Potrebbe essere l’anno dei Protomartyr. “Formal Growth in the Desert” è la prova che la crescita della band di Joe Casey fuori e dentro i luoghi aridi della vita – reali o metaforici che siano – ha dato i suoi frutti.
Sulla sua pagina Wikipedia Joe Casey è definito – o si descrive, vai a sapere chi l’ha compilata – uno che si distingue per la sua voce e per il modo anti-carismatico di calcare le scene. Io aggiungerei che, più che ogni altra cosa, si fa notare per le sue indubbie qualità di autore e, già che ci siamo, ne approfitterei per aggiornare le sue informazioni alla luce dell’ultimo album dei Protomartyr, un disco che si chiama Formal Growth in the Desert e che vedremo ai primi posti delle classifiche a fine anno, statene certi.
Il frontman della band di Detroit oggi è un cantante pressoché completo, capace di coniugare il suo disagio post-punk (in un disco in cui l’etichetta post-punk risulta ampiamente superata) insieme a un raffinato stile da crooner a tratti quasi credibilmente confidenziale. Tutto questo mentre il chitarrista e produttore Greg Ahee, il batterista Alex Leonard e il bassista Scott Davidson gli srotolano sotto uno dei più complessi tappeti sonori sulla piazza, privo di compromessi con la linearità o, al limite, con qualcosa che induca anche lontanamente a muoversi a ritmo. Sul discorso del carisma, poi, c’è ben poco da dire. Se siete ancora qui a farvi condizionare solo perché uno ha un’attitudine allo star system da geometra del catasto alle prese con il karaoke durante un pranzo di matrimonio, provate con i Fontaines D.C. o qualche altro cantante piacione, così risolviamo il problema alla radice.
A me piace invece considerare i Protomartyr un vero e proprio fenomeno, a partire proprio da Joe Casey. Una band dagli equilibri e squilibri perfetti in cui l’apporto di ciascuno dei quattro vive in ragione di quello messo in campo dai propri sodali. Se, come sostengono in un’intervista, Formal Growth in the Desert è il loro primo disco da ascoltare in cuffia (esperienza che vi invito caldamente a provare) il merito è corale. Da una parte c’è la crescita artistica dei Protomartyr, facilmente riscontrabile album dopo album. Dalla trilogia della ruvidezza abbaiata nei primi dischi all’implosione dark di Relatives in Descent, un punto di non ritorno che ha raffinato l’approccio compositivo poi sublimato in Ultimate Success Today.
Uno stile diretto e amabilmente ostico che permane tutt’ora inconfondibile nella sua immediatezza, nonostante qui risulti decisamente più elaborato e maturo grazie al ricorso a synth e strumenti inusuali e improbabili per un sound allarmante e abrasivo come quello dei Protomartyr, a partire da una rassicurante steel guitar usata spudoratamente in contesti noise. Un risultato che premia il lavoro superlativo di Greg Ahee in qualità di produttore. Complice lo studio di ricerca strumentale con le colonne sonore di cortometraggi coltivato durante i tempi morti della pandemia, il suo ottimo e appropriato gusto si riscontra non solo nelle fondamentali parti dello strumento che suona, ma anche nell’apparato compositivo tout court, allestito con un convincente intuito d’insieme grazie all’aiuto di Jake Aron, già dietro ai master di Snail Mail, Rahill, Solange e molti altri
Ma non c’è stato solo il Covid di mezzo. Casey ha perso la madre malata di Alzheimer. Si è sposato e, dopo esser stato vittima di svariati furti a ripetizione nell’appartamento in cui risiedeva, ha fatto armi e bagagli e si è trasferito nella sua vecchia casa di famiglia, fuori dal centro. Senza contare che oggi ha 46 anni e sapete cosa succede, a una certa età, alle persone inclini a vedere il bicchiere mezzo vuoto, prima di berlo. In un posto come Detroit, per giunta. I testi dei Protomartyr sono sempre più tele dai soggetti appena accennati da un tratto sferzante, scene in cui la sensibilità poetica e il realismo prosaico si confondono in un paradosso narrativo, in perfetta linea con i sussulti scombinati di armonie del tutto inusuali per gente di questo pianeta e in questa fase storica.
Il risultato, sono parole di Casey, è un testamento in dodici canzoni per andare avanti con la vita anche quando sembra impensabile. I Protomartyr però sono una vera band, nell’accezione sociale del termine. Una comunità consapevole delle sfide reciproche, in grado di mettere a fattor comune le debolezze dei singoli per l’accrescimento collettivo. Questo spiega la costante interoperabilità degli elementi che compongono la loro musica, sia che i testi presentino invettive politiche contro i rischi del tecno-capitalismo, sia che riguardino riflessioni sul diventare vecchi, aver paura del domani, o anche solo per parlare d’amore.
Formal Growth In The Desert vanta infatti anche il merito di contenere quella che probabilmente è la più bella canzone di tutte quelle composte dai Protomartyr nella loro storia, e non è un caso che “Rain Garden” sia stata messa a compendio di una tracklist studiata per un climax che lascia senza fiato. Diranno che è solo una canzone d’amore, è la premonizione di Joe Casey. Amore mio, fai strada al mio amore e baciami, baciami prima che vada via, sembra implorare. Ma il disco termina, Casey e soci se ne vanno sul serio, e ci lasciano attoniti e stupefatti, travolti da un fiume in piena. Ci chiediamo allora se sia vero: anche i Protomartyr hanno un cuore. Un punto di partenza, e un punto di arrivo. Si approda qui lungo una scalata alla perfezione in cui, una canzone dopo l’altra, si celebra l’ascesa verso un piano sempre più inaccessibile del precedente, passaggi propedeutici ad affrontare l’impervio stadio successivo.
I Protomartyr si confermano così uno dei progetti che meglio interpreta i tempi in cui viviamo con un’ottica, quella dell’occidente dai giorni contati, che non lascia scelta. Il paradosso di vivere, produrre e consumare sempre più a lungo, i rischi di perdita e di fallimento che crescono esponenzialmente, la serenità che siamo costretti a trovare in tutto questo. Formal Growth In The Desert è un album fuori dal comune, un formidabile atto di dolore, un’opera eccezionale così completa da prevedere persino, ma solo in chiusura e a sorpresa, un insperato barlume di speranza nel deserto interiore e globale in cui è stata ambientata.
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