Con il solito gesto ho invitato il pubblico a smorzare gli applausi al termine della mia performance, cosa che faccio sempre – giunti alla replica numero 1541 del mio monologo dovreste saperlo – per ringraziare tutti e per sottolineare proprio che quella a cui avevano appena assistito era la replica numero 1541 del mio monologo, ma questa volta mi sono superato. Ho puntato l’indice verso il signore anziano seduto nella fila D, posto 21, l’ho guardato nel modo in cui si scrutano gli spettatori durante la recitazione ma, a differenza del non-messaggio che trasmetto durante lo spettacolo, ho parlato e gli ho detto che mi ero accorto che, a nemmeno una ventina di minuti dall’inizio, aveva subito un colpo di sonno. Nella fila davanti a lui sedevano un gruppetto di colleghi – gente che paga fior di quattrini per i corsi di teatro e che viene ai miei spettacoli per imparare qualcosa di più – e poco più indietro ho riconosciuto quella bella signora alta con i capelli rossi, quella che poco prima che si spegnessero le luci raccontava l’esperienza della figlia alla scuola di musica, l’entusiasmo delle lezioni di esecuzione di insieme e il divertimento di vederla suonare in prova un improbabile adattamento per ragazzini alle prime armi di “Acida” dei Prozac+. Un replica apparentemente di ordinaria amministrazione: le luci si sono spente, si è spalancato il sipario, i fari sulla sedia nera, unico arredo di scena, e poi il mio corpo, la mia voce, i miei sguardi, i miei movimenti. Questa volta, con una variante: quel vecchio vestito male, in mezzo ai soliti abbonati dell’area C, a cui è crollata la testa in avanti proprio mentre mi trovavo alle prese del passaggio più drammatico, quello della morte di Lisetta. Il brivido si è irradiato lungo la platea proprio come quella volta in cui ho visto l’onda del terremoto attraversare il lato lungo del living rettangolare dell’appartamento in cui ho abitato tanto tempo fa. La scossa si è propagata, nell’ordine, dalla porta del balcone al tavolo della cucina, poi ha attraversato me – ero seduto al computer, tanto per cambiare – e quindi si è dileguata verso la casa dei vicini. Così, a spettacolo concluso e applausi scemati, quel vecchio si è avvicinato all’orecchio della signora che sedeva al suo fianco – sua moglie? – e l’ho sentito, è stato sufficiente il labiale, sussurrare qualcosa che aveva a che fare con la quarta parete e una commedia di Plauto al liceo, quando uno dei protagonisti aveva fermato lo spettacolo per lamentarsi del chiasso che quel gruppetto di deficienti ignoranti bifolchi conciati come i Cure stavano facendo. “Stiamo lavorando”, il soldato fanfarone aveva gridato dal palcoscenico, “meritiamo più rispetto”.