Pensate, che ne so, se fate i muratori e periodicamente, ogni anno, vi si chiede di non salire più sui ponteggi per un po’ ma di dedicarvi alla manutenzione del vostro equipaggiamento. Oppure fate i tassisti e poi vi impediscono per qualche mese di mettervi in strada per seguire un corso di aggiornamento sullo stress da traffico in città. Ne so una ancora migliore: avete un negozio e vi si chiede di chiuderlo per mettere ordine alle vostre scartoffie e vi si tiene alla larga dal vostro core business per occuparvi forzatamente di cose di cui non vi importa, vi annoiano, o addirittura non siete capaci a fare perché – che so – siete ottimi panificatori ma se dovete pianificare una campagna marketing delle baguette non sapete da dove iniziare e vi tocca improvvisare.
Gli insegnanti lavorano per nove mesi con le persone, in particolare con una categoria di persone ben precisa e che sta a cuore a tutti voi, fino a quando l’interruttore si spegne e ti ritrovi a vagare per le aule vuote con un caldo porco in bermuda a occuparti di una serie di questioni collaterali che, con la didattica sul campo, c’entrano poco. Dal punto di vista emotivo, essere privati della controparte con cui si esercita una professione – le costruzioni i muratori, le Toyota Corolla station wagon bianche i tassisti, le michette i panettieri, gli alunni i docenti – provoca un contraccolpo mica da poco. Certo, il mondo è pieno di aridi che, ancora con l’eco dell’ultima campanella nelle orecchie, salgono sul primo intercity (prenotato a carnevale) per raggiungere il paesello sul mare senza porsi alcun problema. Voglio dire, la scuola è finita da nemmeno quattro ore e già sono qui al PC a scrivere parole intrise di malinconia mosse dalla realtà dei fatti e cioè che, a dirla tutta, i ragazzi senza la scuola stanno benone. Meglio che in classe con me.
Oggi all’uscita non c’era per nulla l’atmosfera da ultimo giorno, se non per le quinte a cui è stato riservato un cancello dedicato tutto pieno di palloncini e festoni. Nella mia classe l’idillio è stato guastato poche settimane fa da qualche genitore che si è lamentato in modo piuttosto acceso per l’ostinazione con cui facciamo osservare il regolamento anti-Covid in ambiente scolastico. In previsione di un’uscita didattica organizzata a fine maggio, comprensiva dello spostamento a piedi dalla scuola al parco avventura di destinazione, ci è stato chiesto di permettere ai bambini di toglierla. La mia collega ed io ci siamo opposti, naturalmente, visto il regolamento imposto dal ministero e dall’ATS locale (e di conseguenza dalla nostra dirigente).
Un manipolo di genitori esagitati – qualche giorno prima della gita – mi ha espresso le proprie rimostranze cogliendomi di sorpresa all’uscita e, non riuscendo a trasmettere in modo esaustivo l’opportunità delle mie ragioni, mi sono lasciato tentare da un linguaggio piuttosto colorito – c’era qualche bambino che giocherellava nelle vicinanze – trattenendomi però – almeno questa ricercatezza spero sia stata apprezzata – dal bestemmiare. Per farla breve, i rapporti non sono più collaborativi come un tempo. Con un’aggravante: la mattina della foto di classe non ero in servizio e avevo programmato un appuntamento inderogabile. La collega ha ritenuto giusto esimersi dal posare con gli alunni, trovandosi senza di me. Nella foto, quindi, i bambini sono abbandonati a se stessi. Ho quindi l’impressione che questo sciopero dei buoni sentimenti sia stato interpretato come una presa di posizione contro le famiglie e il rispetto dei loro ricordi che verranno. Oggi, smistati i miei bambini ai rispettivi genitori, c’è stato qualche vago e generico augurio di buona estate e nulla di più. Peccato, ci tenevo ad avere un sostanzioso regalo di fine anno, magari un buono Amazon da spendere in dischi.
In più quest’anno ha avuto il suo peso il fatto che è stato l’ultimo giorno di scuola anche per mia figlia, nel senso dell’ultimo giorno degli ultimi giorni, quindi il mio da docente è sceso di priorità. D’ora in poi, basta scuola se non per gli imminenti esami di maturità e quello che succederà dopo, che non conosco ancora e non sa nemmeno lei. Nella vita delle persone – diciamo un’ottantina di anni, se va tutto bene – la porzione che trascorriamo con chi ci ha generato è a dir poco marginale, nell’economia di un’esistenza intera. Non dico sia di poca importanza sul resto, ma si tratta veramente di poco tempo. In questo battito di ciglia i nostri figli li accompagniamo il primo giorno di scuola materna e improvvisamente li ritroviamo al rientro dell’ultimo giorno del liceo, dopo che hanno trascorso la notte alla montagnetta di San Siro a spaccarsi di birra e erba per aspettare l’alba della fine di un capitolo infinito, per loro, e troppo breve, per padri e madri. Il vantaggio di aver un blog da vent’anni è che ora potrò cercare tutti i post come questo, scritti l’ultimo giorno di scuola dei precedenti cicli, e scoprire come l’avevo presa allora.