“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno.
“Ultra mono” era una pallonata rosa in faccia. “Crawler” ancora peggio. È un carro armato che ti stira e, ingranata la retro – ammesso che i carri armati ne siano dotati – dà una seconda passata per assicurarsi che, davvero, non sia rimasto nulla.
Ogni riferimento ai trasporti eccezionali potrebbe risultare paradossale in un album che, a quanto sostiene Joe Talbot, nasce da certe riflessioni scaturite dall’essersi trovato a pochi centimetri e pochi istanti da un incidente che probabilmente gli avrebbe precluso la possibilità di fare altri dischi. Un motociclista che, una notte, gli è volato vicino, ai duecento all’ora, mentre si trovava in macchina. La fragilità della vita e la casualità del tutto. Ben altra cosa rispetto a David Bowie, lui che invece si scontrava sempre con la stessa automobile, girando all’infinito nel garage di un hotel in preda a chissà che cosa. Una metafora al servizio di tutto quello che ci spinge a commettere gli stessi errori, di continuo. Come biasimarci, noi esseri umani.
Non che qui, in “Crawler”, non ci siano tracce di problemi con le dipendenze. È un disco, intanto, ed è stato composto da gente con trascorsi mica da ridere.
Ma è anche un segno che la pandemia, la stessa che ha portato la salute mentale e fisica collettiva del pianeta al punto di rottura, ci offre un modo tutto nuovo di vedere le cose, di osservare noi stessi. Una riflessione indulgente, empatica e comprensiva. Responsabili delle nostre azioni, c’è comunque lo spazio per prendere un respiro e perdonarci. Se la vita è piena di bivi e non è detto che ci sia Google Maps a farci arrivare sani e salvi – non c’è un’app per prevenire gli incidenti, per ora solo riporta quelli già accaduti e che generano code – è lecito riderci su. Umorismo nerissimo, sia chiaro. Tutto questo va a formare il nucleo narrativo del quarto album degli Idles in altrettanti anni, nonché seguito di uno dei dischi più belli del 2020.
Partiamo dalle disavventure su strada, che nel nuovo lavoro del quintetto di Bristol ci sono per davvero. La traccia introduttiva, che rende un tributo irriverente alla superbike “MTT 420 RR” proprio nel titolo, è un nervoso benvenuto pensato con uno di quegli escamotage in cui ci sono fill di batteria che non vanno da nessuna parte e, anzi, lasciano con un pugno di mosche a rimandare l’orgasmo a momenti migliori. C’è poco da dire invece circa la metafora di “Car Crash”, così didascalica da non lasciar dubbi.
“Crawler” è pervaso dalla voglia di sperimentare, in alcuni punti riuscita, in altri solo in potenza. Risulta comunque un’evoluzione compositiva, una maggiore varietà di format rispetto al consueto girare al massimo la manopola dei toni forti, urlati, sguaiati e senza ritorno. Vi sarete accorti dell’approccio soul di “The Beachland Ballroom” e di quello darkwave di “When the Lights Come On”, in cui la voce si trattiene a stento dalla smania di scappare via, di alzare i toni, come in quei disturbi in cui la gente non riesce a trattenersi. Ma, molto più che negli album precedenti, ci sono diversi spunti che fanno degli Idles una sorta di Killing Joke dei nostri tempi – forse l’unico grande mostro sacro del post-punk che ad oggi non è stato ancora emulato. Provate a cercarli in brani come “The Wheel”, “Stockholm Syndrome” e “Crawl”, fino all’esplosione al contrario, quando la tensione arriva al limite oltre il quale non ci può più essere nulla. Ed è qui che si materializza “Progress”, un pezzo che sarebbe da isolare dal resto per fare finta che Joe Talbot canti sempre così e che, da solo, vale tutto il disco.
Gli “Idles” ci assicurano che il disco parla di come affrontare esperienze traumatiche e tornare in vita. Ok, va bene, ma a quali condizioni? Perché sono proprio loro a dimostrarci che, per risultare ancora più pessimisti, ci vuole poco. Un paio di canzoni completamente avulse dal proprio stile e dal contesto, magari con un filo di elettronica – bella la citazione dell’inizio di “Angel” dei Massive Attack proprio nell’incipit del disco – oppure il suono svuotato della violenza che gli ascoltatori più affezionati si aspettano, oppure ancora chiudere tutto con una traccia che si intitola “The End” e che, in quanto tale, fa lo stesso rumore di qualcosa che lasciamo cadere in un abisso buio e senza fondo. Il nulla o, come dicono loro, “In spite of it all, life is beautiful”.