Non dovremmo riflettere sul nostro peccato originale – quello di essere bianchi in un sistema economico, politico e sociale bianco – solo quando esce un nuovo disco degli Algiers. Il punto è che blues/rap e punk industriale, combinati insieme, li percepiamo ancora come una forzatura e ascoltiamo le loro canzoni permeati dal senso di colpa di non riuscire a considerarlo un genere a sé.
Siamo già al quarto disco ma, da quello che si legge in giro, si fa ancora fatica a non considerare ostico l’attrito provocato dalle graffianti melodie soul/black di Franklin James Fisher nell’istante in cui entrano in collisione con le basi così maledettamente noise/punk degli Algiers. Un approccio beffardamente recidivo che induce a una sola interpretazione: l’intento è far provare disagio all’ascoltatore. Mettere la gente in allarme. Farci evacuare dalla comfort-zone della trasgressione ordinaria.
Il punto è che anche il prodotto della musica più estrema, quando nella fase di confezionamento si mettono insieme cose differenti, risulta una sorta di miscuglio omogeneo, una soluzione in cui le sostanze sonore di partenza non si riescono più a distinguere. Per gli Algiers la cosa si fa più complicata perché siamo invece nell’ambito delle emulsioni: uno strato resta ben visibile in superficie e anche quando lo bevi – aggiungerei “soprattutto”, quando lo bevi – si distinguono perfettamente sul palato persino le quantità di gospel, di rap, di jazz, di R&B e i cubetti di spoken word. Non ci sono dubbi, da questo punto di vista. Nella discografia degli Algiers, “Shook” è probabilmente il più dissonante dei quattro, una scossa che fa tremare le ginocchia.
Non so a voi, ma per me questo non costituisce affatto un problema, anzi. L’apparente dicotomia tra bianco e nero è incisa a chiare lettere nel manifesto della band di Atlanta sin dall’omonimo disco d’esordio e se, a quasi dieci anni di distanza, siamo ancora a parlarne in questi termini, sarà per questa ragione che la loro musica, al momento, non teme concorrenza. Come loro, ci sono solo loro.
Smarchiamo subito gli onori di casa. “Shook” è un disco pieno di featuring così riuscite da far passare ai neofiti più sprovveduti gli Algiers come un collettivo, più che un quartetto. In ordine di apparizione c’è l’outro a parole di “Everybody Shatter” recitate da Big Rube, artista che poi ritorna a declamare il minuto e rotti di “As It Resounds”. Un paio di strofe e il rinforzo del ritornello di “Irreversible Damage” a cura di Zack de la Rocha. I contributi rap di Billy Woods e Backxwash ad aggiungere valore al capolavoro di “Bite Back”. I cori di Samuel T. Herring dei Future Islands e il rantolo di Jae Matthews dei Boy Harsher in “I Can’t Stand It”. I versi di LaToya Kent (una delle vocalist del collettivo Mourning [A] BLKstar) in “Born”. Il bridge in egiziano di Nadah El Shazly in “Cold World”. Il sax di Patrick Shiroishi e la voce di DeForrest Brown Jr. in “An Echophonic Soul”. La coda della traccia di chiusura “Momentary”, affidata ai versi di Lee Bains. Presenze così protagoniste da condividere la parte centrale della cover, insieme al titolo.
Ed è anche grazie a questo assembramento militante che “Shook” risulta un cupo progetto permeato di rabbia e di riscatto, di rivalsa ai soprusi. Non sorprende, se già sono gli Algiers in sé a essere un concept, prima che una band, con un nome che incarna la ribellione al colonialismo e il sacrificio per l’emancipazione. Percepirli al netto di questa dichiarazione d’intenti/fondante pregiudizio ne diminuirebbe la portata deflagrante. Dell’ottimo quarto lavoro colpiscono l’elettronica a tinte industrial, la chitarra sferzante e lo spazio che giustamente viene lasciato al gusto e alla tecnica di Matt Tong, batterista fuori dal comune cresciuto nei Bloc Party di “Silent Alarm”. E poi l’anima di Franklin James Fisher, la sua voce e le sue parole, il suo essere Algiers senza soluzione di continuità, le sue melodie profondamente soul.
La struttura delle canzoni è fuori da ogni convenzione. Prendete la ritmica e i cluster di pure onde sinusoidali su “Irreversible Damage”, la drum’n’bass de-costruita e pronta a compattarsi in velocissimo post-punk di “73%”, il rigore di “Cold World”, la trap tutta arpeggiatori e synth di “Bite Back” e il suo ritornello motown, il punk di “A Good Man” e quella promessa di muro di suono che viene mantenuta solo troppo tardi, il dub scombinato di “Something Wrong” con quel gioco di pitch che vira verso il basso e quel modo di suonare fuori tempo che mette alla prova anche i temperamenti più pazienti, i mille volti di “I Can’t Stand IT” e l’ossessività della proposta dei cori gospel che si sprigionano un po’ ovunque per sublimare negli accordi jazz di “Green Iris”, un brano con un finale che toglie il fiato, e in “Momentary”, la traccia conclusiva che ci fa ripartire da capo, dalle radici della tragedia della comunità afroamericana da dove tutto, Algiers compresi, è iniziato.
“Shook” è, ancora una volta, un disco pensato per risultare impegnato e impegnativo. È un tentativo di dare voce a un mondo abitato da oppressi che nessuno di noi, da questa parte del pianeta e attratto da questo genere di ascolti, è in grado di comprendere appieno. Rispetto alla nostra realtà, nei suoni e nelle parole, gli Algiers si confermano degli alieni. Io li adoro, ma riesco ad andare poco oltre la dimensione musicale. Se riuscite a goderveli così a fondo da lasciarvi condurre nella perfetta sintonia che i loro brani richiedono, sappiate che vi invidio moltissimo.