Il meme di Pablo Escobar che aspetta calza a pennello per le partite IVA che, inviata la fattura, si mettono in paziente attesa del bonifico. Avere una partita IVA non coincide con l’essere imprenditori, nel senso che lavorano in proprio sia quelli che hanno velleità imprenditoriali e stalkerano il mondo su LinkedIn, sia quelli che è solo per caso (o in quanto vittime della cialtronaggine dell’imprenditoria italiana) che non riportano a un responsabile che assegna loro delle mansioni. Gente come me, che nasce lavoratore dipendente ma, fino a un certo punto della propria vita, è impossibilitata a farlo.
Essere una partita IVA è da sempre allo stesso tempo un level pro del gioco della vita e un entry level del gioco dello stare in società, nel senso che io dipendente pubblico non sgarro di un centesimo nel pagare le tasse, se sei una partita IVA puoi aderire al movimento del commercialismo creativo e, a fronte delle attese alla Pablo Escobar, trovarti clienti stranieri, o italiani ma con domicilio fiscale oltre il San Bernardo, che dell’IVA e dell’Italia se ne fanno un baffo. Questo ve lo dice una cintura nera di sopravvivenza nel lavoro autonomo, una specie di isola degli sfigati con quel pelo sullo stomaco che poi però dobbiamo pettinarcelo se siamo costretti ad avvalerci della sanità pubblica, delle scuole pubbliche e di tutto il resto che, da quando sono dipendente pubblico, pago anch’io per tutti voi imprenditori e non dotati di partite IVA.
Ma ai tempi d’oro della partita IVA ho provato esperienze che noi umani dipendenti pubblici non possiamo nemmeno immaginare. Il rammarico più grosso va alle aziende e alle organizzazioni con cui, nonostante i numerosi brief e preventivi, alla fine è successo qualcosa per cui non abbiamo finalizzato. Non fraintendetemi. Non sono un vittimista, ma vi giuro che ci penso e ci ripenso e in nessun caso riesco a ricondurre la causa della collaborazione sfumata al mio modo di tenere (avevo scritto temere, pensate un po’) i contatti.
Il rimorso più grande per l’occasione perduta riguarda una realtà di Roma operante nel settore cinematografico e televisivo che mi aveva contattato per sviluppare una serie di cd rom multimediali – era il 97 o giù di lì – dedicati alle loro produzioni. Se non ricordo male, si chiamava proprio Tempi Moderni e, sul sito, campeggiavano i fotogrammi più iconici della celebre pellicola dell’intramontabile Charlie Chaplin. Io lavoravo a tempo pieno ma inquadrato (anzi es-quadrato) come consulente, ça va sans dire, per una software house locale, e ricordo di interminabili call (ai tempi telefoniche, il voip non era stato ancora inventato o comunque non era alla portata delle aziende con cui collaboravo io) a scrocco negli uffici in cui ero costretto a recarmi tutti i giorni, con il nuovo potenziale cliente, per definire tutti i dettagli della collaborazione.
Poi, improvvisamente, l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente, la loro di azienda giovane e dinamica alla ricerca di rapporti professionali innovativi, la mia di partita IVA morto di fame in cerca di qualunque modo per sbarcare il lunario, dicevo l’impeto e la forza che ci attiravano reciprocamente improvvisamente sono evaporati. Un soffio. Puff e il potenziale lavoro era svanito. Da allora il significato del film di Charlot per me ha un doppio e triplo e quadruplo significato. Tempi moderni, chissà se comunque meglio dei tempi contemporanei. Ma ora è una cosa che non mi riguarda più. Sono anziano e sono un dipendente pubblico.