La scuola è grande e tra colleghi non ci conosciamo tutti, un po’ come accade in certe multinazionali con headquarter e filiali. Qui c’è la sede principale con la presidenza, gli uffici amministrativi e la secondaria di primo grado. Poi ci sono i plessi della primaria e quelli dell’infanzia in distaccamenti veri e propri. Prima del Covid si tenevano i collegi docenti plenari in cui almeno potevamo incontrarci tutti di persona. Poi è subentrata la pandemia e, da allora, vediamo solo la faccia in videoconferenza di quelli di noi mostrati random dalla piattaforma che utilizziamo, sempre che si tenga la videocamera accesa. Qualcosa però mi dice che, quando anche un giorno il pericolo di contagio cesserà, continueremo a mantenere la stessa modalità perché, oggettivamente, è più comoda. Ma se aggiungiamo anche il fatto che ogni anno è un continuo via vai di docenti tra precari, supplenze e trasferimenti, il turn-over estremo impedisce di consolidare amicizie professionali oltre il proprio metro quadro, senza contare che – anche ne migliore dei casi – non è per niente facile. Non è come nelle aziende normali, in cui al netto della competizione per far carriera non è raro che nascano forti legami. Qui c’è moltissima umanità rispetto ai lavori orientati al profitto del datore di lavoro, però la mediazione degli studenti e le loro incessanti richieste di attenzione favoriscono la dispersione della portata relazionale degli insegnanti tanto che poi difficilmente, al termine della giornata lavorativa, ci si va a fare una birra tutti insieme. Qualche settimana fa ho passato un po’ di tempo, tra una lezione estiva e l’altra, con una collega che prima conoscevo solo di nome. Ho intuito solo dopo qualche scambio su esperienze molto simili che fossimo coetanei e gliene ho chiesto conferma. Non ci sarebbe nessun problema se non per il fatto che, prima di saperlo, ero certo fosse molto più grande di me. Una stima che, a pensarci a mente lucida, non ha senso. Ho 54 anni e molto più grande di me, alla mia età, significa 65/70 anni suonati. Mi vergogno di non riuscire a dare un’età al prossimo ma sono convinto che non si tratti di un problema di incapacità di focalizzare e trovare la sintesi o, peggio, di una considerazione anagrafica deviata che ho di me stesso. Anche se mi compro dischi di band i cui componenti hanno trent’anni meno di me non significa – almeno spero – che mi creda un irriducibile adolescente. Sono consapevole della mia età ma credo che l’essere anziani nel modo in cui pensiamo siano gli anziani sia una condizione culturale. E comunque si tratta di un modo di sentirsi che abbiamo tutti. Mia mamma mi dice spesso di percepirsi come la stessa persona di quando aveva 18 anni, poi si guarda allo specchio e vede un’anziana di 84 anni e resta delusa. Con la mia collega coetanea però abbiamo parlato di argomenti da anziani, e questo è ovvio perché, tutto sommato, siamo abbastanza anziani. Al termine della conversazione ero ancora più convinto della mia opinione, e cioè che non mi interessano le cose da vecchi e non mi riferisco alle malattie, ai nipoti o a com’era meglio quando eravamo giovani noi rispetto al presente. Voglio continuare a parlare di post-punk, di letteratura americana, di politica, di comunicazione digitale, argomenti per i quali pensavo fosse fondamentale la data di nascita, quanto hai già vissuto e il periodo che hai vissuto. Evidentemente non è così.