Qualche sera fa è andata in onda, su Warner TV, la puntata pilota della madre di tutte le serie televisive che è “ER – Medici in prima linea”. Sapete tutti come funziona una puntata pilota, vero? Si cerca di concentrare in un unico prototipo tutto quello che caratterizzerà un prodotto dell’intelletto per verificare se può piacere e se quindi ha senso investire tempo e risorse per portarlo avanti. Nel numero zero di “ER”, visto a posteriori, un posteriori peraltro che accade a quasi trent’anni suonati dalla sua prima messa in onda, c’è già un accenno a tutti gli elementi che poi ricordiamo come specifici del primo vero e proprio medical drama della storia, a partire dalle personalità dei protagonisti – tracciate perfettamente, può piacere o non piacere ma si tratta di una serie che vanta una sceneggiatura da manuale – e dalle dinamiche delle relazioni e delle singole storie umane che si combinano su uno sfondo – quello di un ambiente dedicato al primo soccorso – ricco di paradossi e opposti che si dipanano tra gli estremi della dicotomia principale, la vita e la morte, per evidenziare tutte le sfumature intermedie che solo la chirurgia (l’intervento umano) può definire, e tutte le emozioni dello spettatore che ne possono derivare.
Non avete notato nulla? Ci sono cascato un’altra volta. Vi ho sottoposto una spiegazione non richiesta, peraltro probabilmente campata in aria, come se non conosceste il senso di “ER”. Come a tutti voi, anche a me quando qualcuno mi spiega una cosa che so mi viene l’orticaria, e non so mai se è colpa della mia presunzione di conoscere tutto, o della presunzione di chi mi spiega la cosa di conoscere tutto, o un mix di entrambi. In genere il mio approccio (a questa come a tutte le interazioni con il prossimo) è passivo aggressivo, quindi faccio finta di provare piacere nel ricevere l’ennesima lezione e, a quasi sessant’anni, credo di aver imparato altrettanto bene a dissimulare il disagio e il conseguente nervosismo.
Mi piacerebbe avviare un podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, cose di tematiche varie che vanno dal come dovrei sistemare la sedia della scrivania – quella su cui sono seduto proprio ora mentre sto scrivendo e che ha una gamba che prima o poi si stacca dalla seduta – a come si mette l’orzo in polvere prima di versare il latte, in modo che si attivi una soluzione preliminare all’intervento agitatorio e decisivo del cucchiaino. Gli spiegoni fanno il paio con l’aver fatto le cose prima degli altri, averle fatte quando non le faceva ancora nessuno, e il rilancio con una cosa più figa di quella che vi è stata appena raccontata, tutti tratti riconducibili al celholunghismo, che comunque è una variante del mansplaining. Obietterete che, se tutti smettiamo di spiegare le cose, non ci sarebbe più nessuna forma di comunicazione, a partire da questo blog. Vorrei spiegarvi che avete ragione, ma allora saremmo punto e a capo.
Mi limiterò a confrontarmi con voi allora sul fatto che trovo la trovata dell’episodio pilota in generale, cioè l’escamotage del numero zero, un approccio che sarebbe fantastico per il genere umano nel modo in auge di condurre le nostre esistenze. Voglio solo dire che la vita può essere un susseguirsi di puntate di prova di qualcosa da lasciare nel dimenticatoio se vediamo che questo qualcosa non funziona. La vita come un palinsesto di numeri zero di esperienze all’interno di un solo e lungo (speriamo anzi il più lungo possibile) e irripetibile spettacolo senza repliche. Il mio obiettivo è di migliorare il mondo smettendo di spiegare le cose al prossimo, quindi eviterò di condurvi lungo la comprensione di questa metafora.
Mi limiterò a un solo spunto, giusto per indirizzarvi a coglierne il meglio. Ho pensato che il progetto da abbandonare a cui mi dedicherò quest’anno sarà un podcast in cui registrerò queste cose che scrivo per vedere l’effetto che fanno sotto forma di voce narrante, qualcuno che le racconta, per farvi capire. Ho già registrato il numero zero, la puntata pilota, e l’ho pubblicata su Spotify, sapete – vero? – che ha una piattaforma di podcast molto semplice da usare, e se non lo sapete non vi spiegherò come funziona, ormai sono in questo mood e nulla mi farà desistere. Il titolo del podcast è “Rumore bianco” e l’ho scelto per due motivi. Intanto è riconducibile a una delle storie più avvincenti mai lette e a uno dei film più deludenti mai visti, ma anche al fatto che definisco rumore bianco – anche se poi non si tratta in sé di rumore bianco – il substrato di bordone composto dai ronzii degli elettrodomestici unito alla costante della tangenziale che scorre a un paio di km da qui moltiplicato per la moltitudine di fischi di varia intonazione che percepiscono le mie orecchie nel silenzio, quando sono in casa da solo. Si tratta di materia tangibile a tutti gli effetti perché, se chiudo gli occhi, la posso vedere e coglierne lo spessore. Rumore bianco, quindi. O forse è davvero meglio il podcast in cui spiegare le cose che mi spiegano gli altri, a partire da come ho sistemato la sedia che, resti tra noi, mica ho ancora aggiustato.