La materia prima della scuola è il genere umano. Se siete sensibili a quello che può accadere al genere umano – parlo di quel disagio che prova chi è sensibile a una cosa – la scuola non è un lavoro che fa per voi: il via vai di colleghi e di alunni con cui ti cimenti vi risulterà insopportabile.
Se avete lavorato in aziende private di qualunque settore industriale, in cui l’obiettivo è il prodotto e il profitto che ne deriva, il genere umano è un di cui. Eppure, paradossalmente, in genere il livello di turn-over è pienamente accettabile. A parte i contratti a tempo determinatissimo e i fantomatici stage, chi sa lavorare resta nella stessa mansione per un po’ di anni, ci sono casi eroici di impiegati che giungono sani e salvi addirittura alla pensione. In tutti gli altri casi, se sai fare il tuo mestiere, le aziende cercano di trattenerti con aumenti o miglioramenti delle condizioni lavorative, e quando arrivi al punto in cui è inevitabile passare alla concorrenza a causa di un’offerta che sarebbe immorale non accettare, oppure cambiare strada, nel frattempo è trascorso almeno un lustro, se non di più.
Nella scuola, dove l’obiettivo è far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi, dove le riunioni si fanno per parlare degli esponenti del genere umano con cui si ha a che fare quotidianamente, dove ogni docente è chiamato a mettere tutto se stesso al servizio dei colleghi per il bene degli studenti, è tutto un andirivieni che, nei casi migliori, dura da settembre a giugno.
La scuola ingaggia una percentuale di precari e di precari più precari dei precari che ha dell’incredibile. E se considerate che la didattica – e tutto quello che concerne – è uno degli esempi più palesi di strategia di successo a lungo termine, è facile immaginare il risultato di un processo in cui, ogni anno, occorre ricominciare da capo con nuovo materiale umano che, quasi sempre, ha indole diversa da chi lo ha preceduto. Ne deriva che anche quel poco personale che è lì a tempo indeterminato si deve adattare. Non solo. Anche i lavoratori stabili chiedono trasferimenti in altri istituti o passano ad altri ordini o cambiano vita oppure, come è giusto, vanno in pensione.
Ci sono due momenti, agli estremi di ogni anno scolastico, in cui questo trambusto è causa di sconforto emotivo alle persone sensibili di cui parlavo prima. A settembre e ottobre ogni scuola si riempie di gente mai vista prima che va a colmare i buchi dell’organico, una fase di assestamento che può prolungarsi anche fino a novembre inoltrato. In questo momento preliminare è fondamentale quindi darsi da fare per riaggiustare il senso di team che viene polverizzato nell’ultimo collegio docenti di giugno, quando ci sono i saluti dei cosiddetti supplenti annuali che, l’anno successivo, chissà dove finiranno ed è un miracolo, se si tratta di docenti in gamba, se riescono a farsi confermare nello stesso posto, quando la ruota riparte.
Provate a immaginare: la tua classe va in vacanza e, come se non bastasse, i tuoi colleghi evaporano con ampie possibilità di non incontrarli mai più, e ti ritrovi con i soliti quattro gatti dei colleghi di ruolo, il dirigente, il vicario, i vari responsabili di plesso, tutti a non dirsi quanto sarebbe bello, per il genere umano, per i docenti, per la società, che le cose si normalizzassero e che la scuola diventasse un posto di lavoro come tutti gli altri in cui, al di là di far trascorrere un’esperienza di apprendimento più significativa possibile a bambini e ragazzi – la nostra mission – si può anche contare su una squadra di persone, più o meno sempre le stesse, a lavorare per il lungo periodo.