“Guida turistica di un posto in cui non c’è assolutamente niente da vedere”, o, come si legge nel sottotitolo, “Il bus davanti”, è un’esauriente raccolta di momenti e di luoghi che generalmente poi non si ricordano, con l’obiettivo invece di costringerci a tenerli a mente. Non ci credete? Se vi succede di stare fermi in coda nel traffico segnatevi data, ora e coordinate geografiche del posto (potete mandare la posizione a qualcuno tramite Whatsapp) e poi appiccicatevi un post-it sul frigo ma uno di quelli con l’adesivo bello resistente perché dovrà restare appeso dieci o vent’anni, in modo che tra dieci o vent’anni vi consenta di ricordarvi persino del lotto di case popolari in cui si è accesa la prima luce del mattino e che ha dato il via al tour di quel luogo in cui non c’è assolutamente niente da vedere.
Oppure, ed è per questo che si parla di un bus davanti, della pubblicità del concessionario che ha utilizzato una mediocre clip-art di Charlot completamente decontestualizzata dal messaggio in cui si parlava, appunto, di auto usate, posizionato sul retro del bus che vi precede a passo d’uomo fermo. Saremo vecchi e queste madeleine di fastidio urbano ci evocheranno le stesse sensazioni. Il fatto è che avere un autobus davanti in coda non lo si augura nemmeno al nostro peggior nemico. Così grande e grosso e farcito di persone in mascherina chirurgica ostruisce la visibilità e impedisce di capire se c’è margine per passare davanti e toglierselo dai coglioni senza fare un frontale con qualcuno che arriva nel senso di marcia opposto.
Peggio di un bus ci sono solo gli ufo la mattina, quei camion con le luci lampeggianti nel buio che procedono con la stazza di un pachiderma e la flemma di una lumaca e che quando si approssimano all’incrocio e, per forza di cose, devi dar loro la precedenza perché hanno tutti i requisiti per prendersela, realizzi amaramente che vanno nella tua stessa direzione con una lentezza che in natura si trova solo negli animali morti. Ma sopra il lampeggiante continua a lanciare il suo segnale che induce a prestare attenzione, quello è un mezzo più pesante e ingombrante di una bisarca che trasporta bisarche.
Mi vedete? Fermo con l’ufo a pochi metri dal parabrezza. A destra ci sono studenti e stranieri in attesa dell’autobus. A sinistra un quartiere sovietico con una Mercedes d’annata parcheggiata sotto, il logo sulla punta piegato da qualcuno che non ha fatto in tempo a rubarlo, come si faceva da ragazzi con quello della Volkswagen e non chiedetemi il perché. Il conducente dietro si sfoga sul clacson come se il suono emesso dal suo autoveicolo fosse in grado di spazzare via gli ostacoli che ha di fronte e che, vuoi per il bus o per l’ufo che va ancora più lento del bus, nessuno riesce a capire quanti sono o anche solo se c’è un anziano sulla sua Ford grigia che accompagna la moglie a fare le analisi del sangue. Mi verrebbe voglia di scendere – tanto siamo poco più che fermi – e ricordargli che il problema è tutto suo, che avrebbe dovuto partire da casa un’ora prima di quel momento in cui attraversare la città diventa la parte più difficile di tutto il viaggio di lavoro. Io di trasferte non ne faccio più, se sono qui è perché accompagno mia figlia al capolinea della gialla e attraverso un pezzo di Quarto Oggiaro per dirigermi verso ovest. E comunque, quando mi toccavano, mi trovavo nella solitudine di farmi la barba alle quattro e mezza per raggiungere prima delle sei del mattino la barriera di Milano Sud. Ora passo in una brughiera in cui le cose peggiori sono il limite dei 70 in superstrada, le cavallette in volo che scontrano sonoramente il parabrezza, certe macchine da ottantamila euro con le targhe straniere e il benzinaio extralarge che ha l’unghia del mignolo lunga, solo quella, e non ho ancora capito perché. Forse suona la chitarra classica, glielo chiederò, prima o poi.