma nell’insieme non me ne sono procurati moltissimi, un po’ perché si trattava di una passione fuori dalla mia portata dal punto di vista economico e un po’ perché il compact disc, come supporto musicale, mi aveva disorientato e ci avevo visto giusto. Di lì a poco l’MP3 avrebbe spazzato via tutto. Non vi nascondo che i programmi di file sharing mi hanno permesso di recuperare tutto quello che, in quel vuoto di copertura del possesso fisico, avevo perso. Il fatto è che a quelle poche decine di copie originali che ho accumulato nel tempo se ne sono aggiunte diverse provenienti dalla collezione smisurata di musica classica di mio papà. Poi ho un po’ di cd di jazz e qualche collana acquistata in edicola. Per farla breve, dismettendo i quattro scaffali che ho dedicato ai CD mi sono chiesto che cosa farne. E, come per incanto, da qualche giorno mi si presenta ossessivamente sui social la pubblicità del più famoso programma per la masterizzazione di cd audio, cd rom e dvd. Che tenerezza. Ma davvero c’è ancora qualcuno che lo utilizza? 

donne dududu

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Parlare di quote rosa nella musica è un controsenso ma solo in apparenza. Il rock è da sempre monopolio maschile e il luogo comune vede la presenza delle donne solo nel ruolo di comparse seminude nei video, al seguito delle band come groupies, mogli rompicoglioni ostacolo alla carriera o amanti sfasciafamiglie. Nel migliore dei casi sono invece muse ispiratrici di depressione, fonte di dissidi tra i componenti dei gruppi fino allo scioglimento o oggetto di discordie tra cantanti di band rivali e conseguente causa di suicidi di frontman. A conferma di ciò è la visione della donna come regina incontrastata del pop propria della nostra cultura occidentale, in un incrocio tra soubrette da MTV, ballerina e interprete di hit confezionate su misura da autori e parolieri maschi. Un vero e proprio soprammobile da spettacolo, rigorosamente sexy e oggettiva macchina da soldi.

A una analisi meno superficiale, è facile scoprire la quantità – e la qualità – di voci femminili che si stanno imponendo nel panorama della musica indie e alternativa, un altro baluardo marchiato tradizionalmente dal cromosoma xy. Per me sono una vera e propria fonte di culto, soprattutto se si tratta di artiste singole, cioè non front-woman di gruppi. Ce ne sono un’infinità ma, se vi fidate dei miei gusti, potete cominciare da queste.

Inizio da Valerie June ma solo perché è la più fresca di uscita discografica, ne ho parlato qui. Viene da Memphis e, con il suo particolarissimo timbro vocale, compone e interpreta un mix di folk americano e blues delle radici suonati con banjo, archi, steel guitar a fianco degli strumenti tradizionali. Un po’ più a nord, precisamente a Toronto, vive e suona Cold Specks, nome d’arte di Ladan Hussein, cantautrice di origini somale che ha pubblicato tre dischi bellissimi prima di interrompersi per una storia un po’ triste che trovate qui ma dalla quale si sta riprendendo. Non vediamo l’ora di mettere le mani – e le orecchie – sul nuovo album a cui sta lavorando e che pubblicherà a nome Ladan, questa volta.

Poi c’è la divina Sevdaliza – raffinatissima artista olandese ma di origini iraniane – che nel 2020 ha pubblicato “Shabrang”, uno dei dischi più belli dell’anno, anche se chi ha scritto questa recensione probabilmente pensava ad altro. Il genere è uno dei miei preferiti e, se fossimo negli anni novanta, potremmo definirlo trip-hop. Virando questo filone verso il neo soul e l’r&b, stile che vede come interpreti di punta FKA Twigs e Solange Knowles, vi consiglio la promettente Brittney Denise Parks, meglio nota con lo pseudonimo di Sudan Archives, autrice di un suadente album uscito nel 2019 e dal titolo “Athena”.

A cavallo tra le cantanti del paragrafo precedente e quelle che troverete sotto metterei – per questioni di sonorità – Laetitia Tamko, ovvero come è identificata all’anagrafe Vagabon, musicista e producer newyorkese ma di radici camerunensi. Il suo disco omonimo del 2019 merita ascolti attenti, ma anche il suo esordio “Infinite Worlds” del 2017 non scherza, in quanto a bellezza. Non sfigura al suo fianco Sunny War, musicista e cantante folk-punk con venature blues di Los Angeles. Proprio in questi giorni esce il suo nuovo album “Simple Syrup”, che non vedo l’ora di ascoltare.

Poi ci sono le cantautrici più come ce le immaginiamo noi dall’Italia, chitarra (a volte distorta) e voce con sconfinamenti nell’indie rock. Partendo dalle più elettriche valgono sicuramente una discografia completa nella vostra collezione di vinili Lucy Dacus, Phoebe Bridgers e Julien Baker – che non a caso si riuniscono anche in un supergruppo dal nome Boygenius – ciascuna con le sue peculiarità. La prima è la più ruvida di tutte, Phoebe Bridges quella più morbida e Julien Baker di sicuro la più alternativa. In questa macro-categoria è doveroso ricordare gli archetipi, secondo me riconducibili a P. J. Harvey e Sharon Van Hetten, sulle quali immagino sappiate già tutto ed è inutile che vi inviti ad ascoltarle.

Completamente fuori da tutti gli schemi Merrill Garbus, nota come Tune-Yards (che in realtà dovremmo scrivere tUnE-yArDs), un’artista statunitense sulla scena da più di dieci anni che sperimenta curiosi incroci tra indie-rock, afrobeat, elettronica e tante altre cose. Tra le ultimissime uscite un po’ fuori dagli schemi di quest’anno vi segnalo quella di Cassandra Jenkins, songwriter di Brooklyn che ha dato alle stampe da poco un sorprendente album dal titolo “An Overview on Phenomenal Nature”.

Mi sposto in Europa per condividere con voi la mia passione per Nadine Shah, vera indie-rocker dalle venature dark (agli esordi) e di più ampio respiro negli ultimi lavori. Se volete saperne di più qui trovate la mia recensione di “Holiday Destination”, album del 2017, e qui del recentissimo “Kitchen Sink”. Tra le mie preferite, anzi ai vertici delle top ten delle cose che ascolto più spesso, c’è Anna Lena Bruland, in arte Eera. Il suo “Reflection of Youth” propone in una veste psichedelica e alternative certe atmosfere rarefatte che Lana Del Rey interpreta in modo più modaiolo. Last but not least la giovane Nilüfer Yanya, attiva dal 2016 e autrice di un nuovo EP dal titolo “Feeling Lucky” e contenente il brano “Crash” che, da queste parti, da qualche giorno è in rotazione continua.

Chiudo con due certezze che, purtroppo, non si sentono da un po’: la blasonata superstar M.I.A. – sto aspettando il suo nuovo lavoro annunciato in uscita quest’anno – e la meno celebre ma altrettanto sublime Santigold che, come la cantante di “Paper Planes” mescola rap, reggae, drum’n’bass e r&b ma di cui da un po’ ho perso le tracce.

Se avete qualche suggerimento o mi sono dimenticato qualcosa, fatevi sentire.

Valerie June – The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers

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Torna la primavera e torna Valerie June con la sua voce unica. Ed è una fortuna: ancora barricati in casa, un manuale per sognatori è proprio quello che ci vuole.

Il timbro di Valerie June è uno strumento musicale a sé che merita un nome tutto suo. Una virtù che ha le sue radici nei generi musicali a cui sono stati ricondotti i suoi due precedenti album, “Pushin’ Against A Stone” e “The Order Of Time”. Blues, soul, bluegrass e folk, tutti insieme e nelle stesse tracce. Apparentemente un paradosso, nei fatti invece un perfetto asse di simmetria tra la tradizione country e quella afroamericana. Un ponte tra Memphis e i monti Appalachi in una voce tutta testa e cuore ma pronta a ruggire nella gola, nell’anima e nella pancia come in un coro gospel.

Nel corso della carriera di Valerie June c’è stato persino un salto dalle roots degli esordi verso l’alto, fino alla luna e alle stelle del titolo di questo ultimo lavoro, e lo si evince persino dalle copertine dei dischi. Dai colori caldi e dagli elementi della terra dei precedenti album a quelli rarefatti e patinati del nuovo disco, con le luci di scena color argento che impongono vestiti da sera per occasioni uniche e irripetibili.

Chi segue Valerie June sui social avrà potuto accertare di persona la sensibilità e la spiritualità d’altri tempi di questa straordinaria artista e la genesi di “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers”, il suo ultimo lavoro che ha preso forma e consistenza nell’anno della pandemia. Non è raro vederla accendere candele per inviare raggi di gratitudine in tutto il pianeta, seguirla meditare durante la luna piena per concentrarsi sulle “dolci piccole cose della vita”, esortare chi la segue a brillare come la polvere delle stelle per rendere più luminoso il percorso di chi ci sta accanto.

Forse la sua positiva ricerca della natura, dell’anima e della vita stessa in tutte le cose ha avuto una parte decisiva in questo disco di così ampio respiro. Una filosofia che trova il suo manifesto nei versi della canzone “Home Inside”, brano che non a caso chiude l’album: la casa che è dentro di noi, un posto che ha una finestra sull’anima, “uno spazio creativo che nessuno ha il diritto o il potere di sottrarci” – lo ha dichiarato lei stessa in un’intervista a NPR – con un giardino sul lato soleggiato per poter crescere, e quella formula a cui non riusciamo a dare un nome – alcuni la chiamano preghiera, altri come me la chiamano la voce di Valerie June – che ci permette di trovare la pace con noi stessi.

Ed ecco perché “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers” è un vero e proprio manuale per sognatori. Intanto è un album che guarda più lontano, rispetto ai precedenti, anche sotto il profilo meramente musicale. “Stay” sembra avere il mood con cui Valerie June ci ha viziato, quello che ci ha fatto innamorare di lei attraverso canzoni come “Wanna Be on Your Mind” o il precedente singolo “Astral Plane”, almeno fino a quando la traccia di apertura del nuovo disco si spalanca in un campo lunghissimo con un sottofondo di archi che ci fa prendere il volo. Un approccio ripreso in “Why The Bright Stars Glow”, canzone che vede le stelle del concept ancora protagoniste.

Nel disco c’è spazio per il blues, con brani come “You and I” e “Call Me a Fool”, traccia che vede il contributo e il proverbio africano introduttivo – “only a fool tests the depth of the water with both feet” – di Carla Thomas. E per restare ben saldi sulle proprie radici ecco “Stardust Scattering”, canzone che contiene timbri e strumenti che rimandano alle sonorità di Fela Kuti. Si ritorna alla tradizione folk a stelle e strisce con “Two Roads” e “Colors”, già pubblicata nell’album “The Way of the Weeping Willow” e qui riproposta in versione adulta.  “Fallin’” è sicuramente la traccia più intima del brano, una canzone sull’amore che nasce e su quello che tramonta. Non passa inosservata neppure “Smile” che, nonostante l’incipit di drum machine, ha uno sviluppo sixties in perfetto stile Motown e suona agli antipodi della canzone successiva, una modernissima “Within you” in cui Valerie June sfoggia addirittura qualche ammiccamento ritmico proprio della trap, utile a guidare l’ascoltatore lungo le diverse epoche della black music che Valerie June riassume nel suo canto.

Fino al commiato del disco, un minuto e mezzo di “Starlight Ethereal Silence” in cui i suoni e il sottofondo della natura ci riportano per mano nel punto da cui siamo partiti, prima di questo lungo viaggio nel cosmo, lasciandoci con un interrogativo: la meraviglia è fuori o dentro di noi? “The Moon and Stars: Prescriptions for Dreamers” ci aiuta a scoprire che le due dimensioni coincidono e che esiste qualcuno che riesce a tradurre tutto questo in musica.

siamo matti

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La musica in tv ha bisogno di divulgatori bravi. Gente come Barbero o come gli Angela, cioè gente seria ma divertente, appassionata ma non invasata, colta ma non saccente, che sappia intrattenere senza fare il pagliaccio. Il rischio di imbattersi nelle rockstar, a proposito di musica, è dietro l’angolo dal momento che le rockstar appartengono al settore. Pensate a uno come Manuel Agnelli. Per quanto abbia veicolato nelle sue trasmissioni tv contenuti di valore, il suo approccio risulta così ingombrante da farti scappare la voglia di ascoltare l’ospite che sta presentando o di non acquistare il disco di cui sta parlando. Oppure a uno come Renzo Arbore, che divulga musica da sempre ma mettendoci troppo spettacolo in mezzo, tanto che il risultato sconfina nel varietà e finisce che lo spettatore si concentra sulle cosce della soubrette. Per non parlare dei nerd della musica, che poi sono quelli meno sopportabili con il loro modo di spaccare in quattro la semibiscroma e ridurre tutto alla matematica.

Il punto è che parlare di una cosa bella in modo palloso la fa sembrare pallosa, ma allo stesso tempo è fondamentale essere preparati ed entusiasti della materia. Poi conta quanto sei simpatico e quanto ci sai fare davanti alle telecamere senza risultare presuntuoso. Se poi sei anche un mostro di bravura sul tuo strumento, oltre a essere una perla rara con tutte queste peculiarità, il cerchio si chiude e puoi essere considerato – almeno dal sottoscritto – un bravo divulgatore di musica alla tv.

Da quando l’ho visto suonare la prima volta nutro una smodata venerazione per Stefano Bollani. Se potessi reincarnarmi al volo in qualcuno sceglierei Stefano Bollani perché è uno dei rari casi di sintesi tra tecnica eccelsa e ottimo gusto. Bollani suona con grinta e ironia, con fermezza e ispirazione, e ha una padronanza dello strumento unica e versatile, che poi è l’aspetto che a me interessa di più di qualunque mostruosità tecnica. Stefano Bollani, da qualche giorno, va in onda ogni sera dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3 nel programma “Via dei Matti numero Zero”, insieme a Valentina Cenni, che oltre a essere un’attrice è anche sua moglie.

Lo studio in cui si svolge il programma è una sorta di “casa Bollani”, per l’occasione riprodotta e ubicata nell’edificio inventato e cantato da Sergio Endrigo. Una striscia serale di nemmeno mezz’ora in cui i due divulgano la musica nei suoi vari aspetti storici, sociali e vivifici. La musica come scienza, magia, filosofia e cultura quotidiana ma mai spicciola. L’approccio è leggero perché è Bollani, in primis, a esserlo. Un pianista tra i più talentuosi interpreti del jazz e della classica che traduce la propria esperienza in materia per la tv generalista e per un pubblico che ha sempre meno pazienza di ascoltare canzoni, con un modo unico di mescolare stili sia musicali che narrativi. Non manca la musica suonata e cantata dai padroni di casa stessi e dagli ospiti che si alternano a ogni puntata. “Via dei Matti numero Zero” è sorprendentemente gradevole, dura il giusto, ed è da prendere come un dessert a fine cena, anzi un cordiale anti-stress prima di cambiare canale e gettarsi nella bolgia dei temi più urgenti e tragici dibattuti nei talk di politica e attualità, in prima serata. Grazie Rai e grazie Bollani. C’era bisogno di un po’ di aria fresca.

sulla sabbia è nato un fiore

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Conoscete la differenza tra liscio romagnolo e liscio piemontese? Diciamo che il primo sta al secondo come il temperamento degli uni sta a quello degli altri. Si può intanto vedere la definizione che ne dà Wikipedia:

Il liscio romagnolo, danze folk romagnole, è caratterizzato da un’esecuzione brillante (data dalla forte presenza ritmica di basso e batteria) e veloce dei brani scritti principalmente per violino, clarinetto in Do, sassofono e successivamente per voce. È il liscio più conosciuto, soprattutto grazie al brano che ha dato il via al “fenomeno liscio”, Romagna mia (Secondo Casadei 1954), ed allegro, grazie al tipico sound dato dall’unione del sax e del clarinetto in do.

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Il liscio piemontese, liscio tradizionale piemontese, è più lento di quello romagnolo ed eseguito principalmente da fisarmonica, clarinetto in do, sassofono e voce. Alcune formazioni di liscio piemontese sostituiscono al basso elettrico il basso tuba e non utilizzano la chitarra; tale scelta è probabilmente diretto retaggio delle formazioni bandistiche precedenti.

ma se volete il parere di uno che ha suonato per anni entrambi gli stili, vi assicuro che il romagnolo ha una vena di spensieratezza mentre quell’altro mette sempre un po’ di malinconia. Se vogliamo banalizzare, pensate al dualismo tra piadina vs bagna cauda, e comunque sono ghiotto di entrambe.

Io con il liscio ci sono cresciuto perché in famiglia c’era un vero e proprio culto. Nonni paterni, nonni materni e, di conseguenza, genitori. Gente di campagna che se la cavava bene nei balli di coppia. Pur riconducibili – per provenienza – al ceppo piemontese, non sono mancati a casa mia i dischi dell’Orchestra Casadei. Raoul, scomparso proprio ieri per il Covid a 84 anni, negli anni 70 è stato protagonista di un’operazione di music for the masses, portando le sue composizioni ed esecuzioni persino nelle hit parade.

Nel 1977, mentre in UK i Clash esordivano con il loro primo album, dalle nostre parti l’Orchestra Casadei pubblicava un singolo che, malgrado il titolo, trasmetteva malinconia e – a suo modo – spleen. Un valzer cantato dal titolo “Allegria Ja Ja” ma che, malgrado il modo maggiore, lascia un retrogusto opposto. Il testo, poi, non sfigurerebbe nel repertorio dei più depressi cantautori indie del momento. Il brano racconta una storia d’amore con una ragazza tedesca lunga quanto una vacanza. Un’esperienza forte e intensa destinata a finire, proprio come la stagione estiva.

Sedici anni, era bella:
non capivo le parole
ma sentivo che il suo cuore impazziva d’allegria
allegria allegria!
Son felice, vi dispiace?
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria
allegria allegria!

Ja ja, mi diceva
si si eh eh rispondevo
raccoglievo le conchiglie, le facevo una collana
impazziva d’allegria allegria allegria!
Ja, ja, chi mi cerca? Non esisto
Non m’importa più niente, non m’importa della gente
vivo solo per amore
allegria allegria!
Ja ja, era bella, da morire!
Si gettava in fondo al mare poi spuntava come un fiore
allegria allegria!

Poi un giorno è andata via,
poi un giorno è andata via!!!
allegria allegria. Ja ja.

Arvo Pärt – Fratres

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Ho appena scoperto questa cosa bellissima, e qui ve la spiegano bene.

ma i måneskin non potevano crescere con la trap come tutti i loro coetanei?

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Il complesso di inferiorità nei confronti della musica di matrice anglosassone-statunitense da parte degli italiani non si spiega. Non si tratta di rivalità perché inglesi e americani giocano un altro campionato. Un po’ come gli azzurri di rugby umiliati a ogni edizione del trofeo delle sei nazioni che si ostinano a partecipare o il pallosissimo basket locale che, per darsi una dignità, si riempie di mezze calzette statunitensi che nell’NBA non farebbero nemmeno le mascotte.

Eppure vinciamo a mani basse con i tenori del calibro de “Il Volo” o Bocelli e siamo i primi nel mondo in certi ambiti come il Rinascimento, il Futurismo e la canzone d’autore. Se poi vogliamo aggiungere la solita paternale retorica sulle eccellenze del made in italy tra vino, corruzione, frecce tricolori, gastronomia, pressapochismo, manifatturiero e moda possiamo completare il quadro. Eppure da sessant’anni cerchiamo di ritagliarci con inspiegabile ostinazione uno spazio nel rock anglo-americano senza risparmiarci in figure di merda. Capiamoci: non sto dicendo che non ci siano esperienze di rock italiano dignitose, ma non è rock. Piuttosto è, appunto, rock italiano. Per farvi capire, la pizza di Domino’s è una pietanza squisita ma non è una pizza. Piuttosto è, appunto, una pizza americana. Una questione di nome. L’insalata è un cosa. L’insalata russa è un’altra.

Il fatto è che il rock italiano (che, ripeto, non è un sottogenere del rock ma una cosa a sé), da quando le ultime due o tre generazioni preferiscono i videogiochi, i social, smanettare con i programmi di audio editing sul computer e PornHub anziché deprimersi di frustrazione suonando il rock italiano per diventare rockstar di rock italiano, è definitamente sparito dalla scena.

Quella del musicista alternativo che, fino alla fine degli anni 90, in Italia deteneva il monopolio del rock italiano, è una figura che ora non incarna più uno status in grado di esercitare un’attrazione sociale e sessuale per i coetanei e per i nostalgici del rock italiano precedente, per esempio i fan degli Area (anni 70) o dei CCCP (anni 80). Piuttosto incarna uno sfigato inconcludente sognatore di quella sinistra da concerto del primo maggio che perde tempo a smazzarsi l’inutile trafila per presentarsi tecnicamente o artisticamente preparato all’appuntamento con il successo.

Da quando l’attrazione per il virtuale ha soppiantato tutto il resto e assorbe le energie che, un tempo, si riversavano nello sport e nella dimensione socioculturale per così dire analogica, le cose sono cambiate e il prodotto delle turbe, delle frustrazioni, della voglia di emancipazione e della trasgressione è l’elaborato di strumenti digitali non necessariamente pensati per la musica con cui, comunque, si fa musica. Strumenti che permettono di fare musica molto più velocemente di prima. Attenzione: non sto dicendo che siano più facili da utilizzare. I prodotti di questi strumenti sono principalmente la musica pop da Youtube, il rap e la trap, l’indie nelle sue varie accezioni e poi una valanga di sottogeneri che vanno dalle parodie di brani famosi con testi dedicati ai videogiochi del momento, alle variazioni sui meme, alle partecipazioni ai talent e alle esibizioni su Tik Tok.

Da quasi ventiquattr’ore ovunque si grida al miracolo e si celebra il rock italiano e alternativo del complesso vincitore dell’ultimo festival di Sanremo, i Måneskin. Colpiscono il fatto che si tratti di una band di giovanissimi, oggi che le band non esistono più. Che si esibiscano con gli strumenti in mano, oggi in cui si deve avere il corpo libero da orpelli per poter ballare qualche danza riconducibile alla cultura latino-americana. Che abbiano i capelli lunghi, oggi che vanno di moda le zazzere, le creste e le rasature a zig zag. Che suonino rock italiano e alternativo, oggi che tutti i ragazzi della loro età propongono trap, rap, pop da Youtube o uno di quei sottogeneri a cui ho fatto cenno prima.

Il fatto è che il loro rock italiano e alternativo fa talmente cagare a spruzzo che, davvero, avrei ampiamente preferito che i Måneskin fossero cresciuti con la musica e le passioni che sono propri della loro generazione. La trap e il rap, tanto per iniziare. Avrei preferito che si fossero dedicati ai passatempi dei millennials. E, se proprio proprio destinati allo showbiz, avrei preferito che fossero diventati uno sferaebbasta qualsiasi, che al posto degli strumenti con cui si suona rock italiano e alternativo si fossero concentrati sulle coreografie reggaeton. Che, in caso di esibizione, avessero scelto di farlo in playback. E che, al posto di abiti così inappropriatamente da rock italiano e alternativo (perché fuorvianti), avessero indossato, in caso di esibizione in playback, una normale tuta da ginnastica come quelle che usano i ragazzi come loro, con le braghe strette al fondo. Se leggete di qualcuno che gioisce perché finalmente a Sanremo ha vinto il rock italiano e alternativo, quindi, mandatelo affanculo. Affanculo lui e i Måneskin.