Confesso di non aver mai pensato all’esperienza videoludica come a una “possibilità di vivere vite infinite che ne deriva e che in passato veniva tradizionalmente associata al romanzo”, come scrive Marco Montanaro nell’articolo/intervista a Lorenzo Fantoni, giornalista specializzato in videogiochi e tecnologia che ho avuto la fortuna di conoscere per lavoro. Dall’esperienza personale di amici sepolti nelle sale giochi e bar a sperperare la paghetta e, quindi, il frutto del lavoro dei genitori distruggendo astronavi a duecento lire a botta, ho sempre ricondotto i vdeogame a tempo sprecato e rubato a qualcosa di più interessante per bambini delle elementari, pregiudizio di cui ho trovato conferma da quando faccio l’insegnante di scuola primaria, un contesto in cui il raggio di interesse dei miei alunni – maschi – non va oltre Fortnite e Brawl Stars. In una recente puntata di Report, che ha compreso ancora un intervento di Lorenzo Fantoni, si sottolineava il valore identitario per le nuove generazioni cresciute con i videogiochi, i ragazzi di allora ma anche quelli di qualche decennio fa e che adesso ancora leggo trascorrere ore in questa dimensione virtuale, che ha superato in portata quello di musica, cinema e letteratura. La cosa mi ha fatto riflettere: quello che io ricerco nelle storie scritte, narrate e suonate in effetti può essere trovato in una vita parallela vissuta al di là di una console. L’esperienza provata in un videogioco è la più coinvolgente perché passiva per il fruitore, più facile da cogliere, a differenza di un romanzo, di un film o di un long playing. Il videogioco è il media più caldo di tutti, il più rovente: una full immersion con effetto presenza per chi gioca, diventa protagonista, sceglie e vive il proprio destino di una second life alternativa. Per tutto il resto, come le cose che preferisco, ci vuole più impegno e più pazienza. E se pensate a come ci siamo ridotti, tutto torna.