Another Brick In The Wall è un po’ l’Attimo Fuggente della musica, un prodotto culturale pensato per scardinare i paradigmi della scuola borghese e gentiliana in favore di una didattica più moderna e inclusiva, per non dire meno bacchettona. Sarà per questo che il contact center telefonico dell’azienda tutta italiana (è bene specificarlo per allinearsi alla narrazione meloniana del nostro paese) che produce uno dei servizi di registro elettronico e scuola digitale più diffuso in Italia – di certo il meno caro e di sicuro quello sviluppato peggio – lo ha impostato come musichetta di attesa.
Se frequentate le segreterie scolastiche in questo periodo vi capiterà di sentire Another Brick In The Wall come sottofondo musicale agli sfoghi di rabbia, agli screzi, agli improperi e agli sbotti isterici del personale amministrativo spesso sottodimensionato che, in una manciata di giorni, si fa in quattro per rimettere in moto una delle macchine organizzative più complesse del mondo e che, a fronte di funzionalità dimenticate o bug nativi dei programmi utilizzati, necessita di supporto. Non c’è tempo per smanettare o andare per tentativi. Questo induce all’assistenza che, sotto il tiro simultaneo di migliaia di scuole, lascia in attesa senza tanti complimenti il personale bisognoso e Another Brick In The Wall, trasmesso in viva voce, va avanti per ore. Il perché della scelta di questo brano non ve lo sto nemmeno a dire. Il mondo va così: si parla di vittorie e mettiamo “We Are The Champions”, si parla di finanza e mettiamo “Money”, si parla di scuola e mettiamo “Another Brick In The Wall”.
Il punto è che i servizi di centralino spesso non prevedono la possibilità di impostare un brano musicale dall’inizio alla fine, e l’edit a cui siamo esposti, focalizzato sui versi più significativi del celebre concept dei Pink Floyd – non abbiamo bisogno di istruzione! Hei, maestro, lascia in pace i bambini! – ci sottrae a uno dei soli di chitarra più riconoscibili del mondo, restituendo un’esperienza parziale di ascolto attraverso un loop che non rende giustizia alla sua portata dirompente. La musichetta di attesa arriva a un punto, poco dopo il primo ritornello, e poi riparte da capo, “We don’t need no education” eccetera eccetera, con una vocina beffarda che avvisa che sarai il prossimo a essere servito secondo però una cognizione del tempo ampiamente arbitraria.
La qualità della vita della prima settimana di scuola dopo i cinque mesi di vacanza di cui beneficiamo potrebbe essere quindi soggetta a una maggiore cura, e non mi riferisco solo all’effetto audio da scatoletta dei telefoni fissi di una segreteria di una scuola nell’Italia meloniana. Gli uffici sono rigorosamente privi dell’aria condizionata, alla faccia della ripresa e della resilienza, e i docenti che danno una mano ai pochi amministrativi sopravvissuti alle nomine ancora da fare e ai colleghi che si danno malati per evitare l’onda d’urto dei primi giorni si spartiscono pizze consegnate a domicilio nel cartone unto (la mia rigorosamente salsiccia e friarielli) e lattine mignon di bevande gassate acquistate a pochi centesimi al distributore in sala docenti. Il tutto a scapito della didattica: configurare le piattaforme digitali, sistemare i danni che i precedenti impiegati hanno procurato prima di beneficiare del trasferimento a Pozzuoli o altri borghi meloniani del sud che ci invidia tutto il mondo, spostare monumentali armadi stipati di materiale obsoleto e aggiornare firmware a dispositivi digitali sottrae energie al nostro core business, che è l’educazione dei vostri figli.
Nonostante questo, il nostro continua a essere il lavoro più bello del mondo e, anzi, la varietà di attività – dai metodi innovativi per l’insegnamento della matematica alla sostituzione dei toner – lo rende ogni anno sempre più avvincente. Non dovreste infatti mai perdere di vista il fattore umano, della scuola. Il mio collega di sostegno che comunica in calabrese ai genitori cinesi del mio alunno ACD è stato assegnato ad altre vittime, quest’anno, ed è una bella notizia. Mi sono fatto fidelizzare dal parrucchiere che ha la bottega proprio di fronte alla primaria in cui sono in servizio, mi ha già tagliato i capelli tre volte, e mi capita spesso di incrociarlo, in questi giorni di preparazione, quando esco pezzato dal cancello della scuola per rientrare a casa. La mia è una scuola di paese, con la p minuscola ma comunque sempre nell’accezione meloniana, anzi di frazione di paese, che forse è ancora più meloniano. Se incontro qualcuno nei paraggi sorrido e saluto sempre perché è facile che abbiano figli o nipoti che studiano da me. Ieri mi sono imbattuto in una donna musulmana tutta imbacuccata con due figlie al seguito. La più grande mi ha sorriso, piena di riccioli e di vitalità, probabilmente mi ha riconosciuto ma io no, mica posso ricordarmi tutte le facce, e di rimando – per non sbagliare – ho ricambiato. La mamma si è voltata dall’altra parte, coprendosi immediatamente il viso con il velo, forse fraintendendo il mio interessamento.