I miei genitori ed io abbiamo condiviso lo stesso approccio cialtronesco alla musica suonata, che consiste nel fatto che nessuno dei tre è mai stato in grado di eseguire al piano un pezzo per intero, dall’inizio alla fine. Un approccio per cui al massimo ci riusciamo ma in svariati tentativi. Ci fermiamo e riprendiamo dal passaggio in cui ci siamo sbagliati, o che è venuto male – di solito ce n’è più di uno nello stesso brano – e molto spesso, per evitare di giungere penosamente alla fine, ricorriamo al primo modo che ci viene in mente per sottrarci all’esecuzione completa, sia in presenza di terzi – che è decisamente più facile, una scusa la si trova sempre senza grossi problemi – che da soli al cospetto della propria coscienza, operazione molto più complessa perché ci mette di fronte al fatto, ancora una volta, che siamo dei buoni a nulla davanti allo strumento, che non siamo stati costanti nello studio, che abbiamo buttato via degli anni, che la musica (classica, principalmente) non è alla nostra portata, insomma che siamo dei cazzoni. Io più di tutti, sia chiaro. Credo peraltro sia un’ottima metafora di qualcosa, ma è meglio evitare.
Comunque il paradosso è che dei tre mia mamma, che ha studiato solo qualche anno quando era bambina e si è dedicata – vittima del patriarcato – alla pratica pianistica molto di meno di mio papà e di me, era quella che ci andava più vicino. Sapeva suonare a memoria un solo pezzo – la struggente aria de “Le petit montagnard” di Francesco Paolo Frontini che, ogni volta che la sento nella pubblicità per la quale è stata scelta come jingle, mi viene da piangere – ma di riffa o di raffa lo trascinava fino all’ultima misura.
Io di brani ne sapevo tanti, tutti quelli che preparavo a fatica per il quinto di pianoforte mai sostenuto, ma sono certo di non essere mai riuscito in vita mia a suonarne uno senza interruzione e senza errori, e sempre rigorosamente con lo spartito aperto davanti.
Mio papà, invece, aveva un’ossessione per la celeberrima sonata per pianoforte n. 14 in Do diesis minore, più comunemente nota come “Sonata al Chiaro di Luna”, del Ludovico Van. Dopo cena, mentre in sala andavano in onda i programmi tv della fascia preserale, si piazzava al piano nella mia cameretta e, con la sordina premuta, ci provava con costanza, come una sorta di digestivo. E, malgrado le migliaia di dischi stipati nella sua collezione, c’era sempre la copertina di una registrazione del “Chiaro di Luna” in giro che indicava che o nel piatto o nel lettore cd aveva ascoltato da poco la sua musica preferita, quella che non sarebbe mai riuscito a imparare del tutto. Non abitavamo più insieme, ma non faccio fatica a immaginare che, travolto dalla demenza senile degli ultimi anni e dall’accelerata dell’Alzheimer che ha messo fine alla sua vita, chiedesse a mia mamma di ascoltare il “Chiaro di Luna” a ripetizione, come fanno gli anziani quando tornano bambini.
Poi è morto, sono già nove anni, e il suo impianto hi-fi è rimasto pressoché inutilizzato a casa dei miei da allora. La scorsa primavera ne ho cannibalizzato una parte perché l’ampli e il lettore cd del mio hanno iniziato a dare problemi, dopo aver ottenuto da mia mamma il permesso di servirmene. Una volta rientrato a casa mia ho allestito tutto. Ho provato un vinile prima, per verificare di aver collegato per bene i cavi e la terra, e poi sono passato lettore CD. Ho aperto il cassettino e dentro era rimasto un disco. Ho schiacciato play e indovinate che brano è partito.