Ci sono cose che hanno del miracoloso, tra le prime che mi vengono in mente c’è questa qui che ho davanti, per la quale schiaccio dei tasti di plastica con delle lettere stampate sopra e miracolosamente la stessa lettera si manifesta su uno schermo, ma anche certe funzionalità del corpo umano, ne parlavo qualche giorno fa introducendo l’argomento che iniziamo ora in scienze. Cellule, tessuti, organi, apparati e sistemi. “Ma ci pensate?” è la domanda retorica che ho posto ai miei bambini. Loro mi hanno guardato come sempre, come quando stanno per chiedermi se possono andare a fare la pipì proprio mentre io sono al momento cruciale del mio TED sul senso della vita. “Maestro posso andare in bagno?” e io, in risposta “Ma ti perdi una parte importante di spiegazione. È urgente?”. Inutile che vi dica come va a finire, le bambine sono già alle prese con il ciclo e non sai mai perché vogliono assentarsi, e allora devi mandare anche i bambini perché non sarebbe corretto e poi, se non li mandi, comunque i genitori si infuriano.
Comunque, tornando alla domanda retorica “Ma ci pensate?”, chiaro che non ci pensano, che non si pongono il problema del miracolo dei mitocondri o del sistema nervoso o dei globuli rossi e tutto lo sbattimento che fanno, non so se avete mai visto i cartoni animati sul corpo umano che, ancora oggi, costituiscono l’approccio pedagogico alle stem più autorevole e diffuso. Si accendono le luci nelle loro teste solo quando si parla di femmine e di maschi e di quello che combinano con i loro apparati riproduttori, per il resto è un tirare ai due intervalli e all’uscita. Non c’è apotema o funzione ricorsiva o progressione armonica che mi trasmetta da parte loro, mi accontenterei anche solo di un impercettibile sollevamento delle sopracciglia, una qualsiasi espressione di “cazzo che bella storia imparare le cose che ci spieghi, maestro, dimmi di più su Kind Of Blue e il jazz modale”.
Non li biasimo. C’era anche la puntata sul ciclo della vita, e probabilmente alla cattedra devo fare lo stesso effetto che fa a me vedere Augias alla tv, i capelli e la parlata un po’ biascicata si somigliano abbastanza, d’altronde anagraficamente sono molto più vicino a lui che a loro. Che poi, alla cattedra, chi ci sta più? La mia collega prefe si siede in cerchio sul pavimento con i bambini ogni inizio settimana e li fa parlare di quello che sentono dentro, per dire. Quando assisto a questi metodi, più efficaci e coinvolgenti dei miei (praticamente tutti) mi ripeto che, quando si presenterà l’occasione ci proverò anch’io, sempre che riesca poi a rialzarmi da terra. Ho un collega che ha qualche anno più di me e che a me dà l’effetto di mio nonno ma sono di parte, sicuramente nessuno, osservandoci dall’esterno, coglie la differenza. Indossa felpe e sneakers colorate che trovo in contrasto con gli spazi vuoti dei molari che gli mancano e i capelli radi e lunghi che porta pettinati all’indietro. Ci siamo scambiati qualche impressione su un nuovo modo di insegnare la matematica ma, mentre mi parlava, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso e, da allora, ho ripreso a indossare la camicia, perché il collo, quando inizia ad ammorbidirsi – diciamo così – è meglio occultarlo.
L’unico aspetto che mi lega alle nuove generazioni è, paradossalmente, la cosa che so fare meglio nella scuola, cioè risolvere i problemi dei computer, di quello che non funziona dentro e quello che gli sta attaccato. Saremo soppiantati insieme, quelli come me e quei ferrivecchi con cui stiamo affrontando la transizione digitale. Verremo ridotti in briciole come a Ercolano e Pompei, e gli archeologi del futuro ricaveranno i calchi con il gesso di noi nello spazio che lasceranno i nostri corpi sorpresi, con il cacciavite in mano, nell’atto di sostituire le lampade bruciate dei proiettori delle LIM.