Il mercato offre beni per dare valore alle nostre passioni, cose fisiche e materiali senza le quali le nostre passioni rimarrebbero confinate nel loro slancio intellettuale. La musica, per fare un esempio, in sé non ha alcun valore economico fino a quando non compro i componenti costosissimi per assemblare un impianto hi fi che mi permetta di ascoltarla al meglio, oppure dischi rari a costi esorbitanti. Ho fatto l’esempio della musica perché è la mia passione da quando sono nato. Trascorrerei tutto il tempo ad ascoltare musica e, fino a qualche anno fa, componevo e suonavo pure. Io potrei benissimo stare così, godermi la mia passione alimentata da pochissimi rudimentali mezzi molto spesso gratuiti o a costi bassissimi. La radio o la tv accesa, o se volessi ancora meno. Potrei infatti canticchiare le mie canzoni preferite, ripassarle a memoria con la mente. Non è difficile. L’economia però intercetta questa relazione intima con la propria passione. Ci sono edizioni rimasterizzate deluxe dei miei dischi preferiti a decine di euro, per non parlare dei cofanetti come l’ultimo uscito di David Bowie che sfiora i 400. Poi, se proprio uno vuole circondarsi del meglio per compiacere la propria passione, in commercio si trovano giradischi e amplificatori per procurarsi i quali uno dovrebbe vendersi un rene. Ma che esista un sistema intero che lucra sulle passioni non è certo una prerogativa della musica. Vi piace leggere? Prenotate i libri in biblioteca. Non potete attendere il vostro turno? Ecco che la passione induce al possesso del bene che ne consente l’esercizio, la messa in pratica, altrimenti che passione sarebbe? E, superando i confini della cultura, lo stesso discorso può essere applicato allo sport. Adoro correre, e se volessi potrei dotarmi di equipaggiamento di marca pagandolo un occhio della testa. Scarpe da due o trecento euro e abbigliamento tecnico a prezzi da capogiro. Se si diffonde la voce che ci piace qualcosa c’è qualcuno che interpreta la passione come una domanda a cui creare un’offerta e diversificare la produzione per fingere una risposta a un’esigenza che, in realtà, probabilmente non esisterebbe nemmeno.