Vagabon – Sorry I Haven’t Called

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In “Sorry I Haven’t Called” ci si prende e ci si lascia e poi si balla tutta la notte per dimenticare, lungo storie di attrazione e di addii raccontate in forme diverse ma suonate con uno stile unico. Nel disco della maturità, Vagabon fa brillare finalmente tutta la sua personalità artistica.

Spero che qualcuno escogiti al più presto un nome per lo stile che sovrappone il moderno r&b all’indie pop di matrice cantautorale. Dovrà essere un concept talmente evocativo da ricondurre ai principi costitutivi (fortemente antitetici) di questa entità ibrida. Una sfida non semplice, se consideriamo il calore dell’elettronica di base e delle radici black da un lato contro il rigore delle strutture guitar-based dall’altro. Io me ne guardo bene dal provarci, mi è venuto mal di testa solo a sforzarmi di descriverlo, ma ci tenevo a introdurvi alla musica di Laetitia Tamko, in arte Vagabon che, per darvi delle coordinate, si colloca a metà tra Arlo Parks e Sudan Archives.

Almeno così l’avevamo lasciata quattro anni fa all’uscita del suo ellepi omonimo, un secondo album complesso e introspettivo, a tratti cupo, che aveva a sua volta marcato radicalmente le distanze dall’acerbo indie-rock del precedente poco-più-di-un-EP di esordio. Tra Infinite Worlds e il s/t ci sono almeno due tacche di distorsore di differenza.

Sorry I Haven’t Called testimonia un’ulteriore crescita (proporzionale alla stessa che ha interessato i capelli di Vagabon) in cui l’estro compositivo dell’artista non fa compromessi in complessità ma, forte di una produzione al passo con i tempi (c’è di mezzo Rostam Batmangli, già dietro ai suoni di Vampire Weekend, Haim e Clairo), trasmette un approccio più sereno alla musica e una maggiore e riuscita leggerezza artistica.

Laetitia Tamko, in dodici tracce, spazia con disinvoltura lungo tutta quella che è la sua poliedrica personalità dimostrando di aver conseguito una maturità stilistica e di essere in grado di suonare e cantare qualunque cosa. Un album che nasce con l’urgenza di dare forma a un evento drammatico e che riesce, brano dopo brano, a neutralizzare il dolore e a sublimare in energia in grado di superare, o per lo meno arginare, le difficoltà.

Nella produzione di Vagabon non ci sono mai state fondamenta così elettroniche come in Sorry I Haven’t Called, in tutte le sue varietà. Dai richiami trap di “Can I Talk To My Shit” alla sofisticata techno di “Carpenter” e “You Know How”, sino alla drum’n’bass di “Do Your Worst”, cose che succedono se si trascura la chitarra per comporre principalmente al pc, strumento sicuramente più versatile. Un’eternità dal precedente lavoro, un periodo durante il quale la cantante newyorchese ha vissuto confinata in un paesino della Germania settentrionale, un ritiro volontario imposto dalla necessità di elaborare un lutto. Le frequentazioni di club mitteleuropei, votati principalmente all’oblio da cassa in quattro, hanno avuto una solida influenza su alcune soluzioni dance che è poi il ritmo della redenzione per eccellenza e che suona come la conferma che Vagabon ha fatto pace con il mondo.

Non a caso, il prodotto di questa ricerca di sé trasmette il desiderio di parlare in modo più diretto e di presentarsi con maggiore disincanto, un tratto che si percepisce perfettamente dalle liriche della traccia introduttiva e dal timbro della voce, qui meno sofferto, graffiante e posizionato sulle note acute rispetto agli altri lavori. “Lexicon”, addirittura, è un invito al ballo – a partire dal suo ritmo funk – pensato come deterrente ai cattivi pensieri che ci sorprendono vulnerabili dopo le tempeste sentimentali.

Ci sono infine i due estremi della dicotomia di questo genere che non sappiamo ancora definire ma, a proposito del quale, un giorno ricondurremo Vagabon nel novero delle madri fondatrici. Brani come “Made Out With Your Best Friend”, “Nothing To Lose” e “Passing Me By”, smaccatamente neo-soul, contro “Anti-Fuck”, la traccia conclusiva. Qui Vagabon ritrova le tensioni indie rock degli albori: voce su chitarra (una pennata inconfondibile) a dare forza alla ricerca delle ragioni di una relazione di coppia e, allo stesso tempo, dichiarando la volontà di liberarsi con coraggio dagli stereotipi dell’immaginario r&b, a tutto a vantaggio delle contaminazioni che scaturiscono da un’indole artistica multiforme.

Sorry I Haven’t Called è il disco perfetto se ve la sentite di fare un passo indietro rispetto agli eccessi di certa musica black che c’è in giro, se amate la sobrietà e le vie di mezzo, se non siete a vostro agio con l’estetica e le tematiche del pop contemporaneo, se ne avete le orecchie piene dei cosplayer della trasgressione, dei toni forti, della sessualizzazione spinta, dei vestiti striminziti e dei versi più che espliciti. Dal primo all’ultimo brano, in una tracklist popolata per metà da potenziali singoli, il nuovo album di Vagabon è un efficace percorso di riabilitazione verso il buon gusto.

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