Se siete fanatici di Tetris, il sound degli Omni è quello che fa per voi. In Souvenir ogni parte va a incastrarsi alla perfezione al suo posto, alla velocità dei livelli riservati ai giocatori più esperti.
Se in natura davvero esiste il math rock, lo stile degli Omni rimanda invece a forme geometriche rigorosamente regolari. Il trio di Atlanta suona un quadratissimo post-punk che, se non fosse completamente elettrico, sembrerebbe pilotato attraverso un trigger proveniente da un calcolatore elettronico. Souvenir è un capolavoro di precisione. Vi sfido a trovare una nota o un colpo di batteria o una sillaba fuori quantizzazione. Tutto sembra perfettamente al proprio posto, in un’alternanza regolare tra suono e pausa.
L’effetto è al limite del robotico, una versione ancora più asciutta dei Devo che si lascia andare a rarissime (e quando si manifestano, deflagranti) eccezioni. Un approccio meccanico e meticoloso che porta persino a scriverne come sto facendo qui. Poche parole per riga, in linea con la brevità delle undici tracce dell’album. Canzoni volutamente omogenee, una regolarità tradita solo dai gradevolissimi cameo vocali di Izzy Glaudini delle Automatic.
Da Souvenir abbiamo solo da imparare. Intanto che nell’era dell’intelligenza artificiale è ancora una volta l’umanità a interpretare al meglio il ruolo della macchina, sia quando si tratta di comporre musica che di scrivere testi dal significato inaccessibile. Poi, che solo la precisione e l’ordine ci salveranno dal caos. Infine, che si può ridurre ai minimi termini la propria arte solo quando, come per gli Omni, c’è davvero sostanza e l’opera mantiene il significato anche con poco, anzi meno. In una sceneggiatura che non ammette sbavature, la band di Atlanta inserisce persino colpi di scena in modo magistrale, su tutti l’impennata rock’n’roll (con tanto di pianoforte) in coda a “INTL Waters”, uno spin off pronto a mettersi in discussione attraverso un’ironica destrutturazione con schianto finale.
Con la pubblicazione di Souvenir, il cantante/bassista Philip Frobos, il chitarrista Frankie Broyles e il batterista Chris Yonker interrompono il periodo di silenzio seguito all’uscita del precedente Networker nel 2019. In mezzo c’è stata la pandemia, che ha messo in stand-by la collaborazione tra i tre e ha consentito lo sviluppo di progetti individuali di vario tipo. Al rientro alla base, l’apporto di Kristofer Sampson in sala di regia ha consolidato il tutto nel nuovo lavoro, fondamentale per riprendere esattamente dal punto in cui le composizioni si erano fermate. Souvenir conferma l’originale formula, un sound che risulta dichiaratamente lineare perché risultato di pattern consolidati che si incastrano efficacemente, tutt’altro che monotono. Anzi. Nell’album non si percepisce alcun calo di energia, nemmeno un irrisorio allontanamento dalla dimensione fisica e immediata della loro riduzione ai minimi termini del rock.
Rispetto ai dischi precedenti, in Souvenir c’è però uno scrupoloso lavoro di pulizia che troverà entusiasti e detrattori. Se volete la mia opinione, ascoltando le nuove tracce, va benissimo così. Ogni singola parte si percepisce distintamente e può essere isolata dal resto, ed è un piacere per le orecchie. Le parti di chitarra, in tutte le sfumature che vanno dal nitido al lievemente distorto, non perdono mai la loro freschissima asetticità, un valore aggiunto per gli amanti del genere. Ma è tutto l’album a risultare terso e tagliente come vetro, e non c’è traccia che scenda a compromessi in tensione.
Souvenir è una dichiarazione di contemporaneità e rimanda ai tempi e luoghi ben definiti in cui è stato pensato e realizzato. Non potrebbe essere altrimenti, considerando il ritmo mozzafiato della tracklist, che non lascia spazio alla nostalgia. Il che è paradossale, visto il carattere comunque evocativo e derivativo insito nel DNA del progetto. Il presente è anche questo, e non potrebbe meritare colonna sonora migliore. Proprio così. Anzi, come canta Frobos, “exacto, de facto”.