economia di scala

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Zhai è il mio alunno cinese campione mondiale di induzione a stereotipi. Il papà ha un nome italiano così improbabile per un italiano da fare il giro e attestarsi tra i nomi di cinesi in Italia più diffusi. Fa l’imprenditore e lui e la moglie hanno due auto che, insieme, fanno cinque anni di stipendi del maestro del loro figlio. Zhai parla così male la nostra lingua che si esprime a frasi che sembrano una trasposizione automatica in una versione inglesizzata dell’italiano, senza maschili e femminili, coniugazioni e declinazioni. Anche per questo, Zhai sembra un bambino digitalizzato da sovraesposizione ai dispositivi elettronici e poi convertito in testo dall’OCR di un algoritmo cheap. Però ormai siamo in quarta e la DAD non c’entra nulla se non è migliorato di un centimetro dalla prima, così abbiamo gettato la spugna e imparato a capirci lo stesso, una convenzione tra di noi che vige per salvare il salvabile.

Con una di quelle fuoriserie, con la mamma al volante vestita come una cosplayer della fashion week, me lo ritrovo spesso dietro nel pezzo di strada che percorriamo insieme all’uscita da scuola. Me lo fa notare Zhai stesso, il giorno dopo. “Maestro, ieri noi dietro seguire te strada casa”. C’è stato però un passo in avanti. Fino allo scorso anno sembrava quasi vergognarsi delle proprie origini, fingeva persino di conoscere gli involtini primavera. Quest’anno la mamma gli impone di imparare a memoria un verso di una poesia in mandarino al giorno e mi scrive persino qualche parola nei suoi ideogrammi sui fazzoletti di carta che poi appendo in classe. Sta sempre da solo, in mensa tiene le distanze e siede nel punto del tavolone in cui può mangiare il più lontano possibile dai compagni, detesta lavorare in coppia o in gruppo e il massimo della socializzazione – non dimentichiamo che anche se cinese è di base un maschio – è giocare a palla nell’intervallo lungo con gli altri. A casa, i fine settimana li trascorre da solo con i fratelli e un paio di cuginetti cinesi che hanno due nomi nelle due lingue proprio come lui.

I suoi parenti sono un cliché di quello che pensiamo facciano i cinesi in Italia. La zia gestisce un ristorante, lo zio con la moglie (cinese) lavora in una rivendita di articoli di telefonia e cover, ci sono anche dei cugini del padre che vendono vestiti al dettaglio e i nonni hanno quello che lui chiama un magazzino, che poi ho scoperto essere uno di quei giganteschi bazar di roba cinese dove si trova di tutto. La mamma lo porta spesso al magazzino, da dove torna pieno di giochi cinesi che poi, immagino, si rompano dopo qualche settimana ed è per questo che l’esperienza si ripete in modo periodico. Ieri mi ha detto di esser stato al magazzino a prendere per sé e per il fratellino il monopattino. La prima volta in cui mi ha parlato del magazzino ho pensato fosse una storpiatura di grande magazzino, la locuzione con cui negli anni ottanta definivamo i centri commerciali sull’onda dall’archetipo costituito dalla Rinascente che, comunque, resta un’altra cosa. Invece no. Se chiediamo di portare lo scottex Zhai arriva con una sottomarca da discount, stesso discorso per calcolatrici, compasso e altro materiale scolastico. Poi, parliamoci chiaro: che anche i proprietari della cartoleria si riforniscano al magazzino della famiglia di Zhai è un dato di fatto, quindi non è che gli altri in classe abbiano in dotazione materiale da boutique.

Questa dinamica trova poi la chiusura del cerchio nel modo in cui lo vestono, se pensiamo che abbigliamento cinese oggi è diventato un vero e proprio stile. Se mettiamo insieme le possibilità economiche della famiglia con la disponibilità di indumenti a cui hanno accesso unita alla velocità con cui i mocciosi crescono e al ciclo di vita irrisorio – dovuto alla qualità – di quel vestiario, ogni mattina faccio caso al suo look e vederlo più di un paio di settimane con le stesse cose addosso è impossibile.

Eppure, nonostante tutti questi stereotipi che ho sviluppato nei suoi confronti, Zhai me lo ritrovo sempre appresso con la sua voglia di raccontare, sempre nella sua lingua inventata. Viene alla cattedra in continuazione, o dal banco mi fa quella richiesta di avvicinarmi che usa solo lui, con tutta la mano e non solo con l’indice, perché è un bambino e scoppia dal desiderio di farmi sapere, di mettermi al corrente, di chiedere il perché, di farmi vedere quanto è bravo e intelligente. A casa l’italiano, anche se è la lingua ufficiale del business cinese in Italia, lo praticano poco e questo è un peccato. Ho addirittura pensato che qualcuno gli abbia insegnato a non mescolarsi troppo, proprio come ci insegnano gli stereotipi più crudeli, ma anche se fosse sarebbe un comportamento di cui non ho ancora compreso l’esigenza e le finalità.

Un pensiero su “economia di scala

  1. La descrizione di Zhai è sovrapponibile a quella di Elisa, la mia alunna, e dei tanti alunni cinesi iscritti nella mia scuola ( ex). La loro comunità è ristretta ai soli cinesi e difficilmente accettano di aprirsi agli italiani, se non per motivi di lavoro. Naturalmente i bambini sono quelli che ne risentono maggiormente e vivono situazioni di vero disagio. Abbiamo dovuto segnalare, agli assistenti sociali, il fatto che Elisa dorme, durante le ore di lezione, un sonno pesante e incolpevole perché invece di vivere come una qualsiasi ragazzina, rimane fino a notte fonda nel capannone dove i suoi genitori fanno i padroni di un gruppo di connazionali lavoranti schiavi. Non abbiamo ben capito se anche lei è impegnata nel lavoro. Come Zhai anche lei trascrive, ma lo fa in classe, quando è sveglia, compilando pagine e pagine di minuscola scrittura cinese che, tradotta con il mio smartcoso, rivela una storia molto romantica tra una lei e un lui. Se non trascrive smanetta con piccolissimi fogli colorati ed elabora impegnatissimi origami – una capacità che le invidio tantissimo. Di tanto in tanto veniva in fondo all’aula a regalarmeli, gli origami…

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