L’autonomia è un aspetto fondativo della scuola italiana in entrambe le accezioni sia di autonomia dei singoli istituti sia libertà di insegnamento dei singoli docenti. Per questo dobbiamo andarci piano quando parliamo – a me scappa sempre – di scuola come organizzazione, nel senso di azienda, un luogo cioè in cui le individualità professionali (ciascuna con le proprie peculiarità) concorrono a una finalità comune. Sia chiaro: tutti noi lavoriamo per fornire a bambini e ragazzi la più efficace esperienza didattica possibile per consentire a chiunque, secondo una logica inclusiva, di raggiungere gli obiettivi definiti nell’offerta formativa. Il punto è che in una struttura così articolata e capillare ogni cellula fa quel che vuole, e mi riferisco a chi sta dietro alla cattedra (modello didattico, approccio alla materia, stile di insegnamento eccetera eccetera) a seconda di svariati fattori. I primi che mi vengono in mente sono: attitudine alla professione, carattere, background esperienziale, background formativo, umore, serenità interiore, buon senso, condizioni economiche, ambiente, colleghi, appagamento nella vita privata, rancore accumulato, condizioni fisiche, condizioni psicologiche, capacità di avviare, coltivare e gestire relazioni interpersonali, buon senso, curiosità, disponibilità a mettersi in gioco costantemente, flessibilità, resilienza, pazienza, carisma, attitudine al comando, attitudine a mettersi al servizio di altri, capacità di riconoscere gli ambiti operativi dei vari stakeholder, disponibilità a sottoporsi a perpetuo aggiornamento, e molto altro.
Non è raro trovare quindi qualcuno che fraintende questa complessità per una condizione in cui una volta chiusa la porta dell’aula ognuno fa quel cazzo che vuole. Da docente mi dissocio da affermazioni di questo tipo, ma per qualche minuto – giusto il tempo di giungere all’ultima riga di questo post – facciamo pure finta che sia così. D’altronde non puoi mettere d’accordo decine di migliaia di prof di italiano sul territorio nazionale – per fare un esempio – e imporre per statuto di fare questo, questo e quest’altro canto dell’Inferno anziché quello, quell’altro e quell’altro ancora. A volte non si riesce nemmeno quando ci si trova a programmare gomito a gomito un percorso comune. Come valuteresti Carletto che ha recitato a memoria “L’infinito”? È meglio usare come esempio di moltiplicazione 35×7 o 46×8? È impossibile misurare gli aspetti rarefatti che costituiscono l’essenza dei lavori che hanno a che fare con cultura, sviluppo intellettivo e altre amene caratteristiche degli esseri umani, almeno fino a quando cose come ChatGPT non si ribelleranno a chi le ha inventate e ci scaraventeranno fuori dal pianeta Terra.
Al numero uno della classifica di questi modi di sentire la scuola difficili da conciliare c’è la percezione dei compiti a casa da parte delle famiglie, soprattutto nella variante compiti delle vacanze. Io ne do pochissimi nel weekend perché i miei bambini li metto sotto durante le lezioni e preferisco che si godano il tempo libero per quello che è. Nelle vacanze invece richiedo un impegno maggiore perché, per chi è rimasto un po’ indietro, il rischio dell’effetto tabula rasa al rientro è un dato di fatto. Questo per dire che ho calcato un po’ la mano per la pausa natalizia che terminerà tra qualche ora. Poco fa il papà di uno dei miei alunni di maggior talento mi ha scritto per chiedermi “di moderare le eventuali richieste di espletamento dei compiti assegnati ai ragazzi”. Mi ha quindi ricordato che “il periodo di vacanza è pensato per lo svago, il relax e la famiglia”, aggiungendo che si aspetta che, nell’immediato rientro, “nulla venga richiesto se non una condivisione delle esperienze passate”. Ora chiedo a ChatGPT la migliore risposta da mandargli.