Il resto delle pagine di Frankenstein non delude le aspettative suscitate dalla pubblicazione delle prime due, solo qualche mese fa. I The National sono autori di trame senza tempo e si confermano i veri grandi classici della musica contemporanea. Ci sarà ancora un capitolo della storia?
Altro che Laugh Track. Non c’è niente da ridere. A certi appuntamenti bisogna arrivarci pronti, per questo io abolirei i dischi a sorpresa. La liturgia di un nuovo album dev’essere rispettata religiosamente. Ci vogliono uno o un paio di singoli con qualche mese di anticipo, i video e le campagne sui social per scaldare i fan. Ci vuole il tempo per prenotare il vinile in anteprima, magari l’edizione limitata, colorata e autografata, o anche banalmente il conto alla rovescia per la sua pubblicazione sulle piattaforme di musica liquida. Senza pensare a cosa abbiamo bisogno noi addetti ai lavori, a partire dalla possibilità di ascoltarlo settimane prima degli altri per preparare una recensione da far uscire a ventiquattr’ore dal lancio ufficiale, manco se il pubblico non aspettasse altro di sapere, noi signori nessuno, cosa ne pensiamo di questo o quell’artista.
E, in questo passaggio di autoreferenzialità passivo-aggressiva, ne approfitto per citare me stesso, quando scrivevo che First Two Pages of Frankenstein fosse il disco migliore dei The National, almeno fino a quello successivo. Perché un secondo album a pochi mesi di distanza da quello precedente non può che costituirne la sublimazione. E la copertina non lascia dubbi: Laugh Track è la versione a colori di First Two Pages of Frankenstein.
D’altronde, se ci pensate bene, era indubbio che in quattro anni ci fosse stato tutto il tempo per mettere insieme qualcosa di più della manciata di (ottime) tracce del primo dei due dischi del ritorno dei The National sulle scene. Non solo: se tutto fosse stato concentrato nella stessa pubblicazione, cioè se First Two Pages of Frankenstein e Laugh Track fossero stati confezionati in un unico album triplo o quadruplo, sarebbe sembrato inutilmente prolisso e ci avrebbe preso più per sfinimento che per amore dei The National, con il rischio di non riservare l’adeguata attenzione a certe perle che, fiaccati dalla sovraesposizione, avremmo ascoltato con un po’ di sufficienza snob.
I detrattori della più importante band di questo primo quarto di secolo, a fronte di quasi trenta brani costruiti più o meno con la stessa formula (due o quattro battute con il giro di accordi della strofa e poi spazio alla consueta melodia baritonale di Matt) avrebbero sicuramente trovato nuovi proseliti. In quello che, condizionati da abominevoli pregiudizi, alcuni avranno già scaricato illegalmente (la versione fisica esce a novembre) e archiviato nella categoria degli album complementari ad altre cose trite e ritrite, ci sono invece numerosi spunti che conferiscono a Laugh Track lo status di disco a sé (e decisamente superlativo). Questo indipendentemente dal fatto che, al netto del bimbo che gioca a una specie di “indovina chi sono” con la testa di un manichino, un ascolto superficiale potrebbe far supporre che, in comune tra i due dischi, ci sia poco più che l’anno di rilascio.
Se le trame delle tracce di Laugh Track sono palesemente contemporanee alla preparazione del capitolo che l’ha preceduto (credo che i temi ricorrenti dei testi ne costituiscano una prova piuttosto inconfutabile), il consolidamento, la successiva forma definitiva e (presumo) la conseguente registrazione è avvenuta durante il tour di First Two Pages of Frankenstein. Troviamo quindi una maggior coralità nelle soluzioni di arrangiamento, meno escamotage da studio e più passione live (su tutte, la traccia finale “Smoke Detector”, un brano pressoché infinito in cui l’approccio da estasi da palcoscenico risulta fin troppo evidente). Le parti ritmiche, a partire dal modo di accompagnare con la batteria le canzoni che è proprio di Bryan Devendorf, tornano a conferire ai pezzi quella naturalezza e quella fluidità a cui siamo abituati. Uno stile qui più umanizzato e meno da preset di drum machine che si adatta perfettamente alle esigenze delle canzoni.
Il punto è che i The National hanno quel qualcosa per cui li metti sul piatto e non ci pensi più. Ogni tanto ci destiamo dal rapimento a cui ci induce la loro musica e ci chiediamo se non abbiamo già sentito quella soluzione armonica, quell’arpeggio, quel ritornello o quei versi in rima in un’altra canzone dello stesso disco o in uno degli altri duemila che hanno dato alle stampe nei decenni scorsi. Io sono convinto che non si tratti di stanchezza compositiva. Non è colpa loro. Semmai è frutto di un deja-vu o di una di quelle asimmetrie percettive per cui i nostri emisferi cerebrali colgono una sensazione un millesimo di secondo uno prima dell’altro, ve la vendo così, non so nemmeno se sia scientificamente attendibile ma tanto non ne capite un tubo tanto quanto me e poi, nell’era delle fake news, chi ci fa più caso.
E se non vi ho ancora convinto del voto altissimo che merita Laugh Track, senza dubbio tanto quanto quello che ho assegnato a quell’altro perché, appunto, i due dischi alla fine sono reciprocamente propedeutici (potrei dire lo stesso anche rispetto a tutti gli altri dischi e, ci metto la mano sul fuoco, per tutti quelli che verranno in futuro), un dieci dato al decimo ellepi dei The National comporta almeno lo sforzo di stilare una lista di dieci buoni motivi per giustificare il giudizio stellare.
Il primo (1) è la presenza di “Weird Goodbyes”, il brano scritto a quattro mani con l’amico Justin Vernon alias Bon Iver, uscito lo scorso anno e che ci chiedevamo tutti che fine avesse fatto, dopo esser stato estromesso da First Two Pages of Frankenstein. Il secondo (2) è “Space Invader”, il mio brano preferito, un pezzo metà canzone dei The National e nei restanti tre minuti farneticazione rock ad alto tasso di psichedelia, un nuovo pretesto per Matt Berninger per gettarsi tra la folla di padri tristi ai concerti, con il microfono con il cavo più lungo del mondo, a far impazzire fonici, addetti alla sicurezza e backliner.
Aggiungo quindi il ritorno dei giochini con i tempi dispari (3), mai ci fu un incipit di album altrettanto imballabile di “Alphabet City”, sotto questo punto di vista. E poi ancora (4) la full immersion nell’atmosfera così The National che più The National non si può, e mi riferisco a “Turn Off The House”. Il ritorno (5) dell’inconfondibile timbro di Phoebe Bridgers nella title track, che non fa per nulla rimpiangere l’assenza, a questo giro, di Taylor Swift. E, a proposito di guest femminili, ecco l’esordio di Rosanne Cash (6) come controcanto di Matt in “Crumble”, non a caso la traccia più alternative country del disco. Poi la presenza (7) da una parte di quei brani delicati che solo i The National sanno fare, come “Dreaming”, “Tour Manager” e “Hornets”, dall’altra (8) di “Coat On A Hook”, una road-song che sembra senza fine, da ascoltare nei coast to coast con i finestrini giù.
Infine (9) c’è la compattezza e l’organicità di questo album, forse paradossalmente uno di quelli con maggior identità da cima a fondo della band, un’impressione esemplificata perfettamente dalle vibrazioni che ci dà un brano come “Deep End” e che ci porta inevitabilmente alla decima (10) delle reason-why. Malgrado la mezza età, il tempo passato a calcare i palcoscenici, l’inesauribile vena creativa, la volontà di restare sempre i The National e il non bisogno di cercare altro, la band dei doppi fratelli più un crooner un po’ depresso è tutt’altro che invecchiata e superata. A giudicare da come è andata la scorsa volta, se entro dicembre uscirà un terzo disco sarà un successo senza precedenti, ve lo assicuro.