Il giorno in cui i The National daranno forfait, i social saranno un luogo da evitare come la peste. Io spegnerò pc e telefono non tanto in segno di lutto quanto per tenermi alla larga dai coccodrilli di chi speculerà sulla caduta della band indie più influente nel panorama musicale di questo quarto di secolo.
Vi dico solo che ho perso il conto di quanti ellepì hanno pubblicato e da quanti anni sono attivi. Non saprei dire qual è il loro album che preferisco, con quale canzone li ho scoperti o quale sia il concerto che mi ha entusiasmato di più. Quante volte ho messo i loro dischi e di quali ho scritto la recensione. Sento un loro brano e faccio fatica persino a collocarlo cronologicamente, a ricondurlo all’album in cui è contenuto. I The National fanno parte di me, e se succede lo stesso per voi sapete bene a cosa mi riferisco. Come per il popolo di Springsteen o, in Italia, la fanbase di Vasco. In modalità differenti e su presupposti diversi, i The National sono i nostri beniamini per difendere i quali siamo pronti a farci esplodere. Dopo di loro, nulla sarà come prima.
Qualcuno tenterà di convincervi del contrario, alludendo a Matt Berninger che probabilmente si metterà al lavoro per il sequel di Serpentine Prison, o a Aaron Dessner che sarà sempre più richiesto come produttore dopo le fruttuose collaborazioni con Taylor Swift, Ed Sheeran, i Big Red Machine e gli svariati interpreti che beneficiano del suo approccio pessimistico e folk all’arrangiamento pop. O ancora al gemello Bryce, che ora vive in Francia e che continuerà ad approfondire le sue ricerche nel campo della musica classica e ai fratelli Devendorf, con i loro incastri ritmici unici al mondo prestati ai dischi altrui.
Abbiamo trascorso tutto questo tempo che è passato da quel capolavoro che è stato I Am Easy to Find divorati dall’angoscia. In mezzo c’è stata persino una pandemia mondiale che ha fatto piazza pulita di quel poco di ottimismo che sopravviveva tra le persone normali, figurarsi per gente incline alla depressione come i The National. Ma la materia prima di cui sono composti, a differenza di altre band di primedonne, ha fatto la differenza. Se i The National si scioglieranno, parole che non riesco nemmeno a pronunciare proprio come Fonzie quando doveva ammettere di essere in errore, sarà perché semplicemente si è consumata l’ispirazione. Nessuno scazzo, nessun battibecco tra musicisti adulti che hanno percorso insieme un lungo cammino, nessun desiderio di maggiore visibilità o di ripartizione dei ruoli o, peggio, questioni economiche. Solo e semplicemente vita che ha fatto il suo corso, un ciclo comune che investe in modo naturale gli esseri viventi.
È Matt Berninger stesso a confermare che ci sono andati davvero vicini, questa volta. Come mai avvenuto in precedenza, tra di loro si è diffusa la percezione che le cose fossero davvero giunte al termine. Poi è accaduto qualcosa che, se non fosse profondamente umano, diremmo che ha del miracoloso. La forza per continuare i The National l’hanno circoscritta all’interno della band. Ogni membro ha fatto da supporto per gli altri del gruppo e ha permesso ai compagni di viaggio una base di sostegno, una rete di solidarietà artistica e umana che ha contribuito a ribaltare la prospettiva. Un terreno fertile da coltivare con abnegazione, da cui hanno preso vita le nuove canzoni.
Una delle prime cose che ti insegnano ai corsi di scrittura creativa è che, per imparare a scrivere, bisogna saper leggere. Matt ha superato il blocco compositivo proprio grazie all’incipit del classico noir di Mary Shelley, da cui è stato tratto il titolo del concept. I cinque nel frattempo hanno continuato a frequentarsi, a suonare dal vivo e a circondarsi del loro entourage popolato da intellettuali del calibro di Sufjan Stevens, Phoebe Bridgers e Taylor Swift a dare, più che un contributo artistico, un supporto morale. Amici che intervengono quando c’è bisogno. Forse sono questi i presupposti da cui è scattato quel qualcosa di cui non siamo al corrente ma a cui saremo eternamente grati. I The National sono tornati al punto di partenza, e lo hanno fatto al meglio delle loro possibilità.
Detto ciò, ecco tre cose fondamentali per comprendere appieno questo disco. La prima: First Two Pages of Frankenstein ha un’impronta fortemente cantautorale, nell’accezione che intendiamo noi in Italia. Più di ogni altro dei loro lavori precedenti, qui la band si è messa completamente al servizio delle liriche e del ruolo di Matt Berninger. Troverete pochissime aperture strumentali, code o soli. Le ritmiche sembrano volutamente defilate, pronte a togliere il disturbo e a sospendersi per rendere ancora più incisiva la narrazione dei testi e aumentare la meraviglia di trovarsi da soli con la voce e poco più.
Le parole, infatti – e questa è la seconda – mai come in questo disco sono importantissime. Decisive. Matt Berninger è unico nell’arte di fermare immagini di solitudine, di coppia e di solitudini di coppia nei suoi versi. Gli arrangiamenti del resto della band aggiungono valore alle canzoni, scavando nella materia tutti gli spazi funzionalmente ricavati per le liriche. Ed è qui che si sprigiona la magia. Dalle tracce prende vita una serie tv a episodi, una raccolta di racconti pervasi di realismo a fornire un’esperienza d’ascolto che non ha confronti. Troviamo tentativi di ricucire storie in bilico, seduti a bordo di una piscina. Ci sono liste di cose da distribuirsi in due quando ci si separa, compresi i dischi dei Cowboy Junkies e degli Afghan Whigs. Si intravedono pacchetti aperti di American Spirits e scorci di intimità, con amanti vestite solo da una maglietta dei New Order, un gatto in braccio e in mano un bicchiere di birra. Si percepisce l’ottimismo fuori luogo di quando non c’è più niente da fare. Si sente il rumore del mondo nelle notizie che scorrono sullo schermo touch di uno smartphone, e il silenzio tra persone che non hanno più nulla da dirsi. Si assiste a meccaniche dichiarazioni d’amore al tavolino a fianco, in un diner qualsiasi. Si controlla insieme l’elenco delle cose di cui possiamo fare a meno, e si può essere d’accordo su tutto ma non sull’importanza di un buon impianto stereo. E c’è un viaggio nella testa dello scrittore, quando fa cilecca e non ne vuole sapere di collaborare, complice l’immaginazione che non si schiera più dalla nostra parte. Sotto, gli echi delle raccomandazioni di Carin Besser, compagna di vita di Matt che, amorevolmente, gli ricorda che la mente non è sempre nostra amica.
Dalla loro posizione di band più rappresentativa dei nostri tempi, i The National – artisti più che maturi all’apice della loro carriera – avrebbero potuto manifestarsi con tutta la loro sicurezza e la loro maestria compositiva (cosa che alcuni di loro fanno già abitualmente per altri interpreti), dare alle stampe un disco ancora più caratterizzante dei loro lavori precedenti, e consacrarsi definitivamente per ciò che sono. Quello che traspare, invece, è la sincera ammissione della fragilità del loro equilibrio, in un momento in cui non sarebbe stato possibile nasconderlo. Fare finta di nulla sarebbe stato un fiasco. Ed ecco, quindi, la terza cosa, ma l’avrete capito anche voi, se mi avete seguito fino a qui. First Two Pages of Frankenstein è il disco migliore dei The National. Il migliore, almeno fino al prossimo.