Qualcuno si ricorda che cosa stava combinando alle 00.01 del primo gennaio 1990? Io no perché non pensavo fosse una data speciale, altrimenti mi sarei segnato – come l’11 settembre 2001 – qualche particolare utile alle celebrazioni che si sarebbero succedute negli anni a venire. Come potevamo immaginare che, esattamente l’1/1/1990, saremmo stati testimoni oculari della nascita della nostalgia del trentennio appena finito. I sessantasettantaottanta. Tre blocchi temporali diversissimi tra di loro che però, aumentando il tempo e assottigliandosi la memoria, si sono saldati in un tutt’uno che ora non significa altro che musica per vecchi di merda come me. Un’operazione commerciale per raccogliere, in un unico target facilmente individuabile e raggiungibile con lo stesso prodotto, la malinconia per un’era che non esiste più.
E fa sorridere il fatto che gli anni novanta siano ancora considerati una cosa da giovani per via dei Nirvana, dei Prodigy e tutta quella roba che suona ancora terribilmente attuale. Ma “Nevermind”, ricordiamolo, è uscito solo l’anno successivo al primo gennaio 1990, eppure non si spiega la differente percezione del prima o dopo di uno spartiacque che poi in realtà non esiste.
Comunque in una festa sessantasettantaottanta stanno sullo stesso palco i Righeira con Umberto Tozzi e gli Abba e gli Europe e Samantha Fox, per dire. Ed è successo proprio così lo scorso sabato sera su RaiUno nel corso di una serata dedicata ai sessantasettantaottanta, trasmessa dall’Arena di Verona e condotta da una maestro delle cerimonie come Amadeus che, da un podio con tanto di postazione da DJ, lanciava uno dopo l’altro i mitici successi dei sessantasettantaottanta che mandano in estasi i vecchi di merda come me che hanno nostalgia dei sessantasettantaottanta.
In realtà c’era poco sessanta in quel contenitore, immagino perché gli artisti sopravvissuti iniziano a scarseggiare, fino a quando è salito sul palco Edoardo Vianello, classe 1938. Il re dell’estate ha cantato quello che il popolo dei sessantasettantaottanta vuole da lui. “Abbronzatissima”, “Guarda come dondolo” e cose così. Poi è stato il momento dei “Watussi”, un brano sul quale la furia iconoclasta della cancel culture non si è ancora abbattuta nel modo parziale che meriterebbe. Nel 2021, in un programma in onda sulla principale rete pubblica italiana in un sabato sera di fine estate o inizio autunno, si possono ancora cantare in coro i versi di una canzonetta sciocca che comprendono un appellativo ai tempi in uso ma, oggi, dichiaratamente razzista.
Il fatto è che cambiare quel pezzo di testo che dice “Ci sta un popolo di ne**i” mantenendo la metrica è facilissimo. Io, per esempio, lo sostituirei con
c’è quel popolo africano
che ha inventato tanti balli
Il più famoso è l’hully gully
Ci sono problemi ben più gravi? Può darsi. Io vi dico che se la gente assistesse a una rivoluzione epocale come un cambio di parole in una canzone strafamosa come “I Watussi” qualche considerazione se la porrebbe e, magari, penserebbe che se c’è arrivato uno come Edoardo Vianello, classe 1938, sul palco dell’Arena di Verona con le ballerine intorno che ballano l’hully gully (che poi come si balla l’hully gully non l’ho mai capito), a sferrare un gesto di rottura con gli schemi possiamo provarci anche noi.