lei che bacia lui

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Qualche settimana fa ho interrotto il mio sciopero dei concerti per partecipare all’esibizione live di Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano. Non so se avete notato la grave crisi economica che sta attraversando il settore della musica dal vivo. Bene, avrete allora letto su tutti i giornali che la causa di tutto ciò va ricondotta alla mia astensione dalla partecipazione ai concerti che ho proclamato – manifestando un segnale forte di insofferenza – tre anni or sono.

Non mi reco ai concerti – e più accesa è la passione che provo per una band o un’artista e più efficace è la mia rimostranza – ormai dal 2018 principalmente per due motivi, anzi tre: non posso sopportare di condividere la conoscenza di un gruppo con qualcun altro e di pensare che ci sia gente che apprezza le band di nicchia che seguo. Non sopporto chi va ai concerti, mi si piazza vicino e canta le canzoni, soprattutto dimostrando di conoscere i testi meglio di me. Non sopporto chi si reca ai concerti solo per presenziare all’evento e senza conoscere a fondo la band e poi passa il tempo a chiacchierare o a fare la spola con il bar. E vi dirò che non sopporto nemmeno quelli che tengono lo smartphone in alto per scattare foto o riprendere video del concerto che poi non vedranno mai. Ecco, in realtà i motivi sono quattro e sono certo che se mi lasciate continuare ne trovo altri mille.

Comunque ho interrotto il mio sciopero dei concerti per andare a vedere Colapesce Dimartino all’Alcatraz di Milano un paio di settimane fa e l’ho fatto per due motivi: li adoro e li adora anche mia moglie. Abbiamo preso due biglietti ma poi mia moglie si è accorta che, proprio quella sera, sarebbe stata coinvolta in una trasferta per lavoro, quindi poi alla fine non ci siamo andati insieme ma ho venduto il biglietto a una coppia di amici e sono andato lo stesso da solo e vi posso confermare che era pieno di gente che amava Colapesce Dimartino come me, che tutti cantavano le canzoni e che addirittura accompagnavano certi passaggi particolari con la gestualità tipica della nostra cultura, che c’era chi chiacchierava durante i brani e faceva la spola con il bar e che quasi tutti hanno scattato foto e ripreso video con lo smartphone per tutto il concerto che poi non vedranno mai. Il concerto, comunque, è stato davvero molto bello. Loro sono bravissimi, io conoscevo tutti i pezzi e dal vivo non mi aspettavo una resa così coinvolgente.

Oltre alla faccenda dell’interruzione dello sciopero, avrete anche letto sui giornali che di Colapesce e Dimartino, oltre alla musica, mi piacciono molto proprio i testi ed è un dettaglio che ha dell’incredibile. Amo molto anche la loro sicilianità ed è un aspetto che si è consolidato quest’anno proprio durante le vacanze estive che ho trascorso in Sicilia. Il primo disco di Colapesce Dimartino (il nuovo è uscito solo a novembre) è stata la colonna sonora del viaggio e si è prestato molto perché i richiami alla Sicilia sono assai frequenti. Se lo conoscete, per esempio c’è una delle tracce più famose – si intitola “Luna araba” – e vede il featuring di Carmen Consoli. Il testo è centrato proprio sul fascino che esercita la Sicilia sui turisti, sui suoi abitanti alle prese con i turisti (che sono sempre di più) e anche sulle contraddizioni di quella meravigliosa terra. C’è poi un passaggio che trovo molto toccante. C’è un verso che dice

Dove sei rimasta ad aspettarmi tu
Sicuro c’era il mare

Non so quale immagine volessero trasmetterci i due autori ma l’idea che mi sono fatto io è che quei versi cantati con quella specifica melodia siano stati scritti pensando ai numerosissimi giovanissimi siciliani che vengono a lavorare al nord – ce ne sono svariati tra i miei colleghi a scuola – e che lasciano nella loro terra i loro affetti e devono attendere per tutto l’inverno le vacanze estive per riabbracciarli, magari proprio in un posto di mare come quello della canzone.

Questo mi fa riflettere sul legame indissolubile che abbiamo con la terra in cui siamo nati e il ritorno alla quale, se ce ne priviamo, aneliamo per tutta la vita. Anch’io, nel mio piccolo, sono emigrato anche se solo di 150 km. Potrei tornare in Liguria ogni fine settimana, se volessi e se non lo facessero simultaneamente milioni di milanesi, che poi tornano simultaneamente a casa il giorno successivo. Per anni addirittura tornavo ogni sera pur lavorando a Milano. Con una manciata di altri folli come me praticavo il pendolarismo estremo e quotidiano sparandomi Genova – Milano andata e ritorno in giornata in treno tutti i santi giorni, pur di non trasferirmi quassù e rientrare nella mia casetta di Castelletto.

Che poi in realtà io sono nato a Savona, città che da qui ci si mette qualcosa di più per raggiungerla e alla quale invece mi sento un po’ meno legato perché è piuttosto deprivata e deprimente. Nonostante il rapporto amore-odio che mi lega a lei, ne seguo comunque le vicende sui social in quei gruppi che vanno per la maggiore in cui si parla di parcheggi, merde dei cani, microcriminalità locale, dileggio del PD e foto amatoriali a scorci discutibili con suv in primo piano. È proprio da una di queste pagine che ho appreso che Savona, seguendo un trend piuttosto diffuso in Italia, ha addobbato le proprie vie in occasione del Natale con quella tecnica di creare luminarie contenenti versi tratti dai testi di brani di cittadini illustri divenuti pop star nazionali grazie alle loro canzoni. A Savona le luminarie riprendono frasi delle canzoni di Annalisa, a dimostrazione che è proprio vero che ogni città ha il Lucio Dalla che si merita.

Un pensiero su “lei che bacia lui

  1. Catia

    Condivido l’ insofferenza per chi durante i concerti si comporta come al bar sotto casa, peraltro avendo pagato un biglietto più salato di qualunque arachide da apericena.
    Anche io sono migrata a circa 100 KM da dove sono nata. Cresciuta ai piedi di montagne che chiudevano il mio sguardo ovunque lo posassi, l’ orizzonte di Roma fatto di palazzi e cielo mi creava smarrimento. Quando torno a casa, la montagna mi accoglie all’ uscita dall’ autostrada e mi saluta quando vado via. Dopo più di trent’ anni la vista ancora mi commuove, come quella di mamma e papà che mi salutavano dal balcone.

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