Quando faccio la solita cernita in classe dei generi conosciuti dai bambini raramente c’è qualcuno che cita la techno. Trap e rap sono i primi due a essere smarcati, e a ruota i più spregiudicati si assicurano, nei successivi tre o quattro interventi, pop, rock, metal, musica classica e jazz. In mezzo a questo brainstorming c’è sempre qualcuno che prende cantonate, che poi sono sempre le solite: musica italiana, musica romantica, musica strumentale, musica dei cartoni animati, che tutto sono tranne dei generi musicali, ma alla techno non ci arriva nessuno. Mi è successo ancora venerdì: una collega si è presa il Covid – a cosa servono, tanto, le mascherine – ed è toccato a me sostituirla proprio nell’ora di musica. Siamo andati a fondo fino al punk e al reggaeton, per dire, ma di techno nemmeno l’ombra ed era un problema, perché volendo spiegare cos’è il ritmo avevo in playlist un paio di brani dal flavour inequivocabilmente cassa dritta. Il punto è che i trenta-quarantenni di oggi, che sono i genitori dei bambini che ho per le mani a scuola, sono nati e cresciuti con la techno ma probabilmente non la praticano più. Mi sorprende, quindi, quando leggo che ci sono ancora centinaia e migliaia di persone che partecipano ai rave party. Nei servizi dei tg di questi giorni si sentiva come sottofondo quell’indiscutibile marchio di fabbrica in quattro quarti, artificiosi e così spediti che, per stare a tempo, finisce che è meglio stare fermi. Non a caso, nel capannone della disco-rdia un sacco di gente stava lì, imbambolata e attonita, con il bicchiere in una mano e la siga tra le dita dell’altra, rapita a scrutare il suono guizzare impalpabile tra le vestigia dell’archeologia della logistica che fu. Non è la prima volta, né sarà l’ultima, che la folla si raduna in massa al richiamo della musica discutibile.