Beth Gibbons – Lives Outgrown

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I Portishead ci hanno lasciato pochissimo materiale a consolazione della loro assenza. Tre album e un live – quest’anno peraltro ristampato con qualche traccia in più – nonostante alcune delle loro canzoni (due su tutte, anzi tre) siano tra le più iconiche della storia della musica. Tra i pezzi da novanta di una stagione musicale irripetibile (il trip hop, il sound di Bristol e in generale l’ultima porzione di un secolo agli sgoccioli) solo loro mancano all’appello, in quest’epoca di tributi, di reunion e di cannibalizzazioni del passato.

Ed era un peccato soprattutto aver perso le tracce di Beth Gibbons, uno dei timbri più rappresentativi del decennio in questione. D’altronde, anche nel momento di maggiore successo, l’approccio dei Portishead allo show business  è sempre sembrato piuttosto defilato. Da Roseland NYC Live in poi, il crescente disinteresse per la musica praticato soprattutto da Geoff Barrow (fuggito a cercare ispirazione in Australia) aveva completamente dilapidato tutte le energie compositive necessarie per un prosieguo di carriera. Non a caso Third, l’album pubblicato nel 2008, ampiamente oltre il tempo massimo di scadenza del trip hop, seppur un disco bellissimo, ha lasciato però (almeno a me) il retrogusto di un tentativo postumo, una di quelle eccezioni che non conferma nessuna regola.

E Beth Gibbons, in quanto a posizionarsi al di là di qualunque circuito, non è certo da meno. Quante volte ne avete sentito parlare, da allora? A memoria ricordiamo una partecipazione a un’iniziativa di beneficenza, il featuring di “Mother I Sober” di Kendrick Lamar un paio di anni fa e il disco frutto della collaborazione con Paul Webb, bassista dei Talk Talk, lì con il nome d’arte Rustin Man, un’opera così incorporea e fragile da evaporare dopo una manciata di ascolti. Fuori dagli standard imposti dallo star system, Beth Gibbons si è impegnata per costruirsi una dimensione privata, in cui diventare adulta e invecchiare con consapevolezza (stavo per scrivere con serenità).

Non sorprende che Lives Outgrown, quello che può essere definito il primo vero album solista della cantante dei Portishead, sia un disco frutto di almeno dieci anni di note prese a margine, di spunti messi da parte per dopo, di ispirazioni suscitate dalla straordinaria quotidianità della vita che scorre trasformate in musica con quello che capita di avere sottomano. Non necessariamente gli strumenti musicali più comuni con cui si compone o comunque strumenti veri e propri, ma anche qualunque oggetto che si presti a fare rumore, come i contenitori per gli alimenti, le scatole e quant’altro sia in grado di generare il suono più adatto allo scopo.

Fatto sta che la prima volta in cui si è diffusa la voce di un suo lavoro solista Beth Gibbons andava per i cinquanta, mentre la pubblicazione del primo estratto da Lives Outgrown la vede quasi sessantenne. Una fase della vita disperata nella sua unicità, un concentrato di perdite e di addii forzati, un ponte a senso unico tra un prima che sembra infinito e un poi dai giorni cinicamente contati che, intonato dallo stesso timbro che abbiamo ascoltato implorare “una ragione per amarti” chissà quanti milioni di volte, lei con la sigaretta in mano, aggrappata al microfono e con un’energia impossibile da descrivere a parole, ci suona ancora più struggente. “The burden of life just won’t leave us alone”, così oggi Beth Gibbons ci trasmette il peso della vita, corredato da un elenco di fardelli, incompleto ma sufficientemente esaustivo, che comprende cose come maternità sfiorate, ansia, menopausa e morte.

Temi che nell’immaginario a cui i nostri beniamini del pop e del rock, raggiunta la terza età, ci hanno abituato, richiederebbero poche cose di contorno. Chitarre acustiche, pianoforte e poco altro. Beth Gibbons ci stupisce invece con una ricchezza di arrangiamenti e orchestrazioni di rara bellezza, ovunque maestosi e evocativi, pensati per sprigionare al massimo tutte le potenzialità delle sue canzoni. Un folk “sbagliato” nel suo tripudio di archi, flauti, percussioni e persino cori di voci bianche, tanto che le due incursioni di chitarra elettrica e quella di organo, con un effetto tipicamente Dummy (in “Rewind” e “Beyond The Sun”), ci sorprendono per la loro estemporaneità, a conferma che non c’è disco più distante dai Portishead e dai campionatori di questo.

Tra le tag con cui questa superlativa tracklist può essere descritta rientrano di diritto termini come intensità, affanno, sospiri, spleen, dubbio, ineluttabilità, disincanto e malinconia. Lives Outgrown va ben oltre il decennio durante il quale è maturato, e risulta il diario dell’intera esistenza di un’artista permeata da una inquietante cupezza. Un oscuro presagio del fatto che, dopo questo album, non ci sarà davvero più nulla.

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