Dire che a marzo l’anno scolastico è pressoché finito può sembrare un’iperbole anche ai non addetti ai lavori. A maggio, però – e mi raccomando resti tra noi, che poi i tremesivacanzisti si scatenano contro la categoria – i giochi sono fatti.
Non per tutti. Al liceo in cui mia figlia frequenta il quinto e ultimo anno, in barba alla preparazione dell’esame di maturità, i miei colleghi sono ancora in piena smania valutativa e hanno piazzato un impegno al giorno tra verifiche, versioni, simulazioni d’esame e prove orali. I ragazzi non solo solo cotti a fine anno, non solo sono disorientati per il modo con cui sono stati vittime della nostra inadeguatezza di gestire una situazione di emergenza come il Covid, non solo sono preoccupati di ciò che gli si prospetta al rientro del viaggio post-maturità, ma in più gli si chiede di sperperare le ultime poche energie in attività superflue.
Come sarebbe bello se, invece, gli ultimi trenta giorni di presenza tra i banchi fossero dedicati a fare il punto sui cinque anni che volgono al termine. Non che il programma non sia coinvolgente. Anzi, il dramma è che proprio in questa fase in cui si fa a gara tra docenti a alunni su chi è più bollito si parla – finalmente – di contemporaneità. In letteratura, in storia, in filosofia, in arte. Pensate che rivoluzione se nel triennio si partisse subito con l’ottocento in tutte le materie e la quinta fosse esclusivamente dedicata ai giorni nostri in un tripudio di interdisciplinarietà. Cari colleghi, ma dove la trovate tutta questa energia con questo caldo? Io sono già nella fase in cui porto i bambini in giardino negli ultimi trenta minuti, quando ho il turno di pomeriggio. Loro giocano, ci mancherebbe, ma alle superiori ci sarà pure un sistema omologo per farli rimanere concentrati e motivati.