I primi messaggi sulle numerose chat di cui faccio parte (team di classe, team di classe con la rappresentante dei genitori, team di interclasse, team di interclasse con le rappresentanti dei genitori di tutte le seconde, team di interclasse degli insegnanti dell’area logico-matematica, team di plesso, team di istituto di supporto alla dirigente) sono circolati a metà mattinata di giovedì. Dalle 00:00 di venerdì si chiude anche alla primaria, siamo in arancione scuro. Penso a quale possa essere la regola per la palette di questa pandemia se poi ogni volta c’è qualcuno che aggiunge una sfumatura per cambiare le carte in tavola. Se si potesse ricondurre tutto all’informatica ci sarebbero processi molto più rigorosi.
Mi sento male. Cerco qualche segno della consapevolezza di ciò che sta per accadere negli sguardi dei bambini nascosti dalle mascherine e mi sento male. Dal primo giorno di scuola non abbiamo saltato nemmeno un minuto. Un paio di miei alunni sono stati in quarantena ma per colpa dei genitori. Nessuno ha contratto il virus, almeno non risulta. Ci divertiamo un sacco, tutti quanti, e so che quando saranno a casa non sarà così.
Non so se e come dare la notizia. Li porto in giardino dopo la mensa e d’improvviso mi scopro più permissivo. Gli lascio lanciare le pietre per fare canestro che se passa un compagno sotto gli cadono in testa, spiaccicare i vermi con i sassi voluminosi anche a rischio di spappolarsi le dita, correre con i rami in mano che se cadono si infilzano.
Chissà se percepiscono qualcosa. Incrocio qualche collega furibondo quanto me. In realtà non sono arrabbiato. Piuttosto demoralizzato. Anzi, mi viene proprio da piangere. Ma se i maschi non possono farlo, figuriamoci gli insegnanti maschi. Di lì a poco un prof di italiano della secondaria porta fuori la classe per leggere insieme all’aperto “Io non ho paura”. Ha visto anche lui la notizia e dice che vuole sbollire la rabbia all’aperto.
Torniamo in classe e mi chiedo se abbia senso portarli lo stesso in laboratorio di informatica. So che ci tengono molto. La tentazione è restare in aula e proporre la visione de “Il mio vicino Totoro”. Poi mi ricordo di quel passaggio di “Se questo è un uomo” in cui le madri preparano ugualmente il pasto ai loro bambini pur sapendo che a breve saranno stipati nei vagoni piombati verso la morte. Mi rendo conto di drammatizzare in eccesso la cosa. In laboratorio gli faccio creare la tabella per ordinare gli elenchi che abbiamo preparato con gli animali classificati secondo ciò di cui si nutrono ma gli lascio scegliere un colore diverso per ogni nome e anche per lo sfondo di ciascuna cella.
Nel frattempo giunge la conferma ufficiale tramite circolare della dirigente. I giochi sono fatti. Con la collega decidiamo di parlare chiaro e, a qualche minuto dalla campanella, li aggiorniamo su quello che succederà da domani.
Quel poco che si vede delle loro facce sopra le mascherine parla chiaro. Simone, il cinico della classe, è contento di restare a casa, anche se non ci credo. Tutti gli altri hanno gli occhi lucidi. Denis dice che non gli piace non venire a scuola, è figlio unico e dovrà stare da solo. Cerchiamo di sembrare certi del fatto che si tratterà solo di una settimana, che comunque ci vedremo sul computer, che non dovremo assolutamente perderci di vista. L’esperienza mi insegna che sarà, ancora una volta, un ultimo giorno di scuola anticipato. Niente odori della primavera dalle finestre spalancate, niente visita didattica alla fattoria, niente vero ultimo giorno con il conto alla rovescia prima della campanella di fine anno.
Al cancello consegno come sempre ogni bambino a chi è venuto a prenderlo. Con i genitori ci scambiamo uno sguardo di compassione reciproca. Che ne sarà di loro senza di noi, che ne sarà di noi senza di loro.