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Dallo scorso venerdì insegno cultura digitale e fondamenti di informatica a ventisei tra studentesse e studenti della secondaria di primo grado del mio comprensivo. Si tratta di un corso pomeridiano finanziato grazie ai fondi del PNRR dedicati alla formazione inclusiva sulle competenze di base e che durerà fino a maggio, due ore la settimana. Le ragazze e i ragazzi sono lì per scelta, magari non proprio tutti, e il primo incontro è andato nel migliore dei modi. Tra gli obiettivi c’è anche il fornire una preparazione propedeutica al successivo conseguimento della certificazione ICDL. Quando ho introdotto la questione, a inizio lezione, qualcuno si è precipitato immediatamente a googlare il significato dell’acronimo, facendo piombare di colpo l’intera classe alla fine degli anni novanta.

Inutile dirvi che ho sfruttato a pieno la ghiotta occasione. Per un’ora o poco più ho provato nuovamente l’ebbrezza di sentirmi addosso tutti i capelli e tutti neri, liberato da quei dieci kg in eccesso – a essere ottimisti – che mi hanno reso ostile a più di un capo d’abbigliamento che tutt’ora faccio fatica a buttare tanto gli sono affezionato, ritrovando persino quella indimenticata forma e prestanza fisica da trentenne che mi consentiva di superare ogni limite, a partire dall’applicare tutte quelle competenze descritte dalla certificazione ICDL sul posto di lavoro di allora – facevo il programmatore – per quasi 48 ore di fila – e di file, perdonate il gioco di parole – senza dormire.

Ho approfittato così dell’inaspettato varco spazio-temporale che ha inghiottito me e le ragazze e i ragazzi partecipanti al corso per introdurre la lezione con i due video che uso come best practice dell’impiego del deepfake e dell’AI al servizio della creatività umana. C’è stato non poco scetticismo a fronte dei 4:33 di “Yellow” dei Coldplay, le story dei social su cui la generazione zeta misura la scansione della vita durano molto ma molto meno, così mi sono limitato alla prima strofa e ritornello, tanto la faccenda non cambia. La successiva proiezione di “Grace” degli Idles però li ha lasciati di stucco, mai mi sarei aspettato una reazione così wow, da parte loro. Nessuno conosceva la canzone, tantomeno uno dei migliori album usciti quest’anno, per non parlare della band, a quell’età non ascoltano certo la musica di noi vecchi né seguono XFactor. Qualcuno però aveva già sentito e visto Chris Martin e soci. Un ragazzo di terza ha sostenuto addirittura che sua madre sfoggiasse il testo della canzone tatuato sul corpo, peccato non avergli chiesto dove e con quale font (sicuramente in corsivo, un must delle indelebili citazioni a cazzo sulla epidermide).

Il corso di cultura digitale conferma il fascino che il mese di dicembre esercita su tutta la popolazione scolastica. Io l’ho presa con grande entusiasmo, ci voleva dopo settimane di cinque e seienni che si cagano ancora addosso. Non solo. I miei bambini, tra addobbi, calendari dell’avvento e i lavoretti tipici del suprematismo bianco e cattolico, sono fuori dalla grazia di dio e non vi sto a descrivere la reazione delle mie colleghe alla nuova fotocopiatrice di plesso, una tappa del percorso di trasformazione digitale in potenza ma che invece – tanto quanto l’ICDL – ha costituito un passo tecnologico all’indietro. La mia scuola ha cambiato finalmente fornitore ma la sostanza non cambia. Ci hanno rifilato un modello di fascia piuttosto economica. Tanto per cominciare è privo del wi-fi, per fortuna mi era rimasta una vecchia chiavetta USB, anch’essa della preistoria, uno di quegli accrocchi in grado di connettere alla intranet anche i morti. Poi, a differenza della stampante ormai alla frutta di cui disponevamo prima, è sprovvista di un sistema di job accounting nativo per impostare utenze e relativi valori di utilizzo, a meno dell’installazione di una periferica aggiuntiva per la lettura di badge, una delle tante spese su cui la DSGA non scende a compromessi. Il destino delle foreste amazzoniche del pianeta, già a partire da queste settimane prefestive ricche di renne e slitte da stampare, è purtroppo segnato.

Anche Jacopo, il bambino di quarta che io chiamo “Elephant” – proprio come il film di Gus Van Sant perché il rischio che, raggiunta l’adolescenza, si presenti a scuola con un borsone traboccante di AK-47 e munizioni compatibili, non è così campato in aria – è in fibrillazione per le feste imminenti. Da quando l’ho trascinato fuori a forza dalla mia prima, dopo che aveva lanciato una bottiglia da due litri piena d’acqua in classe per colpirmi perché poco prima l’avevo contenuto per consentire alle collaboratrici che voleva menare di mettersi in salvo uscendo dal bagno centrando invece una delle mie alunne più delicate, finalmente mi evita come la peste. Un episodio che rischia di essere frainteso come una buona notizia ma, se leggete tra queste righe, riconoscerete il fallimento didattico e sociale della scuola, nel senso dell’istituzione ma anche un po’ della mia in cui io faccio la mia parte, trascinando a forza un bambino di nove anni e contribuendo quindi alla resa incondizionata alle complessità. Agendo da uomo, come ha detto la mia dirigente, comportamento che ho impiegato tutta una vita a disimparare.

La scuola è il vero elemento con disabilità, in questa storia, e non è facile trovare una soluzione. Quando Jacopo ha spalancato la porta per scagliare dentro quella molotov disinnescata, con il cappuccio della felpa sulla testa come nei video dei rapper bianchi che scimmiottano i maestri afroamericani, mi è sembrato proprio il figlio di un trumpiano. Qualche settimana dopo il fattaccio, mi sono trattenuto all’uscita perché ho notato la mamma di Jacopo assalire a male parole la collega di sostegno che se ne prende cura per ventidue ore la settimana, una cosiddetta copertura totale ma dalle crisi di rabbia del bambino, a differenza mia e di tutti gli altri inquilini della primaria in cui insegno, semplici e casuali comparse della sua vita, come la collega che è stata sfiorata per un pelo dal cuscino dell’aula di psicomotricità che Jacopo ha lanciato giù dalla tromba delle scale. La mamma di Jacopo era molto risentita, mi è sembrato addirittura che dicesse “belle cose che insegnate a scuola”, ma posso essermi sbagliato. Comunque, di fronte a quella scena, ho pensato una cosa molto populista che mette in stretta relazione il RAL di noi insegnanti pubblici con quello che facciamo, cose che vanno dallo schivare bottiglie da due litri d’acqua a ingegnarsi per mettere in rete una stampante spacciata per modello di ultima generazione.

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