Morire a vent’anni inghiottiti da un impianto industriale sembra davvero una storia da lavoro in fabbrica d’altri tempi. Ho visto stabilimenti con livelli di automazione impressionanti. Vetture ciclopiche che muovono da sole, per centinaia di metri, bobine di acciaio pesantissime alle macchine che devono trattarle, guidate tramite rete e dotate di sensori che le rendono pronte a bloccarsi con ostacoli (umani in primis) nelle vicinanze. Robot industriali dalle forme più disparate spaccare il millimetro nel posizionamento di componenti, pericolosissimi in caso di errore per gli addetti al controllo. Linee di produzione che trascinano in forni di cottura qualsiasi cosa. Nastri mobili portare tubi metallici in box a temperature innaturali. Ruspe automatizzate caricare l’esatta quantità di sostanza chimica utile alla ricetta di materiali da costruzione. Tutto questo senza l’intervento di essere umano se non in fase di programmazione dei cicli e dei movimenti, e qualche operaio specializzato nei pressi. Nessun compito in particolare, tutto funziona alla perfezione. L’importante è non distrarsi, perché l’industria 4.0 e l’Internet delle cose, quando toppano, possono fare molto male.