Tra colleghi ci siamo divisi il giardino in modo da trascorrere l’intervallo evitando contatti pericolosi già molto tempo prima del Covid. Le prime hanno l’area con i giochi, anche se da quando c’è la pandemia non si possono toccare. Le seconde sono poco più avanti, quinte e quarte ai lati opposti della mini-pista di atletica e a noi delle terze – non chiedetemi il perché – è toccata la parte migliore, quella con il campetto da basket e il boschetto in miniatura con gli aceri e i pini.
Le macro-zone dedicate alle interclassi sono state quindi spartite ulteriormente per sezione per evitare che le bolle si mescolino, e a questo giro a noi della terza B non è andata benissimo. La coordinatrice della terza C è piuttosto autoritaria. Oltre a fare la docente si presta alle attività di animazione per l’oratorio locale e comunica nel gruppo di Whatsapp usando i punti elenco numerati per dirci le cose da fare. Sin dal primo mese della prima si è presa la briga di tenere per sé metà del campetto ma non per il lato corto, in modo da lasciare un canestro a testa. Vedi arrivare la sua classe preceduta dagli apri-fila con le mani piene di cinesini colorati. Erik, il mio alunno cinese, rimane perplesso quando li sente chiamare così. Nonostante questo, quelli della terza C Li posizionano per il lato lungo, da un canestro all’altro, stroncando tutte le funzionalità per il quale quel campo è stato pensato. Loro si piazzano di qua, dalla parte con la gradinata, e noi dobbiamo metterci di là, sul lato delle panchine. La scusa ufficiale è che il loro asperger a funzionamento zero ha bisogno di correre tutto il tempo e, con questo allestimento, può sfruttare un percorso efficace a muoversi da una partenza a un arrivo – guai a cambiargli la routine – in modo soddisfacente e utile a farlo stancare.
Scendono sempre dopo di noi. Prima che i guastafeste arrivino, io ne approfitto per sedermi sulle gradinate mentre i miei bambini si godono il campo da basket nella sua interezza. Da lì posso controllare che nessuno faccia cose non autorizzate con il sole in faccia. Erik ed io ce ne stiamo seduti mentre i maschi giocano a calcio con qualsiasi cosa rotoli e le bambine fanno le ruote. Sollevo la testa verso i raggi per assorbire meglio il calore e chiudo gli occhi. Erik mi fa le solite domande – cosa ho mangiato la sera prima, come si dicono certe parole in inglese, che ore sono perché aspetta solo di rientrare in classe- e io gli rispondo a memoria mentre sento il tessuto della maglia scaldarsi e il resto del corpo che si ricarica come se fossi uno smartphone collegato alla corrente. A lui non piace stare in giardino. Non ama l’intervallo. Non vuole giocare con nessuno e trascorre il tempo con me. Chiacchieriamo e facciamo insieme qualche gioco finché non mi avvisa appena vede la fila della terza C che si avvicina.
Così rientriamo nel settore di nostra pertinenza, nel quale devo accontentarmi delle panchine che, anch’esse rivolte verso il campo, hanno il sole alle spalle. Peccato, perché quando arriva la primavera o se ci sono le belle giornate stare seduto sulle gradinate è bellissimo. Non sono solo i miei alunni – a parte Erik – che vorrebbero rimanere sempre fuori, non rientrare più ai loro banchi. Invece, quando mi sposto sul lato delle panchine, il divario è incolmabile. Provo a sedermi ma l’aria fresca sulla pelle che si è scaldata, ora che il sole è alle spalle, si sente il doppio. L’estate è ancora lontana e così preferisco stare in piedi. Non mi sento più a mio agio, mi sembra di sprecare il tempo che passiamo all’aperto e – proprio come Erik – mi metto a contare i minuti che mi separano dalla fine dell’intervallo.