È difficile trovare una band coraggiosa quanto gli Squid. In O Monolith i già pochi ammiccamenti ai suoni di tendenza di Bright Green Field lasciano posto alla sperimentazione più dura e pura nel math-prog, per un monumento all’espressività musicale senza precedenti.
Superata l’urgenza di tracciare i solchi del proprio insediamento stanziale laggiù, nei remoti territori inesplorati dove le valli del post-punk lasciano spazio alle impervie montagne del progressive – siamo a poche miglia dal regno dei Black Midi, qui la residenza a South London non c’entra – a due anni dalla fondazione di Bright Green Field gli Squid avviano una politica di espansione.
Non correte il rischio di sbagliarvi: la band è riconoscibilissima e i tratti somatici del loro suono è facile individuarli nelle nuove canzoni di O Monolith. Ci sono i tempi dispari e la consueta varietà ritmica, a tratti schizofrenica. Ci sono i repentini scatti d’ira vocale di Ollie Judge che corrispondono ad altrettanti impeti di batteria (è impossibile non uniformare il canto e la simultanea e contestuale percussione di qualcosa, voce e gesto muscolare sono indissolubilmente legati, pensate ai versi che vi escono dalla bocca quando fate uno sforzo fisico: avete mai visto una partita di tennis?).
Ci sono le linee di tromba come meteoriti in picchiata nello spettro stereofonico delle loro canzoni. Troverete anche quelle dissonanze/cliché che per consuetudine riconduciamo al punk e che talvolta interpretiamo come musica suonata male apposta (o suonata fintamente male apposta) da gente che non sa suonare bene o con uno stile meno ostico ma, malgrado questo, vuole a tutti costi suonare lo stesso e si dà al punk (in alcuni casi al free jazz) perché nel punk vale tutto, anche non saper suonare o non aver studiato ma non è certo il caso degli Squid, qui ci sono strumentisti di scuola math-rock con i controfiocchi. In O Monolith la musica è così estrema da fare tutto il giro e disintegrarsi a tutta velocità contro il muro della sperimentazione, che rispetto alla musica come la conosciamo noi è una dimensione a sé. Una non-musica, potremmo dire.
Le manie di grandezza, o ambizioni, per usare l’accezione costruttiva dello stesso concetto, sono insite nelle ragioni fondanti di questo nuovo progetto. Le anguste sale di registrazione dell’album d’esordio hanno lasciato il posto ai Real World di Peter Gabriel nel Wiltshire, uno dei luoghi della terra più suggestivi per chi è assetato di ispirazione e ricchi di magia per chi cerca un significato – si trova a meno di un’ora di strada da Stonehenge – ed è anche questo fattore che ci induce a credere al motivo che ha portato verso la scelta di un titolo così criptico per il loro concept. Il fascino dei megaliti e il mistero del loro impiego da una parte, il significato del più celebre monolito della storia, quello kubrickiano che beneficia i destinatari delle sue epifanie di uno scatto evolutivo della loro forma di vita, dall’altra.
Non so a voi, ma a me sembra tutto intriso di geografia umana, per questo spero di non essere il solo a legare l’immaginario visivo degli Squid all’importanza dei luoghi e dei non-luoghi nelle loro e, di conseguenza, nelle nostre vite, un po’ per gli artwork di copertina dei loro dischi ma soprattutto per i video dei singoli pubblicati, surreali clip in cui l’ambientazione fa la differenza. Un’attitudine già intuita grazie allo scenario digitale di “Narrator”, tratto dal primo album, poi confermata dall’improbabile campo di basket di “Swing (In a Dream)” e dal deserto dell’ufficio relazioni con il pubblico (e tutta l’involontaria ferocia della burocrazia connessa) di “The Blades”, i singoli che hanno preceduto l’uscita di O Monolith. Ambienti rurali e ambienti urbani, migrazioni in posti nuovi, nuove forme di espressione, ed ecco che il cerchio si chiude.
Sarà la sequenza di synth in sette quarti che si attorciglia intorno all’arpeggio di chitarra e agli impulsi di cassa dritta con cui si apre “Swing (In a Dream)” a convincervi dei buoni propositi della band, ancora prima della frasetta di tromba che sembra rubata a un solo di uno standard bossa nova lounge-jazz. Sarà la belva che si risveglia furiosa nella sua tana nel finale di “Devil’s Den”, fino a quel punto sopita da una lunga e improbabile ninnananna cacofonica, a farvi ritrovare la vera anima di questo gruppo. Sarà il vocoder di “Siphon Song” ad accompagnarvi lungo un crescendo post-rock con deflagrazione finale, dopo il quale avrete tutto il tempo di raccogliere, della disperazione successiva al disastro, quel poco che rimane delle vostre membra. Sarà la math-fusion da operetta di “Undergrowth” a offrirvi un rifugio in pattern ritmici più consoni alle vostre consolidate simmetrie culturali.
Sarà “The Blades” – per me un capolavoro, poi fate voi -, più o meno a metà del disco, a fornirvi un riepilogo di tutto quello sperimentato fino a questo punto. Saranno il primo e il secondo tempo di “After The Flash” a farvi perdere ancora una volta l’orientamento, malgrado la guida dell’ostinato ripetuto ad oltranza, volutamente sacrificato per un finale inglorioso. E, dalle sue ceneri, sarà il grunge breakbeat di “Green Light” a persuadervi dello scarso senso della misura di questi cinque giovani inglesi. Alla bizzarra conclusione, la traccia “If You Had Seen the Bull’s Swimming Attempts You Would Have Stayed Away”, in cui coesistono Kamasi Washington e i Radiohead, il compito di farvi riflettere sul valore complessivo di quest’opera.
Per me, non ci sono dubbi. A differenza di certi esercizi di stile di altri artisti che condividono con gli Squid ispirazioni, estrazione e target, O Monolith è un monumento naturale alla potenza dell’arte, alla modernità e all’ingegno del genere umano. Probabilmente la cosa più vicina alla musica classica contemporanea che il rock del nuovo millennio sia in grado di esprimere.