Ignoravo che il castelmagno fosse un formaggio di stagione e che, appunto, di questi tempi non si trovasse. Me lo ha detto Luca. La sua bottega di specialità del basso Piemonte è uno dei negozietti di fiducia dei miei genitori i quali, vivendo nel centro di una piccola città di provincia, hanno tutto a portata di mano ma a un costo doppio o triplo rispetto ai supermercati in cui mi rifornisco io qui. Con il suo palpabile accento delle langhe colma anche la mia lacuna circa il processo di preparazione di quel prodotto a denominazione di origine protetta. Per fare il castelmagno ci vogliono le acciughe che, in pieno inverno, hanno appena deposto le uova o, al massimo, si pescano appena nate e di dimensioni insoddisfacenti. La sua spiegazione mi lascia a bocca aperta. Il castelmagno è un latticino e non riesco a cogliere l’attinenza con i pesci, a meno che le acciughe non entrino in gioco nella fase di fermentazione, sempre che per fare il formaggio tutto ciò sia necessario. Non è un mio problema, al momento. Da quando faccio l’insegnante mi trovo a dare risposte ai miei alunni a cose che non so. E poi sono sempre stato refrattario ai connubi mare e monti. Per me sono due ambienti che si devono tenere alla larga, incompatibili, ed è meglio che ciascuno se ne stia a casa propria. Questo vale anche per l’enogastronomia.
La bottega di Luca è una specie di via Montenapoleone del gusto. Vini da decine di euro a boccia, tartufi, pasta ripiena e non fatta in casa, miele, marmellate, prodotti delle fattorie e ogni altro ben di dio. Lui e la moglie lo gestiscono da sempre e io mi sono sempre chiesto come riescano a sopportarsi con quella parlata, a casa e anche sul posto di lavoro. Avevo visto un film porno con protagonisti amatoriali torinesi, da giovane. Da allora mi sono convinto che, nell’intimità, è molto più efficace stare in silenzio a meno di non aver alle spalle un valido corso di dizione, uno di quelli che ti piallano ogni inflessione a italiano da doppiatore.
Da Luca ho appena acquistato una fetta di un altro formaggio tipico di cui, stamattina, mi sfugge il nome. Mi sono lasciato consigliare ma poi il display della bilancia mi ha fatto pentire della scelta. Nella bottega c’è qualche tavolo per consumare i loro prodotti sul posto. Io e Alessandra, tanti anni prima, c’eravamo fermati solo perché Luca aveva appena messo il nuovo cd degli US3. Avevamo preso un panino – mica con il pane dozzinale, eh, ma con due fettazze di quello fatto con tutti i crismi del km zero, dello slow food, del biologico, un vero concentrato di fuffa marketing culinaria – e una bottiglia di vino “buono”, così gli avevo chiesto, senza pensare – ma ero giovane, troppo giovane, un vero ragazzino – che mi avrebbe rifilato mezzo litro di barolo a 30mila lire.
Ma le gaffe nella bottega di Luca sono un classico. Oggi ho lasciato mia moglie fuori, in macchina con le quattro frecce, e mi sono precipitato nel negozio per comprare qualche specialità da portare con me, al rientro nell’insapore periferia milanese. Appena entrato sono stato subito redarguito per essere senza mascherina. Non è da me, se pensate che ormai indosso la FFP2 anche quando guido da solo. Ho chiesto scusa – che imperdonabile avventatezza – e mi sono precipitato in auto per recuperarne una. Nella fretta, come sempre, non ho trovato quella estratta poco prima immacolata dalla sua confezione e ho dovuto accontentarmi della mascherina di stoffa che qualcuno mi ha lasciato nel portaoggetti tra i sedili anteriori. È blu ed è molto larga, ma per una spesa di qualche minuto posso resistere. Lascio spalancarsi le porte scorrevoli automatiche e, finalmente, ecco il mio turno per consumare il rito del ritorno alle radici, lo stesso che vedevo interpretato da mio papà ogni volta in cui andavo a trovarlo, quando era ancora in vita. Ed è proprio mentre scruto tutte quelle eccellenze alimentari che mi rendo conto che non avevo mai fatto un sogno con la mascherina, prima d’ora.