Nel corso di una trasmissione pomeridiana su RadioTre di qualche giorno fa, un rischioso microfono aperto, è sorto un dibattito tra conduttore e interventi degli ascoltatori su una tra le svariate conseguenze di questa pandemia. Oramai è un anno che siamo in ballo e non venite a dirmi che, debellato il virus, sarà tutto come prima. In giro si legge di adolescenti dagli psicologi, di persone che non fanno più sesso, di attacchi di claustrofobia da mura domestiche e, all’opposto, di panico per gli spazi aperti, e questo è niente rispetto a cose come l’impatto sull’economia, sulle dinamiche sociali, sulla fiducia nel futuro e, in generale, sull’ottimismo della gente, per non parlare della scuola allo sbando, delle maxi-risse tra ragazzini che non trovano altro per sfogare il nervosismo e di quello che aspetta la generazione che sta diventando adulta durante il C-19. Ieri però qualcuno ha posto una riflessione agli ascoltatori riguardo a tutto quello che abbiamo fatto in questi mesi di reclusione e, in particolare, su cosa abbiamo scritto durante il lockdown. Case editrici prese d’assalto da manoscritti, pagine e gruppi Facebook cresciute e alimentate a dismisura dai rispettivi iscritti, blog e memoriali di ogni sorta letteralmente esplosi e teatro di infinite discussioni tra utenti. Il tema ha poi avuto un seguito sui social, manco a dirlo, dove qualcuno suggeriva alla gente di scrivere di meno e leggere di più. Di provare a farci bastare le vite e le storie raccontate da autori capaci di intrattenerci rispetto a proporci come narratori improbabili.