Alla primaria, almeno da me, non ci sono grossi problemi nel caso in cui un bambino accumuli troppe assenze. So che alla secondaria esiste un limite oltre il quale viene precluso il passaggio alla classe successiva in quanto i gap didattici impediscono l’applicazione dei criteri di valutazione. Con i più piccoli invece si cerca di trovare un compromesso con la famiglia perché le cause delle presenze a singhiozzo possono essere molteplici, soprattutto in questi anni di epidemie e influenze molto aggressive. Noi docenti, per esimerci da ogni responsabilità, segnaliamo in tempi utili al dirigente e in segreteria quando i giorni di assenza iniziano a essere di impiccio allo svolgimento delle nostre attività. Accudendo i nostri alunni quotidianamente abbiamo il polso della situazione, comunque da qualche anno ci viene in aiuto il registro elettronico che visualizza un bollino rosso come sfondo sotto al numero dei giorni di assenza – quando iniziano a essere troppi – e di relativa percentuale sul totale delle lezioni.
Io ho due alunni che sono marchiati con il bollino rosso già nel primo quadrimestre e si tratta di due casi completamente diversi. A fronte di assenze ripetute verrebbe da pensare che non frequentare sia una conseguenza di prove tecniche di abbandono scolastico o perché i genitori non si svegliano in tempo per la campanella perché la sera prima sono rientrati alle tre ubriachi come nelle serie tv americane o altri generi di trascuratezze, invece purtroppo si tratta del problema opposto. Troppa ingerenza nell’educazione dei figli – e in generale nella loro vita – induce le famiglie a vere e proprie psicosi. Nel primo caso dei due c’è una madre (fuori di melone) il cui obiettivo è tenere il bambino al riparo dai problemi di salute che una vita sociale e comunitaria può comportare, con il risultato che il figlio non è capace nemmeno a salire e scendere le scale. Nel secondo, una mamma altrettanto poco registrata non ha voluto rassegnarsi al risultato dello screening che confermava i disturbi specifici dell’apprendimento della bambina e, anziché avviare il percorso della certificazione e della conseguente pianificazione didattica specifica in collaborazione con la scuola, ha optato per una parziale istruzione domestica più o meno in autonomia. La figlia è tale e quale a prima, ma noi abbiamo gettato la spugna anche se non si dovrebbe.
Come vedete, anche il 2024 sembra promettere bene e, al momento, a scuola non si riscontra alcuna discontinuità quindi meglio così. Il mio alunno che parla a un tono impercettibile di voce e che quindi mi costringe ad avvicinarmi alla sua bocca esponendomi al suo alito micidiale non ha migliorato per nulla la sua igiene orale. Claudia, una delle mie colleghe prefe (come dicono i giovani d’oggi) ha in classe il fratellino del mio alunno-cloaca e mi ha confermato trattarsi di un problema generalizzato. I genitori hanno responsabilizzato in eccesso i figli in routine come quella dello spazzolino e loro se ne sono giustamente approfittati, con l’aggravante delle schifezze che devono mangiare per ridursi così. Gli alunni, a scuola, portano una parte del loro mondo e la mettono in condivisione con gli altri ed è li che le cose si mescolano e che si forma la vera società di domani. Da me ci sono un paio di ragazzine che non si fermano in mensa ma tornano a casa per pranzo. Il punto è che oltre a perdersi quell’importante momento di convivialità con i compagni, al rientro a scuola saturano la classe degli odori delle cucine in cui hanno consumato il pasto. Si siedono al loro posto e curry e aglio e fieno greco li vedi espandersi nell’aria per posarsi sulle cose come banchi di nebbia in autostrada.
L’ultima cosa che vi voglio raccontare riguarda Miles Davis. Quando mi serve un brano jazz che risponda a tutti i luoghi comuni del jazz in modo che sia perfettamente riconoscibile da chi non mastica il jazz – quindi anche dei bambini – metto “So What” e chiunque – quindi anche dei bambini – se gli chiedi di che genere si tratta, risponde “è jazz!”, senza pensarci troppo su. Una delle mie alunne prefe (come dicono i giovani d’oggi), di cui già so che ha il papà che suona un po’ di tutto, quando ho fatto ascoltare “So What” in un’attività di abbinamento immagini a colonna sonora, ha riconosciuto il brano – anzi lo aveva già riconosciuto dal titolo – e ha raccontato che il papà mette spesso il cd che lo contiene. Le ho chiesto allora di portare a suo papà i miei complimenti per i gusti musicali, e di risposta ha avuto un guizzo improvviso. Si è ricordata di getto che suo padre ha registrato un cd. Suona il sax, prevalentemente, così ho pensato che l’associazione tra “So What” e il sax di suo papà sul cd fosse il fatto che si tratta di un cd di jazz, così – altrettanto di getto – le ho chiesto di farmi ascoltare il cd, sempre che il padre fosse d’accordo. La mattina dopo il cd era sulla mia cattedra. Ho ringraziato la mia alunna e, dopo aver dato un’occhiata alla copertina, alla tracklist e al booklet, dopo aver verificato che si trattasse di una pubblicazione amatoriale e che lasciasse invariato il mio primato che mi vede tutt’ora in vetta tra le persone che conosco – non musicisti professionisti, ça va sans dire – come l’unico ad aver pubblicato un cd con una major, mi sono sovvenute alcune perplessità. Si tratta infatti di un’opera realizzata per beneficenza, e fin qui nulla di male, proposta durante la messa, e fin qui nulla di male, contenente musiche religiose, e fin qui nulla male. Il punto è che dovrò ascoltarla, cosa che farò appena pubblicato questo post, e dare un feedback alla mia alunna, una delle mie prefe (come dicono i giovani d’oggi), perché per lei è importante.