I posteri parleranno del periodo storico che stiamo vivendo come il momento in cui la musica e il modo di fare musica hanno finito definitivamente di coincidere. L’essenza delle cose che smette di abitare nelle cose stesse. Succede con le lingue, per esempio, tra scritto e parlato. Provate ad ascoltare i dialoghi costruiti per un film e poi recitati da attori o doppiatori. Nessuno si esprime nella vita di tutti i giorni così, se non nei libri o ovunque risulti necessario organizzare il pensiero dentro la griglia di un sistema strutturato. La gente, invece, parla e comunica con un altro idioma. Impoverito, barbarizzato, semplificato, imbrattato dai social media e tutto quello che volete. Sta di fatto che dobbiamo conviverci.
Nel nostro caso, possiamo ricondurre questa scollatura tra la musica e il modo di fare la musica al fatto di aver digitalizzato la musica (come tutti gli altri aspetti del nostro sapere), di averla processata e destrutturata (pensate a cosa è successo all’arte visiva e alla letteratura dopo anni di meme e di citazioni sui social) e di averla consegnata in pasto ai millennials e alle generazioni che, non conoscendone l’uso tradizionale, hanno dato vita a nuovi modelli che poi sono stati sviluppati e personalizzati da chi suona gli strumenti tradizionali. Gente che non conosce il rock (in tutte le sue accezioni) ma ne ha sentito parlare dalle intelligenze artificiali che lo hanno raccontato a modo loro, scevro dalle teorie tradizionali e dalle scuole di pensiero che lo hanno regolamentato fino alla sua dissoluzione. Potremmo banalizzare dicendo che qualcuno ne ha hackerato il codice, nessuno si pone più il problema di come si faceva prima e i testimoni oculari si sono quasi estinti del tutto. Artisti che ne assemblano le componenti a piacimento perché il manuale utente è andato perduto, chissà dove.
Per gli Squid la musica funziona così, come ci tengono a rimarcare fino allo sfinimento nelle undici tracce del loro disco di esordio. Ci sono chitarre, basso, persino sintetizzatori e strumenti a fiato. Ci sono armonia, melodia, ritmo, rumore. Voci e suoni. Ci sono persino delle indicazioni e dei riferimenti per fornire al mercato le coordinate per collocare commercialmente il prodotto: il math-rock, il post-punk, il noise. Ma l’avvertimento è chiaro: per i boomer, inoltrarsi in “Bright Green Field” senza un navigatore satellitare o una guida a come vanno le cose, aggiornata al 2021, potrebbe rivelarsi fatale.
Se Fountains DC e compagnia bella la prendono alla leggera, i Black Midi trasudano ormoni punk-fusion da tutti i pori, i Black Country New Road introducono la componente psichedelica e post-rock e Idles, Viagra Boys e Sleaford Mods incarnano il filone più estremo, una rappresentazione su un piano cartesiano porrebbe gli Squid nell’esatto centro dei quadranti. La voce è indisponente e sgraziata (con l’aggravante che è un batterista a cantare) ma ogni tanto sconfina in proposte più accomodanti. Tra i brani trovano posto divagazioni da otto minuti ma anche contesti più facilmente riconoscibili. Le strutture sono spesso caotiche e schizofreniche ma lasciano spazio a modelli concilianti. Ne risulta un disco in cui, osservato da vicino e ascoltato istante per istante, pixel dopo pixel, difficilmente ci si capisce qualcosa. Solo al termine dell’ultimo brano, evaporato anche l’ultimo suono, ci si rivela in tutto il suo significato. “Bright Green Field” è un’opera complessa. Ci vuole pazienza, curiosità, concentrazione e disposizione ad accettare qualcosa di veramente diverso da tutto ciò che conosciamo.
Gli Squid vengono da Brighton e danno l’impressione di essere una di quelle band in perfetto equilibrio interno. Un’armonia in grado di far lavorare cinque menti come una unica per un prodotto che non ha eguali. Pubblicato dopo alcuni singoli e un EP che ha attirato molta curiosità sulla band (e l’attenzione della Warp, etichetta abituata a ben altri suoni) “Bright Green Field” risulta un album di portata e ambizione elevatissime.
Non lasciatevi ingannare, però, dal titolo dell’album e dal verde brillante dei prati in copertina. La relazione tra post-punk e le composizioni degli Squid è la stessa che vige tra un qualsiasi panorama bucolico e la natura decostruita teatro delle gesta dei Teletubbies. Una realtà completamente riscritta da capo e basata su architetture paradossali e distopiche. Una trasposizione dei nostri tempi al limite della vivibilità in un nuovo ordine soggetto all’incertezza e alla paura, in cui si sta scomodi e tutt’altro che a proprio agio, una pavimentazione sconnessa che ci costringe a un continuo adattamento. La musica degli Squid è spaventosamente profonda e si spinge giù fino ad un livello a cui non siamo più abituati. “Bright Green Field” è una vera e propria variante inglese al nostro incedere verso il futuro, una strada panoramica sull’infinito priva di protezione a valle e fuori da ogni percorso certificato dai motori di ricerca.
Per questo, quando gli storici tra qualche secolo si troveranno davanti da una parte degli spartiti con delle note scarabocchiate e dall’altra i file delle tracce di dischi come “Bright Green Field”, si chiederanno il perché dell’esistenza di una teoria e di una pratica della stessa disciplina così agli antipodi l’una dall’altra e si inventeranno chissà quali congetture per capire, intorno agli anni venti del ventunesimo secolo, che cosa sia realmente capitato al genere umano.