Stanchi del solito post-punk claustrofobico e di tutti quei cantanti-alfa che si prendono troppo sul serio? Il disco d’esordio delle Wet Leg è quello che fa per voi.
Come al solito ci volevano delle ragazze per dare una regolata ai bollenti spiriti nell’ambiente post-post-post-punk anglofono e riportare sotto a un ragionevole livello di guardia il tasso di testosterone nella musica – oramai fuori controllo – grazie a una sana dose di ironia tutta al femminile. Si chiamano Wet Leg e, in un colpo solo, sono riuscite a 1. risollevarci il morale dopo mesi di lagne depresse, 2. attutire la spigolosità degli aspetti più estremi del genere che professano e 3. ricondurre, con la loro immediatezza, l’indie-rock ai binari un po’ caciaroni che si merita, dopo le molteplici contaminazioni e seghe manieristiche – e i relativi sconfinamenti nelle cerebrali lande del prog e del math rock – di alcuni dischi che, negli ultimi tempi, ci hanno fatto a dir poco gridare al miracolo.
L’aspetto più convincente di questo duo scanzonato – e pronto a farsi in quattro per le esibizioni live – è l’approccio rilassato e un po’ come-viene-viene alla composizione, che è poi un modo di fare le cose tipicamente punk ma privo dell’aggressività, della ricercatezza artistica e di tutti i restanti rimandi agli archetipi del genere (a voi la scelta dell’accezione preferita, visto che parliamo di maschi e di musica e anche di maschi che fanno musica).
Vi sarete infatti accorti che le Wet Leg hanno messo subito in chiaro le cose con “Chaise Longue”, il singolo con cui sono piombate dal nulla in tutte le classifiche, un brano pubblicato ormai nove mesi fa e che ha lanciato il duo originario dell’Isola di Wight oltre le vette dell’hype della musica alternativa. Poco più di tre minuti tutti sullo stesso accordo e un testo zeppo di doppi sensi, a partire dal “Big D” preso a scuola fino al muffin imburrato, dopodichè è lecito chiedersi se, per il nome della band, ci sia una traduzione casta in grado di superare in autorevolezza la più letterale gamba umida.
Qualsiasi altra band sarebbe stata declassata a macchietta, con queste premesse, ma non quella di Rhian Teasdale e Hester Chambers. La naturalezza con cui le due Wet Leg realizzano hit in grado di rientrare fino all’ultima nota nei blasonati canoni della musica più in voga degli ultimi anni è sorprendente. Apprezzerete la fluidità dei brani e la sollecitudine con cui giungono a destinazione senza nemmeno un’incertezza. Per non parlare della varietà delle canzoni, prive di ogni rimando reciproco seppur modellate intorno a un marchio di fabbrica inconfondibile.
Dell’ultima infornata di dischi delle band protagoniste dell’ennesima British Invasion, di certo questo passerà alla storia come l’album più sbarazzino, e la cosa incredibile è che dietro le quinte dei suoni anche qui siede Dan Carey, produttore di Fontaines DC, Geese, Squid, Black Midi. E, credetemi, in “Wet Leg” – il titolo del disco di esordio è omonimo – non c’è un solo pezzo che non abbia la dignità di singolo, a partire da quelli effettivamente pubblicati prima del rilascio di questo straordinario full length.
Tralasciando il tormentone che celebra i fasti delle più prosaiche sedie a sdraio e sul quale oramai si è già detto tutto, pensiamo agli ammiccamenti di “Being in Love” o alla splendida “Angelica”, con il suo riff jangle pop di chitarra e quell’infernale giro strumentale di accordi nel ritornello, che ti si pianta in testa senza tanti complimenti.
E poi che dire di quanto calzi a pennello la citazione del riff di chitarra di “The man who sold the world” di Bowie in “I Don’t Wanna Go Out”, messa in risposta ai versi delle strofe. O il compendio di “New Feeling” e “Thank You for Sending Me An Angel” dei Talking Heads in “Wet Dream”, papabilissimo tormentone alternative per l’imminente stagione estiva. Ma la solare “Convincing”, da questo punto di vista, non è certo da meno.
E anche il lato apparentemente romantico delle Wet Leg, e mi riferisco a “Loving You” e “Piece Of Shit”, sembrerebbe convincente, se i titoli non ci preparassero ad altro. Ma, in generale, a proposito dei testi, non lasciatevi suggestionare dalla sfilza di dichiarazioni di espressioni esplicite davanti ai titoli su Spotify, una lista di E maiuscole che la dice lunga sul loro slang. Come si cantava negli anni 80, le ragazze vogliono solo divertirsi ma, se proprio è necessario forzare un collegamento con il decennio madre di tutto quello che ascoltiamo oggi, il pensiero si spinge fino alle Go Go’s e ai loro videoclip girati sulle berline cabriolet ma molto, molto più garage e con molto, molto meno rossetto. Altrettanto degni di nota il lungo urlo in “Ur Mum”, l’attitudine da cover band dei Fratellis di “Oh No” e le due tracce a chiusura dell’album, la scazzatissima “Supermarket” e la decisiva “Too Late Now”.
In questo duemila e ventidue che si sta rivelando una sorta di giubileo per l’indie-rock, a giudicare da ciò che è stato pubblicato e dagli album che ci separano dalle classifiche di fine anno, le Wet Leg e il loro s/t si assicurano un ruolo da protagonisti nella storia di un genere fin troppo longevo e prolifico, in cui il rischio di esporsi all’aria fritta o di suonare in modo superfluo è all’ordine del giorno. Sono rari i dischi in grado di far divertire dalla prima all’ultima traccia. In un momento in cui c’è davvero poco da star tranquilli, le Wet Leg ci concedono più di uno spunto per sorridere a tempo di musica.