Una delle prime raccolte di racconti che ho scritto si chiamava “Sequencer, campionatori e puttanate varie”, un titolo indiscutibilmente alla portata di una unica categoria di persone, gli addetti ai lavori dell’ambiente musicale, che deriva dal modo in cui un cantante sassofonista con cui ho condiviso il palcoscenico diverse volte in un periodo circoscritto della mia vita demonizzava il rapporto tra tecnologia e musica.
I sequencer e i campionatori sono state tra le prime macchine ad affermarsi nel settore come ausilio per chi suona, nel corso degli anni ottanta. Non sto a spiegarvi nei dettagli la loro funzione perché ha un ruolo meno che marginale in questa storia. Potete però immaginare il sequencer come un hardware dedicato da collegare alle tastiere e ai sintetizzatori, sul quale è possibile memorizzare linee di note e accordi da inviare come input per pilotare e far suonare gli strumenti da soli, mentre i campionatori – più evoluti – permettono di registrare suoni (della durata variabile a seconda della memoria di cui sono provvisti) per poi riprodurli tali e quali o modificati. Oggi tutto questo è stato soppiantato dal computer, per questo posso affermare che la persona che si riferiva alla tecnologia musicale banalizzando l’evoluzione del settore attraverso dispregiativi ed epiteti generalizzanti ci aveva però visto lungo, perché sottintendeva il fatto che, prima o poi, le macchine avrebbero fatto piazza pulita del ruolo umano nella musica.
E, se ci pensate bene, è andata proprio così. La trasformazione digitale ha spazzato via l’industria musicale in un modo così ingegneristico da far sembrare ciò che è accaduto frutto di una metodicità senza precedenti, una sorta di soluzione finale, una vera e propria opera di pulizia artistica. L’evoluzione tecnologica, tra i numerosi impatti nel settore che ha generato, ha svilito la musica rendendola così facilmente fruibile e ordinaria e così a portata di mano da far risultare superfluo ogni tipo di intrattenimento basato su di essa, aspetto che invece prima costituiva un’eccezionalità che un ascoltatore o spettatore era disposto a pagare in quanto momento d’incontro tra domanda e offerta, proprio come nelle dinamiche di mercato di un qualsiasi altro processo produttivo ed economico che comporti la creazione e la conseguente vendita di un manufatto.
Ma non voglio metterla su un piano etico, non mi sembra questo lo spazio adatto. Di certo, quando sequencer e campionatori (e puttanate varie) non costituivano ancora una minaccia a un mestiere più che dignitoso e assumevano ingenuamente solo le sembianze di apparecchiature di ultima generazione in grado di facilitare l’esercizio di una professione, quello del musicista era un lavoro come tanti altri. Certo, per arrivare al successo ci voleva molto studio, sacrificio, talento, determinazione, una gran faccia tosta spacciata per carisma e un pizzico di fortuna. Invece era sufficiente un po’ di tecnica e di serietà per poter essere ingaggiato in un gruppo ed esibirsi – pagato in nero o con regolare contratto e contributi versati – nelle sale da ballo, nelle manifestazioni come le sagre di paese e vari festival dei partiti politici, fino ai locali con intrattenimento dal vivo e i pianobar, o i ristoranti e gli alberghi che organizzavano eventi come matrimoni, veglioni di fine anno e feste di vario tipo.
Questo sottoinsieme di semiprofessionisti dello spettacolo era costituito da figure riconducibili alla categoria degli operatori dei servizi alla persona di strutture ricettive e turistiche, lavoratori accomunati ad altri come il personale di sala e i camerieri, a partire nell’utilizzo delle divise da lavoro fino al fatto di avere turni coincidenti con il tempo libero altrui, al servizio cioè di persone in momenti in cui chi fa un lavoro ordinario ricerca lo svago con i suoi cari. In generale, un fattore lesivo della dignità del musicista, aggiunta di competenze specifiche in campo artistico finalizzate al divertimento e all’esperienza emotiva (possibilmente piacevole) dell’utenza finale.
Ma questo non costituiva un problema: l’importante era portare a casa, a fine serata e indipendentemente dal genere musicale richiesto ed eseguito, il compenso pattuito con gli organizzatori. I gruppi con almeno quattro o cinque elementi erano identificati come orchestre, e i loro componenti definiti addirittura orchestrali proprio come quelle signore in abito da sera o quei signori in giacca e papillon che calcano il palcoscenico dei teatri con qualcuno che li dirige e non chiedetemi il perché. Si suonava principalmente musica da ballo – liscio, dance, latino/americano – e, in casi particolari, canzoni da ascolto attivo, da meditazione o da sottofondo neutro per altre attività.
Gli spettacoli prevedevano una sigla iniziale e una finale e, malgrado i membri fossero poco meno che mercenari pronti a cambiare casacca per un ingaggio superiore e condizioni più convenienti, ci si arrogava dignità proponendosi con un nome in grado di trasmettere l’essenza e la vision stessa del progetto in sé. Nel corso di circa dieci anni ho suonato:
- nel Pentagono (costituito cioè da cinque elementi)
- nell’Equipe dell’Allegria (che doveva recare spensieratezza attraverso il ballo)
- nei Veterani del Folk (ottuagenari con qualche occasionale giovane rincalzo in caso di decesso dei membri fondatori)
- e negli Idea Fissa (gente di mezza età che dovrebbe occuparsi di attività come tutte le persone normali ma che, invece, ancora si sbatte ossessivamente mossa da una passione malata e compulsiva per la musica per trovare date e mostrare la propria tecnica virtuosistica o, peggio, il proprio talento, a un pubblico totalmente disinteressato),
al netto di decine di combinazioni ed ensemble temporanei. Le formazioni variavano così a seconda della specializzazione e altri fattori, ma in genere comprendevano una sezione ritmica, tastiere (con puttanate varie a corollario, ça va sans dire), fisarmonica, chitarra, uno o più strumenti a fiato, in un caso ho trovato in formazione addirittura un violinista in pensione – un malato di mente che si conciava da ufficiale nazista in missione nel deserto – una o più voci femminili e una o più voci maschili.
Agli albori lo presi come un lavoretto per pagarmi gli studi all’università ma poi, acquisita dimestichezza, esperienza e soprattutto assuefazione ai soldi facili, mi ci sono dedicato fino ai tempi della mia prima vera occupazione in parallelo, come forma aggiuntiva di arrotondamento per il magro stipendio ufficiale e l’obiettivo di dare maggiore sicurezza alla mia indipendenza, ancora acerba. Rientravo dalle serate poco prima dell’alba e alle nove ero in ufficio, pronto a macinare codice software.
Ed è stato proprio il leader fondatore del Pentagono, la prima delle orchestre di musica da ballo in cui ho militato, l’artefice dell’attacco luddista che ha ispirato diverse storie tra cui questa, una farneticante crociata contro i dispositivi rei di retrocedere in secondo piano lo spessore artistico del musicista. Nei battibecchi frequenti in cui ci siamo confrontati prima e dopo le esibizioni – ammettevo spudoratamente la provvisorietà e la precarietà di quel primo impiego mentre lui, nella vita reale un venditore ambulante di abbigliamento di un paio di generazioni più grande di me e appassionato di canzoni dialettali, intendeva l’orchestra come una sorta di missione – di rimando pensava di ferirmi soffiando sul fuoco del senso di colpa di suonare le tastiere con una mano sola (la destra) e temeva, molto probabilmente, che il mio approccio asimmetrico e poco tradizionale allo strumento fosse propedeutico all’introduzione di un supporto tecnologico in grado di provvedere, in modo automatizzato, alle parti mancanti. Gli anni ottanta erano quasi alla fine ma evidentemente, a causa della sua presunzione – tipica di chi fa i distinguo tra generi di serie A e generi di serie B – si era perso tutta la cultura synth-pop e la relativa estetica del decennio oramai agli sgoccioli.
Nonostante questo, a fine estate, anzi proprio dopo aver smontato strumenti e impianto di amplificazione dell’ultimo spettacolo della stagione con lui e la sua orchestra prima di partire per una piccola vacanza con Ornella – avevo già avvisato con dovuto preavviso del fatto che avrei archiviato, dopo l’esecuzione della sigla finale di quella sera, la mia prima esperienza di orchestrale per motivi che non vi sto a spiegare, anche perché, detto tra noi, non li ricordo nemmeno io – mi aveva ugualmente anticipato la paga (si guadagnavano almeno centomila lire a esibizione che venivano corrisposte al termine di quella successiva) in modo da chiudere i conti e consolidare il budget a disposizione per il mio viaggio romantico.
Ornella ed io avevamo prenotato un treno notturno con destinazione Lago di Garda per quella notte stessa in cui mi ero accomiatato dagli altri orchestrali. A vent’anni si sceglievano i luoghi da visitare per sentito dire o perché ci si era già stati da piccoli con i genitori. Non so cosa cercassimo Ornella ed io nel Lago di Garda se non il fatto che c’era l’acqua, una finta casa di Catullo e altra paccottiglia da tedeschi in campeggio. Non ho idea nemmeno di come avessi fatto a trovare l’albergo, senza Internet. Probabilmente scartabellando le pagine gialle locali del centro SIP pubblico più vicino e facendo innumerevoli e costose trattative in interurbana per poi confermare la scelta alla struttura con il miglior rapporto numero di stelle-prezzo.
Il treno notturno per Peschiera del Garda era stipato all’inverosimile di ragazze e ragazzi che andavano in quella direzione e, ancora oggi, non saprei dare una spiegazione della presenza di tutti quei giovani. Non credo proseguissero per Venezia – una meta ancora meno in target della mia – e non era certo quella la direttrice per raggiungere altri luoghi ben più ambiti come Amsterdam o Londra. Forse era una vacanza trendy. Anche la scelta stessa di viaggiare di notte si rivelò tutt’altro che intelligente, e l’avremmo pagata il giorno successivo dopo esser stati svegli in un vagone gremito di gruppi di coetanei che, a differenza nostra che eravamo due fidanzatini che scimmiottavano in versione cheap le coppie di adulti, stavano cogliendo in pieno i vantaggi del loro status anagrafico.
Ornella ed io soggiornammo in una camera fatiscente (Ornella perdonami, io la ricordo così) per nemmeno una settimana, i soldi non erano granché. Non saprei dire come riempissimo le giornate in un luogo turistico così scadente e anonimo, come ci muovessimo per visitare le località turistiche sul lago più prossime o dove e cosa mangiassimo. Ci documentammo però per trascorrere una serata in discoteca. Da qualche informazione raccolta presso gente del posto individuammo quella che doveva essere la più adatta alle nostre esigenze che, in fatto di musica, non erano certo facilmente accontentabili, sotto questo punto di vista sono stato sempre intransigente. La discoteca si chiamava Ics e la vedevi da distante perché, dalla sua pista all’aperto, si levavano alti verso il cielo due fasci di luce a formare la lettera suggerita dal nome. Un vantaggio per chi, come noi, doveva raggiungerla a piedi dal centro della cittadina, che compensava solo in parte il disagio, a fine serata, di affrontare il lungo percorso a ritroso al buio, a notte inoltrata, lungo strade extraurbane tutt’altro che sicure percorse da automezzi che sfrecciavano a tutta velocità, questa volta non guidati da alcun riferimento luminoso.
Il dj aveva aperto con la Batdance di Prince, fresca di pubblicazione, che ritenemmo accettabile ma solo perché eravamo in vacanza, ma per il resto ricordo che avevamo valutato più che insoddisfacente il seguito della selezione, giudizio che ci fece percepire inadeguato l’esoso costo del biglietto d’ingresso. Delusi, verso la fine della serata assistemmo però all’esibizione involontaria di un avventore tutto vestito di bianco e completamente pelato, non più giovanissimo, appartato a ballare da solo, incurante dei curiosi, come se lo stesse facendo unicamente per un intimo compiacimento. I fari avveniristici del locale mettevano in risalto il vapore che irradiava dalla sua testa lucida come una palla da biliardo.
Trascorremmo addirittura la vigilia del rientro a casa in un parco aquatico nelle vicinanze, provvisto di servizio navetta dalla base del nostro soggiorno. Il tempo non era dei migliori ma, malgrado il cielo coperto, tutte quelle ore senza un riparo a sfruttare al massimo le attrazioni del posto mi costarono un’insolazione con i fiocchi. La notte, nel letto, i brividi e i consueti deliri da febbre alta mi tolsero il sonno. Quella sarebbe stata comunque l’ultima estate insieme, per me e Ornella. In quel tempio del divertimento liquido colsi diversi segnali della sua smania di evasione dalla rigidità della coppia, tra la coda per la fruizione di uno scivolo acrobatico e un successivo tuffo nella piscina con le onde artificiali, a conferma del fatto che fosse tutt’altro che votata a un rapporto così esclusivo, almeno come lo intendevo io.
Un paio di anni dopo, conseguita la laurea rigorosamente fuori corso a causa anche del servizio militare portato a termine durante gli studi, la necessità di sbarcare il lunario in attesa della occupazione definitiva si trasformò in un’urgenza e fu allora che, per un breve periodo, mi convinsi che quella del musicista si sarebbe potuta dimostrare ancora una fonte di guadagno sufficiente a garantirmi uno stile di vita come tutti gli altri. A distanza di anni, non capisco davvero come sia stato possibile che abbia potuto pensare, anche solo per un istante, di vivere di musica e, soprattutto, di quel genere di musica. Riuscivo però a procacciarmi diverse serate a settimana con varie formazioni, a partire dalle esibizioni in duo nei pianobar. Sapevo però che, con le orchestre ben organizzate, le opportunità di guadagno erano superiori. Avevo persino ripreso a studiare pianoforte e fu proprio il mio insegnante, a cui ero stato indirizzato da un amico musicista per preparare l’esame di quinto anno al conservatorio, a propormi di entrare in pianta stabile nei Veterani del Folk, un’orchestrina di liscio guidata da suo padre.
Inutile dire che quella si rivelò una delle situazioni musicali più assurde in cui mi sia mai trovato in vita mia, e tutto per la mia scarsa determinazione a dire di no subito alle proposte quando non mi convincono appieno. L’età media dei membri superava abbondantemente i settantacinque anni. Il cantante si atteggiava a crooner di una volta ma sfoggiava una pronuncia inglese dal forte accento ligure. Al trombettista e al sassofonista non si poteva stare vicini, con tutte le schifezze che spruzzavano attraverso le tubature dei loro strumenti a fiato prima, dopo e durante i pezzi, che poi – non so se avete presente – è il lato meno romantico degli ottoni. Il batterista era sordo e fiaccato dai più diffusi problemi motori tipici delle persone anziane. In quanto membro più giovane, mi posizionavano al centro del palcoscenico anche se non ero certo il front-man e malgrado avessi tentato di convincerli che la specificità della loro formazione, quella di avere tutti un piede nella fossa, poteva costituire l’elemento di massimo richiamo da un punto di vista marketing per ottenere, di conseguenza, il maggior successo presso il pubblico.
Ai tempi stavo con Adriana ma alla fine poi ci siamo lasciati perché lavoravamo entrambi fino a tardi. Lei faceva la bar-woman in un locale che andava per la maggiore, che poi era anche l’unico decente della zona e tutti, giovani e meno giovani, si incontravano lì. C’era il pienone a cena, quindi gli avventori si spostavano di là nel discobar e arrivavano clienti da ogni dove. A parte la sera di chiusura si faceva sempre l’una o le due di notte, le tre o le quattro nel fine-settimana, e con il fatto che il locale era fuori dal centro abitato nessuno si lamentava per il baccano. I proprietari erano amici dei carabinieri del posto, ma, insomma, non c’era mai stato nessun problema. E lei se ne guardava bene dal muoversi da lì, l’ambiente non era male e, dietro quel bancone, ci stava volentieri.
Io, quando mi presentavo agli sconosciuti, dicevo di fare il musicista, ma i musicisti non è che possono scriversi la professione sulla carta di identità a meno di non essere musicisti con i fiocchi, altrimenti ti imbarazza avere quel marchio lì che poi quando te lo vedono non sai come giustificarlo. Anche io lavoravo fino a tardi, anzi più tardi, perché magari finivo una serata con i Veterani chissà dove e poi dovevo ancora rientrare. Ma c’era un bar che rimaneva aperto tutta la notte, in cui Adriana ed io ci davamo appuntamento. Eravamo amici del titolare, e trascorrevamo quelle poche ore residue prima dell’alba seduti nella penombra con le facce distrutte dal tenore di vita, circondati dall’undergound umano di provincia, fino alla colazione. Il giorno, invece, ce ne stavamo chiusi nelle rispettive abitazioni (vivevamo entrambi ancora con i rispettivi genitori) a riposarci e a fare altro, leggere, esercitarci nelle attività preferite, migliorare le nostre professionalità. Fare i cocktail, lei. Studiare pianoforte e imparare pezzi nuovi, io.
La notte di capodanno è stata l’apoteosi, potete immaginarlo. Lei aveva lavorato fino alle cinque, io avevo staccato un po’ prima perché avevamo trovato un ingaggio in un albergo frequentato da anziani come gli altri Veterani, di quelli tutti vispi ma che oltre le due proprio non reggono. Avevo smontato la mia parte di attrezzatura, avevo salutato i colleghi ed ero andato ad occupare la panca del solito bar notturno ad aspettare lei, più sfinito del solito, in più vestito da suonatore da capodanno. Usavamo delle camicie di seta di colori sgargianti, la mia era magenta, con una cravatta nera e pantaloni con le pinces. Adriana si presentò che quasi albeggiava, con il trucco sfatto e conciata da barista da capodanno. Ci trattenemmo lì per un po’, il solito cappuccino, e il proprietario del bar notturno, per festeggiare l’anno nuovo, ci scattò una foto di coppia, o almeno di quello che ne rimaneva. Poco dopo ci avviammo per trascorrere qualche ora nella mia auto, con il riscaldamento acceso, ma, trovato un punto appartato, ci addormentammo abbracciati pressoché all’istante. E al risveglio, guardandoci reciprocamente riflessi nel disfacimento altrui, ci rendemmo conto che basta, non si poteva andare oltre. È sopravvissuta nel tempo solo la foto, che è rimasta appesa per tanti anni in quel bar da nottambuli, in una bacheca con i saluti votivi di tutti gli amici del locale, e forse si può vedere ancora adesso. Tra tutta quella gente sorridente in eccesso e qualche bellezza locale ammiccante di alcool, non è difficile notare un ritratto un po’ meno appariscente, con due teste appoggiate l’uno all’altra, ma non era amore, era solo stanchezza.
Le cose, per fortuna, hanno preso poi una nuova forma con L’Equipe dell’Allegria. Lavoravo in una software house, vivevo finalmente da solo e facevo le cose altrettanto seriamente con Claudia. Per garantirmi maggiore sicurezza economica ci ero ricascato, con le orchestre, ma la formula era completamente differente rispetto alle esperienze precedenti. L’Equipe dell’Allegria era molto più strutturata rispetto ai gruppi in cui avevo militato prima, con tanto di impresario, furgone e autista. La nostra base era in provincia di Asti e il raggio di spostamenti era molto più ampio e copriva Piemonte, Lombardia-Milano e Liguria. Io avevo preso casa in affitto nel centro storico di Genova e potevo contare su un’automobile di proprietà che mi consentiva di farmi trovare nei punti di incontro con gli altri componenti per ottimizzare le trasferte. Avevo comunque un impiego più o meno sicuro con orario fisso da onorare, questo indipendentemente da quando rincasavo in caso di esibizioni infrasettimanali.
Ma la cosa più difficile era conciliare questo regime di vita con una situazione sentimentale estremamente complicata. Claudia non condivideva il fatto che avere un doppio lavoro potesse essere funzionale a un futuro di vita in comune, probabilmente perché non era interessata a un futuro di vita in comune. Il problema era che poter arrotondare, per me, era anche una risposta alle esigenze a breve termine, e non solo lavorare per il lungo periodo. Così, nonostante i due neo-sposini nostri migliori amici (e consulenti ufficiali di coppia) che frequentavamo spesso nelle classiche sortite in quattro – agli antipodi rispetto a noi sotto numerosissimi punti di vista – vedessero molto positivamente l’abnegazione con cui tentavo di costruire una base utile a sorreggere un progetto familiare, in diverse occasioni il mio entusiasmo per una condizione economica più agevole si trovava paradossalmente in contrasto con la sua accusa di non sfruttare quel benessere transitorio per migliorare la qualità della vita in comune nell’immediato.
Il problema era anche che L’Equipe dell’Allegria faceva sul serio, e il fatto che il batterista avesse piantato in asso la moglie per mettersi con l’avvenente cantante solista era la minore delle questioni. Il capo orchestra, un sedicente virtuoso della fisarmonica, aveva persino pubblicato un pezzo dal ritmo caraibico per sfondare nel mercato delle grandi orchestre di intrattenimento, per il quale si era persino resa necessaria la registrazione un videoclip. Il gruppo al completo in una sala da ballo noleggiata ad hoc, ripreso a suonare e cantare in playback il brano. Nel video ero stato inquadrato più volte e, malgrado Youtube non fosse stata ancora inventata e Internet risultasse appannaggio di pochi nerd smanettoni, il rischio di viralità tramite il passaparola fisico nell’ambiente esclusivo frequentato dagli amici di Claudia avrebbe potuto mandare in frantumi quello che restava della mia autostima. Ancora una volta lasciare scorrere le cose fu una strategia vincente. Pochi mesi dopo la prima messa in onda del brano in una tv locale accettai una proposta per trasferirmi a Milano per lavoro, un’occasione sufficientemente remunerativa per cambiare completamente vita. Un’ottima scusa per abbandonare definitamente il settore delle orchestre da ballo e fuggire da quello delle fidanzate snob e poco lungimiranti.
Mancano solo gli Idea Fissa, in questa storia il cui espediente narrativo è, lo avrete capito, abbinare orchestre e periodi di vita con esperienze sentimentali altrettanto disastrose a corollario. Ho fatto il mio primo concerto in terza media e, da allora, ho suonato ininterrottamente fino a qualche anno fa. Che di tutta la mia pseudo carriera musicale ci fosse solo una testimonianza video vestito con una camicia a fiori e intento a far finta di suonare una specie di salsa era sinceramente troppo. Non me lo meritavo. Della stessa convinzione erano altri due membri dell’Equipe dell’Allegria. In quei mesi precedenti alla mia fuga dalle sale da ballo ci convincemmo così che un gruppo di musica più seria potesse essere altrettanto redditizio. Decidemmo di dare vita a uno spin-off coinvolgendo un paio di altre vecchie conoscenze per cercare di suonare in giro musica divertente ma, allo stesso tempo, di valore. Non so perché ma diedi, come al solito, una disponibilità cieca e inevitabilmente impossibile da mantenere al concept. Facevo già il copywriter e il nome stesso fu farina del mio sacco. Smanettavo con Photoshop, con il quale realizzai anche il logo e i layout per il materiale pubblicitario che, spinti da non so quale smania di emancipazione, facemmo stampare ancora prima di mettere a punto il repertorio. Va da sé che gli Idea Fissa non trovarono nemmeno una data live. Il progetto si estinse nel giro di qualche settimana, principalmente a causa del mio improvviso disamoramento all’ambiente e a Claudia, ai compagni di avventura, a un passato che volevo gettarmi alle spalle, a una sovraesposizione a una passione così totalizzante da rendere necessario un percorso di riabilitazione successivo per rimettersi in sesto, ai trent’anni che avevo appena superato. Ricordo solo il rotolo di manifesti con il logo – una composizione delle due parole che formavano il nome – che la stamperia recapitò nel box che impiegavamo come sala prove. Un monogramma metà bianco e metà nero reso con un font di sistema in grassetto in cui si leggeva a chiare lettere che non c’era nulla, proprio nulla, che potesse funzionare.