disordinati

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La narrazione che impone che i bambini debbano restare relegati nel loro mondo di unicorni e babbi natale vede entusiasti e detrattori anche tra le fila dei pedagogisti e psicologi dell’età evolutiva più titolati, figuriamoci tra la bassa manovalanza che finanziate con le tasse affinché si badi al babysitteraggio dei vostri figli mascherato da scuola pubblica.

Qualche giorno fa, in mensa, mi si è avvicinata Cecilia. Teneva le mani giunte al petto, come si fa nelle fasi parossistiche delle funzioni sacre. Le ha aperte solo al mio cospetto, mostrando tra i palmi un tovagliolo di carta inzuppato di sangue. “Maestro”, mi ha detto con quell’espressione che sa fare solo lei, siamo in quarta, come se dovesse improvvisamente ruotare la testa di 360 gradi, vomitare a spruzzo la pasta pasticciata e parlare al contrario secondo i migliori cliché dei film horror. “Maestro, mi è caduto un dentino”.

In un istante mi è passata davanti tutta la mia vita precedente come dicono che accada in punto di morte. Ho pensato a quando sedevo ai tavoli degli amministratori delegati per definire insieme le loro strategie di comunicazione o quando intervistavo i rettori degli atenei più innovativi per farmi raccontare le sessioni di tesi di laurea in videoconferenza con le università dall’altra parte del mondo. Un istante solo, e poi sono tornato a quella conversazione surreale, io di fronte a Cecilia e al suo dentino insanguinato. “Vuoi gettarlo via o tenerlo per la fata dei dentini?”, le ho rivolto la domanda cercando di mostrarmi il più serio possibile. “No, voglio tenerlo per la fata dei dentini”, mi ha risposto Cecilia, quasi risentita del fatto che pensassi che esiste al mondo qualcuno disposto a disfarsi di una parte di sé e compiere un sacrilegio di empietà senza confronti. Un immotivato sentimento di irriconoscenza a fronte del massimo di gentilezza che, in quel momento, mi sono forzato a dimostrare.

Mi ha punto sul vivo, così stavo per ricordarle che i denti da latte sono forse l’unica cosa che si separa dal nostro corpo e poi ricresce meglio di prima, una grazia di cui però ci è concessa una sola chance. Ma poi non me la sono sentita di mettere Cecilia di fronte alla realtà dei fatti. Anzi, avrei potuto sottolineare, arriverà un giorno in cui, se perdi un dente, dovrai lavorare diversi mesi per avere i soldi per rimpiazzarlo con uno fittizio. Ah Cecilia, dimenticavo: la fatina dei denti è una balla grande come questa mensa che ti hanno raccontato i tuoi genitori perché, a loro, l’hanno raccontata i tuoi nonni dopo che anche i tuoi bisnonni avevano fatto lo stesso proprio perché, come dicevo sopra, la corrente pedagogica da sempre più in voga è quella che vuole sviluppare una scenografia di realtà aumentata intorno ai nostri figli per rimandare il più possibile in avanti lo scontro con l’amara realtà reale degli adulti.

L’episodio del dentino di Cecilia è accaduto a ridosso della Giornata della Memoria e ha riaperto in me – come accade sempre nei giorni che precedono la ricorrenza da quando faccio l’insegnante – i soliti annosi dubbi. A che età possiamo iniziare a mostrare la ricca documentazione che ci testimonia gli orrori e le nefandezze dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani nei confronti di civili innocenti durante la seconda guerra mondiale? I bambini – quelli che frequentano le sale immersive dei cinema con il dolby surround per seguire complicatissimi film di supereroi intrisi di violenza, effetti speciali e in cui spesso non si va tanto per il sottile nell’ostentare la morte e il dolore – possono impressionarsi se esposti alle fosse comuni traboccanti di corpi straziati nei campi di sterminio? Per tenersi alla larga da situazioni pericolose – mi viene in mente il caso della collega che ha mostrato “Love Actually” a un pubblico di quinta elementare, bambini cioè che probabilmente conoscono già, grazie ai fratelli più grandi e agli amichetti più sgamati, la varietà delle categorie di PornHub – c’è tutta una letteratura pensata da gente più esperta di me e voi per traghettare i più piccoli dagli unicorni e babbi natale agli esperimenti sui corpi degli esseri umani del dottor Mengele.

Cartoni animati e film che declassano gli orrori del secolo breve a uno sfondo sul quale si dipanano storie che, di certo, si svolgono come conseguenza ma in cui le brutture che dovrebbero essere il nocciolo della questione sono ridotte al rango di chiose. Anzi, meno di chiose. Un posto che, peraltro, sarebbe già occupato egregiamente dal “Diario di Anna Frank” se non fosse che, di questo libro, non ne è mai stato tratto un film significativo, per non parlare di una serie Netflix (che, lasciatemi dire, sarebbe un prodotto di sicuro successo). Il passo successivo, voi mi insegnate, potrebbe quindi avere come testo di riferimento “Se questo è un uomo” alla secondaria di primo grado, seguendo una scala di propedeuticità della tragedia. Un palinsesto che svecchierebbe un po’ la retorica della Giornata della Memoria riportandone il focus sul fattore centrale che racconterei così ai miei alunni: l’umanità, a un certo punto della storia, un momento nemmeno troppo distante in cui i vostri bisnonni potevano scegliere da che parte stare, è impazzita, e ci sono tutti i presupposti che accada di nuovo.

In giornate come questa, insegnare materie dell’area logico-matematica può costituire una fortuna ed esimere il docente dall’esporsi in rischiose prese di posizione. La collega di religione ha mostrato un cartone disponibile su RaiPlay (che peraltro avevo già fatto vedere io in seconda), quella di italiano si è occupata di alcune letture sul tema. Io ho preferito riportare i miei alunni con i piedi per terra e ho dato loro un’informazione incontrovertibile: la shoah non è stata una favola, la vita non è affatto bella.

Da lì ho collegato – era l’ora di musica – la storia del “Quatuor pour la fin du temps” per tornare a essere marginale all’orrore dei campi di sterminio e mettermi al riparo da eventuali genitori elettori di Fratelli d’Italia, che facendo un calcolo della percentuale considerando due persone per 19 alunni, nella mia classe dovrebbero essere almeno una dozzina. Il “Quartetto per la fine del tempo” è l’apocalisse in musica, composta da uno che aveva capito come sarebbe andata a finire a ridosso dell’apocalisse degli uomini. Ho proposto quindi l’ascolto di qualche minuto della composizione di Olivier Messiaen. Date le premesse – li avevo già traumatizzati a sufficienza con i più cruenti aneddoti su Auschwitz – non è volata una mosca. I miei bambini – come immagino i vostri – sono davvero sorprendenti. Ho chiesto poi l’impressione che ne avessero avuto e qualcuno ha colto perfettamente lo spirito del brano: un’esecuzione senza tempo (intendevano il ritmo) e, soprattutto, molto disordinata.

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