i really never can say g……

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Quindi davvero Gloria Gaynor non riusciva mai a dire goodbye

The Cure – Songs Of A Lost World

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Ho visto This Must Be The Place, il film di Paolo Sorrentino, solo una volta, più di dieci anni fa. Non è certo il lavoro più riuscito del regista de Le conseguenze dell’amore, e probabilmente nemmeno una pellicola così memorabile, ma i The Cure sono la mia band preferita. Ecco perché non dimenticherò mai la scena finale. Sean Penn nei panni di Cheyenne, la trasposizione cinematografica di un Robert Smith alle soglie della terza età, che raggiunge a piedi la casa della madre dell’amica Mary e scambia con lei alla finestra uno sguardo d’intesa. La star degli anni ’80, senza trucco, ora ha i capelli corti e grigi, indossa abiti più che ordinari, e completa con quel gesto il suo percorso di redenzione.

Ci troviamo al cospetto di un’opera di fantasia che però assolve a un compito ben preciso, quello di colmare il profondo gap che va da Wish a Songs Of A Lost World. Un salto quantico di trentadue anni durante i quali è successo di tutto. Intanto ci sono stati quattro dischi tutto sommato irrilevanti (se nei live di presentazione del nuovo album alla BBC e al Troxy non c’è traccia, un motivo ci sarà) nonostante i quali la popolarità di Robert Smith e soci si è ampliata a dismisura fino a raggiungere livelli di cui la Rock & Roll Hall of Fame forse è il riconoscimento più trascurabile.

Nel 2024 è fuori discussione che i The Cure occupino il piano più alto nell’olimpo delle star del rock alternativo. Sono la band più influente della storia e la meticolosa e intelligente operazione di marketing che ha preceduto il ritorno sulle scene con Songs Of A Lost World c’entra, ma solo in parte. Robert Smith con le sue faccette e le sue moine, nei video delle sue canzoni più iconiche, è tra le cause principali di fenomeni come la diffusione del nuovo post-punk e dell’inarrestabile e acritica retromania nostalgica per gli anni ottanta soprattutto da parte di chi non li ha vissuti, per non parlare della pervasiva diffusione del mito della band grazie alle sottoculture della rete e dei social.

Gli ultimi sedici anni, poi, quelli che invece separano Songs Of A Lost World da 4:13 Dream, hanno visto i The Cure assidui headliner di palchi e festival in tutto il mondo, per non parlare della loro agiografia su Youtube (in lungo e in largo, sia nella dimensione dello spazio, sia in quella del tempo) con esibizioni e apparizioni in cui il loro passato glorioso, quello più amato dai fan e che si conclude dalle parti di “Friday, I’m In Love”, non ha mai smesso di essere beatificato e rimpianto.

Ecco perché non c’è nulla come la scena finale di This Must Be The Place di Paolo Sorrentino che soddisfi una delle mie fantasie più audaci. Sean Penn/Cheyenne/Robert Smith pettinato e vestito da persona normale mi fa illudere sul fatto che sia prevista davvero una terza età per le star, una stagione della vita in cui i musicisti si tramutano in normali persone anziane come qualunque altro impiegato del catasto e non in anziani musicisti, non so se mi seguite.

Una stagione in cui i cantanti vanno in pensione, anziché suicidarsi prima o morire di overdose a ventisette anni. Un momento in cui sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti alla loro attività e che presenta, anche per chi suona per mestiere, le stime per sancire quando sia il momento di fermarsi (che poi farebbe bene in primis ai musicisti stessi, a quel certo punto della loro vita, il fermarsi).

Un nuovo corso, in cui cose come andare a far la spesa o riabbracciare i nipotini all’uscita da scuola impongono il superamento del look da cosplayer del rock o del dark o di quello che volete e, con addosso una felpa in pile come tutti i vecchi le cui mogli non hanno giustamente più voglia di stirare camicie, frequentano il circolo del burraco, praticano il pilates e cercano il riparo al fresco dei centri commerciali, seguendo il palinsesto della sopravvivenza alle estati sempre più roventi, imposto dai tg.

Il punto è che Robert Smith ha paura di invecchiare (come biasimarlo) almeno da “Sinking”, epocale brano di chiusura di The Head On The Door, e si sentiva anziano persino il giorno prima di comporre “In Between Days”, ma sono pronto a scommettere che segnali analoghi sono rintracciabili anche in dischi precedenti. Per non parlare di Disintegration e, dopo, di Bloodflowers, album in cui la morte è il tema ricorrente. E probabilmente va ricondotta a questa ossessione condivisa la necessità di conciarsi sempre uguale a se stesso, anzi, al suo travestimento da Robert Smith, con i pochi capelli rimasti cotonati e l’eyeliner, ancora oggi, a 65 anni suonati.

E se considerate che di dischi di addio alle scene dei The Cure ce ne sono già stati almeno tre, per non parlare della quantità di “Endsong”, quelle ultime tracce e finti addii che poi sono commoventi arrivederci, ci dev’essere un demone in Robert Smith che lo spinge, con una sorprendente ricorrenza, a ribadire a se stesso questo concetto. Siamo mortali, anzi, mortalissimi. Siamo destinati a disintegrarci, un giorno di questi, e quel giorno lo affronteremo comunque da soli. Indossare una maschera ci aiuta ad allontanare chi e che cosa diventeremo e a rinnovare lo stesso rito sul palco, per noi stessi e per quello che rappresentiamo per i nostri seguaci. Non so dirvi se ciò sia la soluzione al problema, ma da un certo punto della vita in poi, a quanto sembra, funziona.

Chi ha partecipato ai pre-ascolti di warm-up propedeutici all’uscita del disco (come se ce ne fosse davvero il bisogno, per una band così importante) ha scritto che Songs of A Lost World è il miglior album dei The Cure dopo Disintegration. Io mi dissocio. È il miglior album dei The Cure dopo Wish, che non ha nulla da invidiare al suo predecessore. La formula di Songs of A Lost World è però la stessa dei quattro dischi pubblicati da allora ma, a differenza degli altri, è un disco che ce l’ha fatta.

Otto eterne non-canzoni dilatate secondo flussi più o meno ricorsivi di componenti indistinguibili. Lunghe e suggestive intro strumentali, arrangiamenti ridotti al minimo con tappetoni di tastiere, strofe e ritornelli intercambiabili, melodie che non aggiungono granché alla straordinarietà delle struggenti ballate gotiche che compongono il disco, code trascinate come quei saluti finali che nessuno vorrebbe mai estinguere davvero, in un incedere suonato da musicisti legittimamente e meravigliosamente affaticati dalla propria età artistica e anagrafica.

E, al contrario dei capolavori nati nell’età dell’oro in cui si è consolidato il mito di Robert Smith, è un lavoro completamente privo dei ritornelli catchy e di quella disorientante scanzonaggine pop dei singoli dei The Cure che hanno fatto la storia e che, in questo eterno presente, compongono quotidianamente le prime pagine dei nostri social sotto forma di meme. Stesso discorso per certi ritmi sostenuti, in Songs Of A Lost World del tutto assenti, che hanno spalancato le porte dei club alla loro musica, quei brani danzerecci punti fermi di qualunque playlist che si rispetti per chi paga per ballare un po’ di musica alternativa. Ma forse la maturità musicale è proprio questa: un taglio con il passato per un compromesso con il futuro. Anche se, dal vivo, i The Cure attingono ampiamente dai fasti di un tempo (a partire dai 45 anni di Seventeen Seconds) e tengono il palco con una forma e una compattezza che non ha confronti.

È bene che siate consapevoli di tutto questo prima di approcciare Songs of A Lost World, un bel disco di un gruppo di artisti anziani che suona e canta canzoni di un mondo perduto, musica da vecchi e destinata a vecchi, ma (credetemi) nell’accezione migliore di tutto questo. C’è la sensazione di essere soli e vicino alla fine di “Alone”, un modo di comporre intro per i suoi dischi con i quali Robert Smith ci vizia da sempre, subito smentita dalla promessa di stare vicino al prossimo sino alla morte di “And Nothing Is Forever”. Ci sono i rimpianti di “A Fragile Thing” e i conflitti che svuotano le relazioni di “Warsong”. La paura delle complessità del presente di “Drone:Nodrone” e la perdita dei propri cari di “I Never Can Say Goodbye”. L’insicurezza di sé di “All I Ever Am” e il commiato di “Endsong”, simmetrico per le sue tematiche alla traccia di apertura, la paura di invecchiare in un mondo alla deriva.

Tematiche dark da manuale, al limite dello stereotipo, sotto tutti i punti di vista, che, nel 2024 e nello status quo delle cose, meritano molta più dignità che allora, e che solo la sensibilità di un artista più che maturo riesce a rendere in pieno: “Left alone with nothing at the end of every song. Left alone with nothing, nothing, nothing”, ripetuto all’infinito quasi come l’ad libitum di “again and again and again” di “A Forest”, quando si correva verso il nulla e una ragazza mai esistita. Ed è per questo che la maschera di Robert Smith, il trucco di quell’adolescente che contemplava la luna sul volto dell’anziano che si trova a fare ancora altrettanto, che a differenza del Cheyenne di This Must Be The Place non si concede e non ci concede nessuno sguardo di intesa finale (tantomeno una redenzione) vista da qui, oggi, non ha più senso di esistere.

intervallo

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Sono curioso di sapere chi ha inventato la colonna sonora. Immagino lo stesso che ha pensato che i film muti sarebbero stati pallosi in quel silenzio totale e che quindi assoldare pianisti in grado di conferire valore aggiunto con esecuzioni live alle immagini potesse essere una buona idea. Poi da lì la cosa deve aver preso una deriva incontrollata. Il piano è stato sostituito da intere orchestre sostituite poi a loro volta dai computer dei sound designer.

Il punto è che, nel frattempo, le immagini si sono arricchite dei dialoghi che hanno decretato l’obsolescenza dei cartelli inseriti tra una scena e l’altra con le battute della sceneggiatura, avete presente? Sicuramente hanno un loro nome ma non sono del mestiere quindi stateci. Il risultato? Immagini più voce dei protagonisti più musica uguale botta emotiva senza precedenti e il prodotto finale diversificato tra l’iper-realtà del grande schermo corredata dal sorround per un effetto immersivo mostruosamente coinvolgente, oppure stravaccati sul divano con Netflix acceso sacrificando la maestosità delle immagini macroscopiche alla comodità di non mettere il naso fuori di casa, rinunciare alla puzza dei popcorn e non farsi venire il nervoso per chi chiacchiera durante la proiezione al cinema o chi ogni tanto dà un’occhiatina allo smartphone o, non so dire peggio o meglio dei precedenti, a quelli che si lavano poco.

A questo punto della nostra civiltà vedere foto o riprese video senza un commento musicale sotto ci sembra una cosa completamente innaturale, tanto che, quando succede, ci preoccupiamo subito di controllare se il driver delle casse è da reinstallare o se abbiamo inserito per sbaglio il mute o se siamo diventati all’improvviso sordi o comunque, nel dubbio, spegniamo e riaccendiamo. Ormai siamo talmente abituati che non potremmo fare a meno di avere una colonna sonora di qualsiasi cosa ci venga proposta, anche se poi molto spesso non facciamo nemmeno caso alla musica. Ma vuoi mettere la sicurezza di non provare l’imbarazzo del silenzio assordante del vuoto.

Anzi, a volte, quando guardiamo una slideshow di foto o una storia sui social, i brani scelti con troppa personalità ci disturbano e rimpiangiamo quei bei sottofondi di un tempo composti in serie da esseri umani e oggi dall’intelligenza artificiale.

La best practice più attuale dell’accompagnamento di immagini con canzoni contestuali è il programma “Casa a prima vista”, avete presente? Mentre gli agenti immobiliari mostrano le loro proposte, o meglio le cosiddette “soluzioni”, a ogni descrizione di edifici, di ambienti e di arredo è associata una canzone che riprende il succo di quanto viene detto, se non addirittura parole chiave dei dialoghi in una maniera esageratamente didascalica. Vi faccio un esempio. Qualche sera fa, a proposito di un bagno definito dagli agenti di stile italiano, la descrizione è stata montata su “L’italiano” di Toto Cutugno, ma non crediate che funziona solo con brani triti e ritriti. Una coppia appassionata di due ruote vintage è stata anticipata da una vera chicca del beat nostrano, e mi riferisco alla canzone “La motoretta” degli Scooters.

Questo impeto di ridondanza mi ha fatto così riflettere sull’urgenza di un sound designer universale che scelga per voi canzoni più adatte a ogni frase che pronunciate o ogni spazio in cui vi ritroviate. Detto fatto. Mi sono candidato a questa posizione e, da lunedì scorso, questo è il mio nuovo lavoro. Non avete notato che a ogni cosa che dite c’è un brano sotto che ne aumenta il valore, il senso o la portata persuasiva? Tutto grazie a me e alla piattaforma che ora gestisco dalla mia postazione: una consolle virtuale da cui ho accesso alla banca dati infinita (più infinita di Spotify) delle musiche composte da quando l’uomo ha scoperto l’efficacia di mettere insieme due o più suoni, che ora è interconnessa alla timeline delle vostre vite. E non dovete nemmeno effettuare l’accesso, quindi niente credenziali. Faccio tutto io. Il DJ universale, che poi era da sempre la mia aspirazione totale globale, ricordate?

Ecco: la sentite la musica sotto? Sono io che l’ho messa, in perfetta linea con quello che state facendo, e se vi mettete in punta di piedi mi potete vedere, laggiù. Sono quello con le cuffie bianche. Spero che il mio approccio sia di vostro gradimento. Scordatevi le scelte banali, scontate e telefonate. Da me solo canzoni di qualità contestuali quanto basta, in modo molto discreto. Per richieste particolari, potete scrivermi anche solo commentando qui sotto.

alone

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Una cosa che manda in brodo di giuggiole i genitori sono gli insegnanti che fanno ascoltare i Beatles in classe. Non ho abbastanza elementi per dimostrare se si tratti di una best practice pedagogica consolidata o semplicemente di una leggenda metropolitana, tanto quanto l’esposizione a Mozart degli esseri umani sin dalla fase pre-natale che ci renderebbe più intelligenti, men che meno di un metodo di mia invenzione.

Da attempato musicologo trombone posso solo dimostrarvi l’interdisciplinarietà del valore dei Beatles, nella fascia di età della scuola primaria. Sono utili se insegnate inglese, ovviamente, perché vi permettono di coniugare lo sviluppo dell’orecchio alla pronuncia perfetta con un dizionario adatto a qualunque esigenza, per non parlare di ciò che il quartetto di Liverpool rappresenta, ossia un’icona inconfondibile della cultura e della civiltà britannica. Sono utili se insegnate musica, perché rendono superfluo il ricorso alle zecchinate d’oro per l’intrattenimento dei più piccoli e intercettano le derive tamarre, nel migliore dei casi verso la trap di periferia ricca di parolacce, nel medio dei casi verso il pop in quota Annalisa e battiti live vari, nel peggiore dei casi verso i balli di gruppo da oratorio/club vacanze, grazie alla portata di un’alternativa convincente, comunque popolare, decisamente autorevole, poco di nicchia, tutt’altro che superata e di facile ascolto. Sono utili anche se insegnate italiano – i loro testi grondano di citazioni utili a semplificare grandi questioni, una volta tradotti – e perché no storia, in quanto perfettamente ascrivibili a un periodo decisivo per la modernità. Per non parlare del cartone animato di Yellow Submarine, provate a proiettarlo in classe e godetevi le reazioni.

Ma mai avrei immaginato che il mio vezzo di introdurre le lezioni con una sigla, una canzone dei Beatles – siamo partiti con la classica “All Together Now”- da variare ogni mese per catturare al meglio l’attenzione dei bambini, avrebbe generato una così invidiabile sintonia con i genitori della seconda C, la classe in cui insegno solo inglese. Le famiglie sono i principali stakeholder della scuola, metterli al corrente nel corso delle assemblee di classe di quello che facciamo costituisce un insuperabile veicolo di customer satisfaction. Ho presentato il programma nemmeno fossimo all’università – in seconda sono previste due ore la settimana, una in più rispetto alla prima – e senza volerlo ho centrato in pieno le aspettative rispetto all’insegnamento della lingua straniera, oggi secondo solo alle STEM come ossessione didattica della scuola dell’obbligo. Un papà ha detto che proporre i Beatles ai bambini gli sembra un’idea fantastica, tutti gli altri hanno confermato di trovarsi d’accordo, una mamma dichiaratamente metallara mi ha chiesto addirittura che cosa pensavo di far ascoltare nei prossimi anni. Non le ho detto che con i metallari noi dark ci menavamo, anzi i metallari menavano noi, negli anni ottanta, non mi sembrava la sede più adatta. Ma non è questo il punto.

So di deludervi, ma a me l’idea di somministrare una seconda lingua a mocciosi che a malapena si sanno esprimere nella prima non convince per niente, e mettere musica in inglese mi sembra comunque un modo efficace per perdere un po’ di tempo a lezione. Alla fine l’inglese per bambini così piccoli si risolve in una serie di istruzioni e parole tradotti letteralmente da imparare a memoria. Se va bene così, allora non c’è problema anche da parte mia. Un bagaglio a mano linguistico utile a sguinzagliarli da soli ad acquistare gelati in occasione delle prossime vacanze all’estero che farete. Un consiglio però: controllate che sappiano farsi restituire il resto corretto.

Il problema sono semmai le foto in bianco e nero, dei Beatles. Com’è possibile che siano esistiti giovani negli anni 60?, sembrano chiedere i bambini. Com’è possibile che delle canzonette pop siano state composte quando i nostri nonni erano appena nati? Quanti anni hanno, ora, quei capelloni?

Io sono uno che non indora certo la pillola, faccio eccezione solo per Babbo Natale ma non ho nessun problema a dire tutte le altre verità. Paul ha 82 anni, Ringo 84, George è morto a causa di un tumore e John è stato addirittura freddato da un folle mitomane a 40 anni, davanti a casa sua. Spoilero immediatamente come stanno le cose per evitare il susseguirsi di domande morbose su argomenti che interessano tantissimo i bambini di quella fascia di età e tagliare corto.

Questa volta però c’è stato un plot twist che devo assolutamente raccontarvi. Ginevra, quella che siede nel secondo banco, è piena di tic perché a 4 anni è stata dimenticata sullo scuolabus che la portava alla scuola materna. Ha trascorso tutta la mattina chiusa nel deposito fino a quando qualcuno è riuscito a ricostruire la catena degli avvenimenti, l’ha riportata a casa e sono state avviate tutte le procedure del caso per attribuire la scala delle responsabilità. La mia è una scuola di un comune di quattro gatti, e questa notizia ha fortunatamente fatto passare in secondo piano quella – decisamente più sconveniente per l’istituzione che rappresento – del nonno che ha sbagliato a ritirare il nipote giusto. Ha preso un bambino e, sulla via di casa, qualcuno che lo ha rincorso gli ha fatto notare il qui pro quo.

Dicevo che Ginevra, tra un tic e l’altro, scesa l’attenzione sulla morte dei Beatles, mi ha chiesto se i musicisti quando diventano vecchi vanno in pensione. Volevo dirle che sarebbe una cosa fantastica perché significherebbe che quello del musicista è un lavoro, che i musicisti arrivano a un certo punto della loro vita senza morire di overdose o suicidarsi a ventisette anni e che, a quel punto della vita, sono riconosciuti da un sistema previdenziale che tiene i conti anche alla loro attività e che fa anche per i musicisti i calcoli per capire quando è il momento di fermarsi. Che poi sarebbe un bene che i musicisti, a quel certo punto della loro vita, si fermassero. Volevo dire a Ginevra che avevo la risposta, o meglio che le avrei risposto solo dopo aver ascoltato il nuovo disco dei Cure che sta per uscire, tra qualche settimana. Avrò le idee più chiare sul fatto che i musicisti sanno riconoscere davvero quando è il momento giusto per andare in pensione.

la uno

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 1/4.

la due

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 2/4.

la tre

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 3/4.

la quattro

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 4/4, che poi è già in quattro ma insomma ci siamo capiti.

la cinque

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 5/4.

la sei

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Ora ditemi se la sigla di Propaganda Live non sta meglio in 6/4.

p. s. è il sequel di quella in sette che trovate qui