Se è vero che ogni olimpiade ha una sua peculiarità, l’edizione di quest’anno non ha precedenti, a partire da chi la segue in pantofole. I giochi numero XXXIII hanno coinciso con la mia resa incondizionata all’installazione del condizionatore in casa, e in questo torrido scampolo di estate che precede l’agognata partenza per le vacanze posso fruire di uno spettacolo di cui normalmente non me ne fregherebbe una mazza ma che, spiaggiato sul divano al fresco sorseggiando una birretta, tutto sommato ha un suo perché e offre un’alternativa senza confronti ai vari techetecheté e alle serie tv. Il paradosso è che la sovraesposizione allo sport dei giochi olimpici comporta un binge watching altrettanto scrupoloso e compulsivo ma richiede meno della metà in concentrazione. Ne consegue che gente come me, che piegandosi non riesce nemmeno a toccarsi le dita dei piedi, può dedicarsi alle scorrerie sui social commentando a destra e a manca, con la dovuta cialtronaggine provocatoria, certi gesti atletici che non riuscirei a riproporre nemmeno fossi privo del corpo.
La regola numero uno della retorica dell’agonismo è che lo sport ci insegna tantissimo. Io ho imparato, per esempio, che nella scherma quando i due sfidanti si toccano con la punta dell’arma esultano entrambi perché la percezione di chi ha ottenuto effettivamente il punto è altamente soggettiva. Ci sono cioè alcuni istanti, che si ripropongono spesso, in cui tutti sono convinti di avere vinto ed è una cosa bellissima. A me piacerebbe che non ci fosse tutta questa urgenza di dimostrare di essere più forti, più bravi, più veloci o più agili. Ci si vede ogni quattro anni, si fa un po’ di allenamento insieme, ci si confronta per individuare oggettivamente chi è più in forma e si assegnano le medaglie. Senza partite, senza semifinali, senza rigori e, soprattutto, senza litigare.
Un approccio che manderebbe in bestia gli elettori dei fratellisti d’Italia e dei fascio-melo-casapoundisti che puntano tutto sulla prevaricazione fisica e sul maschioalfismo. Ma come? Non serve più dimostrare il nostro primato di italiani? si chiederebbero sbigottiti. Ma, purtroppo, la narrazione va in senso opposto. In questi primi giorni di giochi, nei casi in cui siamo stati giustamente battuti persino le autorità istituzionali dello sport italiano e non solo gli allenatori stessi ci hanno tenuto a dimostrare che il concetto di vittoria morale esiste, che si possono puntare i piedi e fare i capricci in caso di sconfitta, e che le regole dipendono da chi le deve osservare. È tutto (a partire dagli inviati RAI) un tutti “c’è lanno” con noi, dov’è la fiamma tricolore, dobbiamo vincere e vinceremo e se arriviamo quarti a 19 anni non è lecito essere felici.
L’edizione 2024 ci ha anche confermato la superiorità della Francia sul resto del mondo e, soprattutto, su noi italiani invidiosi, bigotti e rancorosi. La cerimonia di inaugurazione è stata una suggestiva e istruttiva passerella di civiltà, uno sfoggio della meritatissima grandeur transalpina che, al netto dei gusti, ci ha dimostrato che il patriottismo passa dai valori dell’inclusione, dell’accoglienza e della solidarietà, mica dai tatuaggi, dai saluti romani, dalle frecce tricolori e dalle canzoni de Il Volo. Per non parlare della padronanza della propria cultura, anni luce dalla pochezza e dall’incompetenza di chi ci rappresenta, sotto questo punto di vista. E il modo in cui abbiamo gridato allo scandalo è in perfetta linea con il nostro poraccismo. Ripartiamo piuttosto dal nostro inno nazionale, che sembra sempre di più una marcetta fascista colonna sonora di un trenino verso il nulla guidato da Alberto Sordi. Ho difeso tesi di questo registro sui social. Apriti cielo. Ho sostenuto che dai francesi abbiamo solo da imparare e sono stato sommerso di improperi. Però è così. Noi, al massimo, possiamo dare ripetizioni su come ci si lava a modino dopo aver fatto la cacca.
Tornando alle gare dei primi giorni, alcuni sport si confermano inutili al cazzo, a partire dal tiro a segno, altri altamente spettacolari, su tutti il basket quando in campo ci sono gli statunitensi. Ecco una cosa che ho imparato da questi primi incontri: guai a tentare di interrompere una corsa di Lebron James con il pallone in mano.