È sufficiente un qualsiasi Bignami della musica degli anni ottanta a confermare quanto i compromessi di certi gruppi post-punk di allora, al terzo o quarto disco, abbiano permesso un’appendice insperata alla loro fortuna. Gli incesti con reggae, pop, funk, industrial e persino l’italo-disco oltre il tempo limite ne hanno abilitato la sopravvivenza (o per lo meno un dignitoso strascico) al di fuori dei paradigmi claustrofobici tipici di un genere diventato temporaneamente fuori moda. Non dobbiamo sorprenderci, quindi, delle recenti virate delle band omologhe del nuovo millennio verso altri stili. Negli ultimi mesi abbiamo incensato credibili omaggi degli Squid e compagnia bella al math-prog, al punk più sbraitato e persino alle derive cantautorali.
Giunti al terzo album, i Deeper invece ottengono il badge di fedelissimi alla linea e lo fanno in un modo tutto sommato convincente. D’altronde non c’è scritto da nessuna parte che sia necessario creare brecce nella propria comfort zone per raggiungere una illusoria scomodità solo per la fama o perché ci si sente stufi di fare sempre la stessa cosa, e ve lo dice uno che è stato azzurro di routinaggio estremo.
La sicurezza di ciò che si conosce bene probabilmente si è profilata come la via più percorribile per l’autoconservazione. La band di Chicago aveva infatti attraversato una crisi esistenziale nel corso della lavorazione del secondo album Auto-Pain, uscito nel 2020. Il chitarrista Mike Clawson aveva tristemente rinunciato prima al suo ruolo nel gruppo e, pochi mesi dopo, ancora più tristemente, alla sua vita. Sappiamo cosa succede, nel mondo della musica, quando un membro di una band si suicida, e a volte possiamo dedurre anche il perché. A questo aggiungeteci la fase storica, in quei mesi di lockdown e post-pandemia, aggravanti che hanno messo a dura prova la creatività in ogni settore artistico a fronte dei punti interrogativi del futuro.
Questo per dire che, sostanzialmente, il terzo disco dei Deeper è un ottimo terzo disco dei Deeper, freschi di approdo alla scuderia Sub Pop. Nic Gohl, il cantante e chitarrista, si conferma una delle voci migliori della nuova generazione post-punk, uno che non si lascia andare volentieri alla tentazione dello spoken-word e, quando lo sentiamo slegare le sue melodie dai solchi dell’intonazione, non lo fa solo per aggiungere una nota di trasgressione gratuita all’approccio della band. Insomma, siamo sempre dalle parti dei Wire ma in una variante che soddisfa anche i palati più tecnici. Il resto della band (Drew McBride alla chitarra, Shiraz Bhatti alla batteria e Kevin Fairbairn al basso) marciano come treni ad alta velocità e con adeguato rigore nei loro binari. Ad aggiungere valore, qualche trovata di sintetizzatori e tappeti di strings qua e là, in grado di ribadire l’auspicata algidità alle canzoni.
I brani di Careful! sono un vero compendio delle trovate compositive del genere. Riff ricavati da spigolose rincorse monodiche tra chitarre pulite che non si sottraggono al gioco di fare il verso alla linea vocale. Cassa e basso in ottavi coordinati. Dinamiche con su e giù e stop and go a dare i giusti sussulti anti-noia. Sobrietà esecutiva e ampia varietà sotto-stilistica (vi sorprenderà scoprire quante combinazioni si possono ottenere nella zona di confine tra il post-punk e la new wave più accondiscendente).
In linea con i due lavori precedenti, i Deeper si confermano il più british dei gruppi post-punk americani, e se ascoltate brani come “Bild”, “Glare” e “Build A Bridge” avrete capito che cosa intendo. Un sottoinsieme da cui si discostano lievemente “Dualbass”, tutta colpa di qualche inciampo nel blues, e “Sub”, con quel crescendo di rabbia nel finale che ci lascia di stucco, d’altronde è raro vedere i Deeper scomporsi.
Ci sono anche episodi più sperimentali riconducibili alla drum machine di “Tele”, ai richiami ai New Order (complice l’elementare riff di chitarra che si svela nel finale e che ci riporta a “Age of Consent”) e a certi guizzi alla Devo di “Fame”, il brano in cui più di tutti Gohl vena il suo timbro degli armonici vocali di Robert Smith. “Everynight” probabilmente è la canzone più riuscita di tutta la tracklist, un pezzo in cui le tastiere si impadroniscono della scena lasciando libere le chitarre di perdere il controllo.
L’album si conclude con la canonica traccia tutta su tre note, una tentazione a cui nessuna band post-punk che si rispetti difficilmente sa resistere. Ma “Pressure” non è solo questo. Nascoste dalla linearità espressiva ci sono le parole d’amore nei versi dedicati da Nic Gohl alla moglie. Il che suona strano nel post-punk di maniera dei Deeper, rigoroso e a tratti persino filologico. L’angoscia che pervade il disco non cambia di una virgola, alla fine dell’ascolto, ma si percepisce una evidente apertura della band al mondo che li circonda, come se avessero imparato la lezione, dopo quello che gli è successo. Una sorta di maturità artistica, per capirci. Malgrado le ferree regole del club musicale a cui appartengono, i Deeper di Careful! ci tendono una mano, si avvicinano per sussurrare qualcosa di bello che non saprebbero dire altrimenti. E, fidatevi, per riuscirci con il post-punk ci vuole davvero della stoffa.