Black Midi – Hellfire

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Le recensioni dei dischi fondamentalmente sono un mucchio di cazzate, quelle che scrivo io più di tutte, sia chiaro. Fortunatamente i dischi li ascoltano in quattro gatti, li comprano in due a essere ottimisti e, di questi, non più di uno – tu che sei capitato qui grazie a Google o alla nostra pagina Facebook – legge quanto vi si scrive a corredo. E il merito principale dei Black Midi è di essere tra i pochi artisti in grado di rendere superflua qualunque tipo di analisi delle loro opere e di mettere a tacere chi, come me, ha la presunzione di saper scrivere o parlare di musica.

La prova è che basta che qualcuno si proponga attraverso registri al di sopra delle convenzioni che è tutto un propagarsi di cortocircuiti nella fruizione dell’arte e nella sua conseguente interpretazione. Nel caso dei Black Midi non è tanto che loro siano dei marziani con cui è impossibile qualunque forma di confronto. Semmai le domande che dobbiamo porci sono se quello che fanno i Black Midi è suonare e cantare e se il pubblico, ancor prima di comprendere, sia certo di ascoltare della musica. Usiamo quindi, per questa cosa che fanno i Black Midi, la generica definizione di entità.

L’entità in questione si chiama Hellfire, viene venduta come il nuovo album della band di South London e può essere percepita con i nostri abituali mezzi nelle consolidate due dimensioni riconducibili a sviluppo verticale (che quando parliamo di musica è l’armonia) e orizzontale (la melodia e il ritmo). Il punto è che questa riduzione semplificata non ci porta da nessuna parte se non a una banalizzazione di ciò che cogliamo, nonché ai consueti riferimenti che usiamo per spiegare l’ignoto e che, nell’antichità, ci hanno indotto ad assegnare sembianze umane ai fenomeni naturali.

Perché una volta citati i soliti Frank Zappa, Mr. Bungle, i Primus, John Zorn o certi King Crimson, non siamo stati utili a nessuno, fermo restando che fosse il caso di portare aiuto per facilitare l’orientamento in questa nebulosa che è Hellfire. Perché quando anche il super-telescopio spaziale James Webb rappresenta l’universo come un pavimento in graniglia nera alla genovese tirato a lucido con la cera, capirete che a questo mondo vale proprio tutto. Potrei aprire una jpg qualsiasi con Blocco Note, copiare e incollare il risultato qui che sarebbe la stessa cosa. Anzi, provateci e dite se non ho ragione e se, quanto ottenuto, non sia più comprensibile di quello che sto scrivendo ora.

Oppure potrei elencare una lista dei frammenti di Hellfire grazie ai quali, secondo quanto ci riportano i nostri recettori prestati a restituirci il piacere della bellezza (decodificatori di linguaggi di basso livello, se vogliamo impiegare una categorizzazione informatica) si riaccende invano la presunzione di poter ricomporre il senso generale di quest’opera, un po’ come si fa con la scrittura degli etruschi.

E allora potrei confermare – secondo il rigoroso ordine di quella che ha le sembianze di una scaletta – che [traccia 1.] nella titletrack il parlato va straordinariamente a tempo con la base e che fa venire voglia di mettergli sotto quei beat della trap con i pattern di hi-hat a sessantaquattresimi, avete presente? E anche che, per non più di tre o quattro secondi, si sente una progressione armonica di archi di cui riusciamo addirittura ad anticiparne l’evoluzione.

Che [traccia 2.] “Sugar/Tzu” quell’assurda alternanza di parti non rientra nei nostri canoni e nelle nostre vite ed è fuori discussione provare qualsiasi tipo di sensazione, fredda calda o tiepida che sia. Certo, il batterista è inumano, ma a quale pro? Che [traccia 3.] “Eat Men Eat” i Black Midi giocano al flamenco e poi qualcuno si stufa e vuole giocare a Trespass dei Genesis. Che [traccia 4.] “Welcome To Hell” qualcun altro ha dimenticato un sample di batteria rhythm and blues acceso ma poi, giusto il tempo di provare il feeling, il resto della band si precipita ad aggiungerci del suo mandandoci ancora in confusione.

Che [traccia 5.] “Still” o c’è finita per sbaglio o ci stanno prendendo per il culo ma non fateci l’abitudine, perché verso la metà siamo punto e a capo. Che [traccia 7.] “The Race Is About To Begin” sembra un folle comizio prog-punk. Che [traccia 8.] “Dangerous Liaisons” sconfina in qualcosa che per noi risulta fusion – senza offesa – suonata da dio. Un consiglio: prestate attenzione agli stacchi sguaiati e isterici che caratterizzano il pezzo da metà in poi, sono tutt’altro che innocui.

Che con [traccia 9.] “The Defence” oramai non ci caschiamo più. Inizia bene, noi ci fidiamo, ci facciamo portare al largo senza salvagente tanto il mare sembra calmo ma poi ancora una volta qualcuno ci abbandona lì, a cercare la salvezza in quell’imitazione da crooner a cui non affiderei nemmeno il mio peggior nemico. E che con [traccia 10.] “27 Questions” abbiamo perso ogni speranza.

Arrivare in fondo a Hellfire è faticoso, uscirne vivi è un’impresa, e possiamo anche discutere se sia un capolavoro o una cagata pazzesca, se “Schlagenheim” aveva ben altre attitudini, se acquistando una copia del disco il rischio è che si riproduca in casa come Alien, saltando fuori dalla pancia della gente. Perché intanto dovremmo metterci d’accordo sull’aspetto fondamentale della questione: di cosa stiamo parlando?

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