Il nonno Gigetto è il parente prossimo che mi sono goduto di meno perché è morto quando avevo cinque anni. Nonostante questo conservo alcuni ricordi sorprendentemente nitidi del poco tempo passato con lui. Vivevamo tutti insieme nella stessa casa, ci dava dentro con il vino – era un contadino poi riciclatosi dopo la guerra carpentiere di città per sfuggire alla povertà della campagna – e a cena me ne versava un goccio nell’acqua effervescente fatta con le bustine dell’idrolitina, che in famiglia ci arrogavamo immeritatamente il diritto di chiamare, in modo pretenzioso, acqua di vichy. Ho una vaga reminiscenza anche di quella volta in cui accontentò un mio capriccio comprandomi al mercato un gioco che poi, mezzo secolo dopo, ho adocchiato a un prezzo esorbitante sulla bancarella di un rigattiere: era una pista a forma di otto su una base metallica rettangolare, un nastro a cui bisognava dare la corda e che trasportava automobiline e camioncini lungo una strada fuori e dentro una galleria, dove per me resta tutt’ora un mistero cosa succedesse là sotto dove le due direttrici del percorso si incrociavano. Su tutti, però, lo vedo ancora oggi gustare l’uva con il pane, a fine pasto, abitudine che poi ho fatto mia da adulto, con grande soddisfazione. Ma vivevamo in Liguria, c’erano i besagnini sotto casa – per non parlare degli alberi e dell’orto della nostra cascina in campagna – e frutta e verdura non erano certo un problema. Anzi. Mia nonna ci sfiniva con tanta di quella marmellata di pesche, albicocche, ciliegie e mele che le mie sorelle ed io gettavamo i panini della merenda alle galline, a fine estate, tanto eravamo stufi di mangiare sempre la stessa cosa.
Non so poi cosa sia successo, probabilmente il cambiamento climatico o lo stesso processo per cui l’acidità degli yogurt della mia infanzia è stata soppiantata dalla panna per conquistare nuovi target, fatto sta che qui a Milano e dintorni la frutta costituisce un problema. I negozi dei fruttivendoli sono secondi solo alle gioiellerie e la frutta dei supermercati è insapore (e nemmeno così abbordabile). Nel migliore dei casi sa di acqua e zucchero. Quest’anno, poi, è stato particolarmente nefasto per l’agricoltura e, negazionisti meloniani a parte, tutti dicono che sarà sempre peggio.
Noi comunque ci riforniamo dal Marco. Il Marco è un marcantonio che si sposta con un camioncino tra i paesi dell’hinterland – con tutte le licenze necessarie – e si parcheggia a vendere i suoi prodotti. Prezzi e qualità sono a metà tra grande distribuzione e botteghe bio, tutto sommato un buon compromesso e lo ha ammesso anche lui che quest’estate la frutta non è stata niente di che. Nonostante l’agglomerato di periferia in cui vivo abbia tre o quattro punti di sosta fissi dove noi clienti lo raggiungiamo e ce ne sia uno praticamente sotto casa mia, io mi servo di lui ogni martedì alle 18 nel cortile del quartiere di case a proprietà indivisa in cui abita mia suocera ultranovantenne, perché per me risulta l’orario più comodo. Prendo la bici, faccio la spesa, metto le sportine nel cestino e, facendo attenzione alle uova, torno a casa.
Mi risulta che il Marco non si sia mai sposato. Me lo ha confermato la scorsa settimana, pochi giorni prima che uscisse lo spot dell’Esselunga con la pesca e i genitori divorziati. Mi prende sempre in giro perché nell’immaginario popolare gli uomini che si occupano della spesa sono telecomandati dalle mogli e mi fa le battute, ogni volta, invitandomi ad acquistare la frutta non di stagione o le primizie a prezzi esorbitanti e le conseguenze che possono generare nella vita di coppia. Però mi avvisa se le pesche sono troppo care, o non sanno di niente, o se è meglio prendere le prugne perché oramai la stagione delle albicocche è finita. Non ha nemmeno figli, quindi la cosa finisce lì e, a differenza della frutta dei supermercati, non c’è il rischio di polemizzare su nulla. Canzona amorevolmente tutti: le vecchine, compresa mia suocera ultranovantenne, i vedovi che comprano lo stretto necessario. Per le giovani mamme con i bimbi nel passeggino ha un tono diverso, com’è facile immaginare.
Mi piace anche il fatto che si rivolga a me in milanese quando io, savonese con trascorsi genovesi, il dialetto di qui non lo capisco. Credo sia anche più giovane di me ma appartiene a quel mondo di paese senza tempo, dove gli anziani sembrano anziani da sempre, quando invece un ottantenne del 2023 ha avuto quarant’anni nel 1983 e deve aver per forza ascoltato i Depeche Mode come me, ma invece sembrano tutti usciti da una balera di liscio come gli ottantenni del 1983, spero di essermi spiegato. Il Marco è un marelot, come dicono quelli come lui a proposito di quelli come lui, e me lo immagino alla sera con gli amici al bar a giocare a biliardo o la domenica mattina a bere bianchi macchiati in attesa di ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quando mi vede mi dice “ciao bagai”, ma lo dice a tutti, e così mi fa sentire un po’ uno di qui.