Il ritorno dei Daughter è la colonna sonora dell’equivoco di fondo dei tempi che corrono: viviamo a distanza nella speranza di rincontrarci ma ci facciamo bastare l’idea di farlo. Ci appaga di più e ci protegge dalla paura di rimanere delusi.
Potrebbe essere la trama di una di quelle serie tv in cui ci piace affogare compulsivamente il nostro senso di inadeguatezza alla vita contemporanea. In un presente distopico la musica è materia a tutti gli effetti, ma in forme che non riusciamo a cogliere. Si trova in quello che mangiamo, nell’aria che respiriamo, nelle cose che vediamo. Le persone più sensibili hanno qualche effimera reminiscenza o poco altro. “Io ti ho già visto da qualche parte”, si dicono quando si incontrano, e si allontanano fischiettando il solo di “Smells Like Teen Spirit”. “Dove ho già percepito questo odore?”, pensano con il naso per aria, senza però mettere a fuoco nulla di concreto, ma che c’entra qualcosa con i Massive Attack. Osservano il panorama sfuggente dal finestrino di un treno in corsa, provano una sensazione di già sentito ma non riescono a isolarla a fondo, forse un video dei Chemical Brothers. Solo un gruppo di nerd, una specie di setta ai margini dell’economia, riesce a separare sottobanco la musica dal resto e a organizzarla in canzoni attraverso dispositivi (a corde, a fiato, a tastiera) di cui solo loro si tramandano la tecnica. Conoscono anche il segreto di fermarla e fissarla su un supporto ed ecco che la musica può essere divulgata e compresa dalla gente comune. Il senso è che le canzoni sono sempre esistite, da qualche parte e in qualche tempo. Semplicemente non siamo abbastanza evoluti da accorgercene. Fine.
Anzi, no. Prendete il nuovo album dei Daughter. Le tracce di cui è composto ci sono sempre state. Le abbiamo ascoltate più volte, negli ultimi trent’anni. Ma solo ora che sono state definite con un inizio e una fine e codificate in una forma da noi decodificabile, ci viene chiesto di ascoltarle per la prima volta, ed ecco che ci viene da dire che no, non è vero. Stereo Mind Game fa parte della nostra collezione di dischi da sempre. Ma come fare a provarlo?
Possiamo procedere per tentativi. Il fatto che la band sia riconducibile a un genere che si chiama dream-pop non vale. Sarebbe riduttivo banalizzare un gesto di così profondo valore artistico alla sola dimensione onirica. A mettere in discussione le leggi della fisica nei sogni siamo capaci tutti. Lasciamo stare anche il gioco delle somiglianze a tizio o a caio. Ok, anche nei Portishead e nei Cocteau Twins ci sono gli archi, un incedere rallentato e una voce femminile, ma da voi pretendo di più. E il fatto che i Daughter si prestino alla sonorizzazione di videogiochi può essere rilevante, ve lo concedo. Ma non è solo questo.
Senza contare che i Daughter sono cintura nera di malinconia. Campioni del mondo di spleen. Eppure, non sono io a dirlo, rispetto a due titoli-manifesto dell’assenza come If You Leave e Not To Disappear qui c’è una vaghezza di ottimismo/realismo. Anni dopo l’ultima pubblicazione, Elena Tonra, Igor Haefeli e Remi Aguilella lavorano a distanza per scelta sul nuovo materiale. Poi la pandemia sovverte (a loro come a tutti noi) le priorità, ed ecco che mantenere i contatti in isolamento si consolida in metodo.
La musica d’insieme, che è un amalgama di voci, quando si ferma a mera somma delle parti si snatura, e non necessariamente con un’accezione negativa. La sfida è mantenere il controllo, rendere il risultato organico per quanto possibile. Ed ecco che, laddove non può esserci l’effetto che solo l’ascolto reciproco in tempo reale con gli strumenti in mano può conferire a un pezzo, il parziale sovvertimento dei canoni compositivi tradizionali ci apre le porte di un nuovo genere. Questo processo in cui si applicano in modo asincrono strati di cose l’uno sopra l’altro somiglia molto alla composizione di musica per film. E forse è questo che ci rende così famigliare Stereo Mind Game. Uno scherzo che ci gioca la nostra mente, facendoci credere che qui, in questo disco, ci siamo già stati. Non abbiamo traccia di quando, ma siamo sicuri di esser stati noi i protagonisti.
Il risultato è che in Stereo Mind Game il tema della separazione, dell’assenza e del desiderio di ritrovarsi è reso ovunque e in modo efficace. L’album ci accoglie con i bicordi di chitarra trattati con il delay di “Be On Your Way”, un approccio che mette l’ascoltatore nelle migliori condizioni per assumere la forma più adatta a quello che sta per accadere. Il pattern di batteria, un vero cliché del genere con tutti quei colpi in più di rullante che inducono alla sicurezza che il benessere che stiamo provando non ci lasci alla misura successiva, conferisce quel senso appagante di ciclicità e ipnotica ricorsività che poi è l’aspetto che più di ogni altro ci illude di far parte del ritmo a cui ci viene chiesto di abbandonarci, come in quei giochi in cui chiudiamo gli occhi e ci lasciamo cadere all’indietro consapevoli che qualcuno ci sorreggerà. Una tecnica sagace, ripresa magistralmente nella straordinaria “Swim Back” e, in maniera più sommessa ma altrettanto convincente nelle conclusive “To Rage” e, su tutte, “Wish I Could Cross The Sea”.
Ci sono poi tracce in cui i Daughter si propongono invece in un’anomala linearità ritmica che si riflette in una forma-canzone più scorrevole ma altrettanto angosciante, a iniziare da “Party”, da un verso della quale è tratto il titolo dell’album, fino ai turbamenti di “Junkmail” e alle domande senza risposta di “Future Lover”: come è il futuro? C’è abbastanza tempo? C’è spazio anche per brani riconducibili al folk etereo che abbiamo apprezzato nei dischi precedenti, come “Neptune”, il cui coro finale rasenta la perfezione, la quasi totalmente acustica “Isolation” e “Dandelion”, capace di accelerare i battiti e confermare che in velocità si riesce ad essere più sfuggenti nel modo di suonare e cantare musica indie-folk.
Il fiore pressato nella foto della copertina di Stereo Mind Game, una pratica per sognatori d’altri tempi, anni luce dai sospiri digitali che affidiamo agli algoritmi e alle intelligenze artificiali, incarna perfettamente l’anima di questo disco e degli anni controversi che ci stanno consumando. Noi, esseri umani lasciati soffocare come una pianta tra le pagine di un libro. Ciò che resta è solo la nostra forma priva dell’essenza a beneficio di chi lo sfoglierà o, peggio, come natura priva di vita, scelta a corredo di un erbario qualsiasi. A una decade esatta dal loro disco d’esordio, i Daughter ripropongono la loro poetica con una visione più matura, giustamente disincantata, ma ancora in grado di farci trovare rifugio in un altrove volutamente distante da qui.