lettera testamento

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Se posso sostenere – e mi è già capitato più volte – di svolgere finalmente un mestiere in cui esiste gente che va in pensione, al contrario la scuola non è certo il primo ambiente professionale in cui compiango colleghi che ci lasciano, più o meno all’improvviso. Il che è paradossale perché dal mondo della comunicazione in cui operavo prima, popolato per lo più da giovani che lavorano in agenzie in sedi fighissime del centro, non ti aspetteresti mai di rientrare in ufficio un lunedì, di essere convocato dal tuo responsabile per essere messo al corrente della tragica fine del tuo grafico web poco più che ventenne a causa di un fuoripista in snowboard – e in acido – sulla neve nel finesettimana, e di doverlo comunicare al resto del team. La morte di un collega è piuttosto una trama che l’immaginario comune ambienta più comodamente tra le grigie aule di edilizia scolastica anni settanta di un istituto comprensivo di provincia con squallidi pavimenti di piastrelle di graniglia, veneziane rotte su finestre dalle maniglie difettose, muri scrostati e costellati da fori che nessuno tapperà mai da cui spuntano tasselli inutilizzati che nessuno rimuoverà mai, infiltrazioni dal soffitto e lampade al neon che sfarfallano durante le grigie lezioni invernali delle prime ore della mattina.

Il flusso della comunicazione top down non cambia, però. Alla vigilia del primo ponte dell’anno scolastico (al paesello in cui insegno il primo lunedì di ottobre è festa patronale) sono stato incaricato dalla mia dirigente di riportare agli altri docenti la notizia del lutto inaspettato che ha colpito la nostra comunità scolastica. E se è possibile individuare una nota positiva in un funerale alle tre del pomeriggio di un sabato di ottobre con il sole è l’offerta di spunti di riflessione, a partire dall’età della vittima (la collega è mancata poco più che cinquantenne, una vera tragedia).

Le cause del decesso sono al limite dell’incredibile, e non è certo questo il luogo più adatto a parlarne. Posso solo raccontarvi il finale della cerimonia, il momento in cui un genitore della sua ex quinta (la collega aveva terminato come me il ciclo, lo scorso anno) è salito sul pulpito e ha fatto partire dal suo smartphone, avvicinato al microfono da cui il prete aveva da poco terminato un’omelia comprensiva di una toccante poesia di Gianni Rodari alternata a sacrosante riflessioni sulla considerazione in cui lo stato che trattiene metà dello stipendio lordo ai lavoratori della pubblica amministrazione tiene i docenti e gli operatori dell’istruzione (e del merito), dicevo quando un un genitore della sua ex quinta è salito sul pulpito (sempre che si chiami così la postazione da cui i preti officiano la messa) e ha fatto partire dallo smartphone una commovente lettera dedicata ai suoi bambini, registrata nell’auditorium del nostro istituto al termine dello spettacolo di fine anno, lo scorso giugno. Ogni quinta ha aderito a un laboratorio teatrale che ha previsto la messa in scena di una recita conclusiva, l’ultima settimana di scuola, che è stata l’occasione anche per un momento di commiato dopo i cinque anni trascorsi insieme.

L’impianto di amplificazione ha diffuso così lungo tutta la chiesa gremita di parenti, ex alunni, personale scolastico, famiglie e conoscenti, la voce della collega scomparsa. La cosa che mi ha colpito è stata la musica che si percepiva sotto la lettura. Già il fatto di aver scelto un background sonoro a corollario della declamazione di un saluto finale (e ripetuto durante il funerale, quindi doppiamente conclusivo) ne ha potenziato enormemente la portata emotiva. Un modesto e medio docente di scuola primaria avrebbe letto al pubblico e basta, in silenzio, senza il valore aggiunto della musica dai toni perfettamente adatti al contesto. Ed è proprio questo, il punto. Bastava prestare attenzione alla canzone sotto, lasciando scorrere il significato delle parole sopra, per cogliere nel brano scelto un plagio – tipico della musica copyright free che, ai tempi dell’intelligenza artificiale, è facilissimo trovare nel web – di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead.

Rientrando a casa in macchina mi sono convinto però che non poteva essere come pensavo, e che per forza di cose doveva trattarsi di una falsa percezione, da parte mia. In una chiesa della periferia milanese, una di quelle costruzioni moderne solo cemento di edilizia sacra che tutto richiamano fuorché la religiosità, nel corso di una cerimonia funebre di una maestra ancora giovane ma già consumata da decenni di lavoro nella scuola, un lavoro svilito e malpagato, a sottolineare un involontario testamento all’ecosistema di cui faceva parte, per un caso fortuito – probabilmente forzato da chi ha effettuato in sua vece la ricerca in Internet di una canzone strumentale dai toni struggenti e evocativi – è stato riprodotto un evidente richiamo all’inno universale della finzione e della disperazione. Mi sono così affrettato a chiedere la riproduzione su Spotify di “Fake Plastic Trees” dei Radiohead utilizzando l’assistente Google – stavo guidando – ma, al posto della versione originale presente in The Bends, è partita la deludente versione live tratta da “2 Meter Sessions”.

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