Bleach Lab – Lost in a Rush of Emptiness

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Quello dei Bleach Lab è uno splendido dream pop basato sulla chitarra di un chitarrista che, a ridosso della pubblicazione dell’album di esordio della band (il disco di cui sto scrivendo) ha mollato il colpo.

Ve lo dico perché avevo appena sistemato l’attacco per questa sorta di recensione e faceva più o meno così: Jenna Kyle e Frank Wates dei Bleach Lab passeranno alla storia come una di quelle coppie voce e chitarra che il destino ha voluto far incontrare apposta per rendere immortale la reciproca complementarità. Stavo addirittura per tirare in ballo Morrissey e Johnny Marr, o Elizabeth Fraser e Robin Guthrie. Poi (è stato per puro caso) mi hanno insospettito delle riprese di un live dei giorni scorsi, pubblicate su Youtube, e una foto promozionale che accompagna il disco: le facce dei chitarristi sono oggettivamente diverse.

È stata sufficiente una ricerca sul loro profilo Facebook per recuperare il post dell’annuncio della separazione, risalente ai primi di ottobre, a farmi riflettere sul fatto che il prossimo disco sarà più che una prova del nove per questa talentuosa band londinese. Mi chiedo infatti quanto sia stato determinante lo stile dell’ormai ex-chitarrista Frank Wates per il suono nativo che mi ha catturato così tanto da farmi innamorare di loro e per il valore che ha aggiunto ai Bleach Lab. Se il futuro secondo trentatrè giri dei Bleach Lab funzionerà allo stesso modo di Lost in a Rush of Emptiness, e ce lo auguriamo con tutto il cuore, e il chitarrista che lo rimpiazzerà sarà più di un mero turnista, significa che ci troviamo al cospetto di un band con una personalità incredibile e sufficientemente forte e matura a prescindere dalle individualità al netto di Jenna Kyle, la cantante, che, forte del suo ruolo, ha più voce in capitolo di tutti.

Ma, almeno per ora, godiamoceli così. I componenti dei due classici della musica che ho citato poco fa non sono stati tirati in ballo a caso e non solo per lo stile in sé. I Bleach Lab sono veri maestri nel restituirci (con sobrietà e poesia) emozioni catturate con una sensibilità che rimanda ai The Smiths nella loro versione più sommessa e trascurabile e ai Cocteau Twins meno intransigenti e più alla mano (quindi a glossolalia rottamata) di Heaven or Las Vegas. Due riferimenti colti nella loro dimensione da b-side (un richiamo alle rispettive hit suonerebbe stucchevole) attraverso rimandi accennati e riscritti secondo i canoni della percezione della musica da vecchi che ha la generazione millennial. Che poi non è proprio così: la storia del dream jangle indie pop è piena di chitarrine pulite e riverberate a fare da culla a voci eteree femminili in ogni decennio, lascio a voi (dai The Sundays ai Mazzy Stars ai Daughter) il piacere della speculazione nelle similitudini.

E il bello di Lost in a Rush of Emptiness, titolo riconducibile alle liriche postume di Leonard Cohen, va individuato nella sfida a smarrirsi per non ritrovarsi lungo il confine impreciso in cui si amalgamano proprio canto e accompagnamento musicale, quello spazio in cui l’uno si confonde egregiamente nell’altro e viceversa. Un aspetto sorprendentemente convincente (e molto più a fuoco di quello che lascerebbero intendere dalla foto di copertina del disco) per una band agli inizi come i Bleach Lab. Sono proprio loro, nelle interviste a supporto dell’uscita del disco di debutto, a dichiarare di aver lavorato meticolosamente e con professionalità alla sua realizzazione.

Non a caso Lost in a Rush of Emptiness suona come una bomboniera artigianale da prima comunione se paragonato al clamore dei chiassosi cotillon musicali a cui siamo sempre più esposti, aspetto che si intuisce sin dalle prime note di “All Night”, il brano introduttivo del disco: nessun incipit d’effetto o crescendo mozzafiato, ma solo un fill di tamburi da prima settimana di lezioni di batteria. Essenziale ma efficace, la prova della mancanza di spazio per gli individualismi in un progetto di questo tipo, a tutto vantaggio delle loro composizioni.

E a marcare la differenza con le tematiche mainstream, l’approccio in punta di piedi dei Bleach Lab è una boccata d’aria fresca. La gentilezza e la sensibilità come linguaggio prestato a tradurre in canzone disfunzioni intime, a partire dalle relazioni claustrofobiche e velenose, il dolore e le angosce d’amore, l’isolamento, la dipendenza dall’alcol e persino un tema urgente come quello delle molestie sessuali. Una tracklist colma di spleen in cui è prevista la redenzione finale, un brano in cui la band canta con pochissima convinzione che “Life Gets Better”, la vita migliora. Ma chi volete prendere in giro, con quei suoni e quel mood lì? Lost in a Rush of Emptiness è l’ennesima prova del fatto che non ha senso ascoltare musica che non sia deprimente.

E, da questo punto di vista, è davvero difficile trovare un difetto in un disco come questo. Il pop shoegaze dei Bleach Lab impone tempi dilatati alle canzoni e, di conseguenza, ci lascia tutto lo spazio per bearci della malinconia e del disagio, sentimento del quale, anche nei momenti più di successo della nostra vita, un po’ di scorta abbiamo sempre da qualche parte. Un disco che raccoglie gli insegnamenti di un filone perfetto per crogiolarsi nel malessere e continuare a far finta, almeno per l’ascolto dell’album, che lo stiamo accettando, ci stiamo convivendo e stiamo provando (“guarda un po’”, raccontiamo a noi stessi) a trovare persino una via d’uscita. Ed è una fortuna (l’unica) che dischi come questo durino poco.

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